Project Gutenberg's Ricordi di un garibaldino vol. II, by Augusto Elia

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Title: Ricordi di un garibaldino vol. II
       dal 1847-48 al 1900

Author: Augusto Elia

Release Date: March 30, 2011 [EBook #35716]

Language: Italian

Character set encoding: ISO-8859-1

*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK RICORDI DI UN GARIBALDINO VOL. II ***




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                                A. ELIA

                               RICORDI DI
                             UN GARIBALDINO
                          dal 1847-48 al 1900

                                  ROMA
                    TIPO-LITOGRAFIA DEL GENIO CIVILE


                                  1904




                             =CAPITOLO XIX.=

         =1860--Spedizione dei mille--Marsala--Salemi
    Calatafimi--Palermo--Milazzo--Reggio Calabria--Napoli--Volturno.=

  =Liberazione dell'Italia Meridionale consegnata a Vittorio Emanuele.=


Era il mese di aprile, e notizia giungeva che in Sicilia si combatteva
per scuotere il giogo borbonico e per la libertà. Già Francesco Crispi,
anima della parte più avanzata degli esuli siciliani, presi accordi con
Mazzini e col dittatore Farini, che pure era sempre inclinato a tutti
gli ardimenti per l'unificazione della patria, si era arrischiato a
recarsi nascostamente in Sicilia per dare anima e forza
all'insurrezione; i patrioti s'intesero e la sollevazione dell'isola,
che le brutalità del governo borbonico avevano resa fremente di libertà,
fu deliberata.--Si decise di fare del Convento della Gancia la base di
operazione della rivoluzione; e così fu. All'alba del 4 aprile, il suono
delle campane a stormo chiamava all'armi la città di Palermo. Alla testa
degli animosi, che dovevano cominciare il fuoco, era il popolano
Francesco Riso, anima di patriota e di eroe.

Fatalmente, come avviene sempre nelle cospirazioni, vi fu il delatore,
che informò il Maniscalco, il quale nella notte fatti occupare tutti gli
sbocchi che portavano al Convento, si tenne preparato per soffocare nel
sangue la sommossa popolare.

Al suono delle campane fu pronto il Riso ad uscire dal Convento, e
furono pronte altre squadre per sostenerlo. Ma sopraffatti dalle
soldatesche borboniche che sbucavano da ogni parte, furono ben presto
accerchiati e risospinti nel Convento, ove i prodi difensori venderono
cara la loro vita; assieme coi trucidati caddero da eroi il Riso ed il
Padre Angelo di Monte Maggiore.

Anche le bande armate, che secondo gli accordi da ogni parte si erano
accostate ai sobborghi ed alle porte della città, dovettero ritirarsi ai
monti non essendo più sostenute dalla insurrezione interna; ma la
rivolta non era vinta perchè le squadre non si sgomentarono e non si
sciolsero, ma si mantennero nelle alture resistendo agli attacchi.

Al generale Garibaldi furono resi noti questi fatti; ma in seguito le
notizie giungevano troppo incerte: quali dicevano che anche gli insorti
delle campagne erano stati domati; quali invece affermavano che essi
mantenevano coraggiosamente vivo il fuoco dell'insurrezione, dando filo
da torcere alle truppe borboniche.

Bisognava accertarsi del vero stato delle cose dell'Isola, e Rosolino
Pilo e Corrao, cari patrioti siciliani, si presero l'impegno di sfidare
il pericolo di recarsi in Sicilia per abboccarsi cogli insorti,
infondere in essi nuova lena per la resistenza e mandare informazioni. A
tale uopo Garibaldi consegnava loro una lettera con caldo appello ai
patrioti siciliani.

                                    *
                                   * *

Intanto anche Nicola Fabrizi, grande patriota, mandava da Malta a Crispi
non liete novelle sull'insurrezione siciliana. Ma Crispi che voleva far
decidere risolutamente Garibaldi alla spedizione, faceva sapere a modo
suo che le notizie erano buone.

I più decisi erano Crispi, Bertani, Bixio; Stefano Türr dichiarava che
avrebbe seguito Garibaldi in qualsiasi spedizione. Sirtori faceva la
stessa dichiarazione; Medici decideva di rimanere per seguire il
generale con altre spedizioni.

Le insistenze di Crispi, di Bertani, di Bixio, la vinsero. Il 1º di
maggio dalla bocca di Garibaldi usciva la fatidica parola «Partiremo!»
Elia, che si teneva sempre presso al generale e che ebbe l'incarico di
preparare gli equipaggi, avrebbe voluto chiamare i marinari che aveva
avuto sotto i suoi ordini nei legni armati a Rimini, ma Garibaldi non
credette di accordargli tale consenso, perchè non voleva si propagasse
troppo la notizia della spedizione. A Genova vi erano buoni marinari,
fra i quali i nostromi Lorenzo Carbonari, Demetrio Conti e Fabi Eugenio;
li arruolò e mandò il Capitano della Marina Mercantile Carlo Burattini,
per arruolarne altri a Livorno. Bixio ebbe l'incarico di provvedere al
resto, e fu aiutato dal patriota garibaldino Francesco Carbone.
Occorrevano vapori e fissò col Rubattino la presa di possesso, a momento
opportuno, dei due vapori «Piemonte» e «Lombardo». Tutto fu in breve
pronto. Nella notte del 4 al 5 maggio chiamato in casa sua Andrea Rossi
(uno dei comandanti dei legni armati a Rimini) ed Elia, Bixio dispose
che Rossi prendesse possesso senza rumore del «Piemonte» con metà
dell'equipaggio e con Schiaffino ed Elia, con l'altra metà
dell'equipaggio e con Menotti Garibaldi, s'impossessasse del «Lombardo».

La presa di possesso dei vapori fu eseguita col massimo ordine e
silenzio. Quando Bixio arrivò col rimorchiatore, gli ormeggi erano già
stati abbandonati, e tutto era pronto. Accodato al rimorchiatore il
«Piemonte», e dietro al «Piemonte» il «Lombardo», alle 5 del mattino del
5 maggio i vapori erano già fuori di Quarto, per ricevere a bordo il
generale Garibaldi ed i mille suoi seguaci.

Prima d'imbarcarsi il generale Garibaldi aveva raccomandato al suo
grande amico Medici di preparare altre legioni che, da lui comandate, lo
avessero raggiunto in Sicilia se la sorte gli fosse stata propizia--e il
Medici, ossequiente ai desideri di Garibaldi, scriveva al Panizzi a
Londra così:

                                           Genova, 6 maggio 1860.

    Caro Panizzi,

«Garibaldi con 1000 uomini corre il mare in due battelli a vapore da
ieri mattina alla volta della Sicilia. L'impresa è generosa; Dio la
proteggerà, e proteggerà la fortuna dell'eroico condottiero.

«Io sono rimasto per appoggiare l'ardita iniziativa con una seconda
spedizione, _o meglio con una potente diversione altrove_; ma i mezzi ci
mancano. Bertani ha fatto miracoli di attività che molto hanno prodotto,
ma che la prima spedizione ha completamente esauriti.

Caro Panizzi, non lasciarci soli, non lasciamo solo il nostro Garibaldi
e i suoi generosi compagni».

                                                        Tuo affmo
                                                         _Medici_

Effettuatosi l'imbarco nel più breve tempo possibile, si fece rotta per
la riviera di Levante a piccola velocità attenti tutti se si vedevano le
barche che ci dovevano portare a bordo le carabine inglesi, i revolvers
e le munizioni.

Appena montato sul ponte di comando del «Piemonte» Garibaldi aveva
domandato al Castiglia ed al Rossi se si erano imbarcate queste armi.
Avuta risposta negativa, sorse nella sua mente un terribile dubbio: egli
fece tosto segnalare al «Lombardo» di accostarsi e arrivato a portata,
con voce tonante, gridò:

--Bixio, quanti fucili e munizioni avete caricati?

--Mille fucili--rispose Bixio.

--E i revolvers, le carabine e le cartucce? ribatté Garibaldi.

---Null'altro, replicò Bixio.

Fu un brutto colpo--e si pensò ad un basso tradimento--Anche da Livorno
ci dovevano venire armi e munizioni, ma anche quelle mancarono.

Il «Piemonte», comandato da Garibaldi in persona, procedeva avanti.
Aveva per ufficiali, sotto gli ordini suoi, Castiglia comandante in
seconda, Rossi, Schiaffino e Gastaldi; con Garibaldi erano Crispi, Türr,
Sirtori, Missori, e Nuvolari.

Seguiva il «Lombardo» comandante Bixio, secondo comandante Elia,
ufficiali Dezza, Menotti Garibaldi, e Carlo Burattini, capo macchinista
Orlando Giuseppe.

Per quanto costeggiando, si cercassero per ogni dove, le barche con le
armi e munizioni non si presentavano in vista; e perduta ormai la
speranza, il generale ordinò rotta a tutta forza pel canale di Piombino.

Il «Piemonte» ed il «Lombardo» portavano sul loro bordo l'Italia e la
sua fortuna; se la spedizione riusciva, l'unità della patria era
assicurata; se falliva, i Mille sarebbero sempre rimasti immortali!

La spedizione del resto non si nascondeva al nemico: la pubblicità data
alla lettera lasciata da Garibaldi a Bertani prima della partenza, la
rendeva nota al mondo. Eccola:

                                            Genova, 5 maggio 1860

    Mio caro Bertani,

«Spinto nuovamente sulla scena degli avvenimenti patrii, io lascio a voi
il seguente incarico.

«Raccogliere quanti mezzi sono possibili per coadiuvarci nella nostra
impresa.

«Procurare di far capire agli Italiani, che se saremo aiutati
devotamente, sarà fatta l'Italia in poco tempo e con poca spesa; ma che
non avranno fatto il dovere, quando si limiteranno a qualche sterile
sottoscrizione.

«Che l'Italia libera, d'oggi in luogo di 20,000 soldati deve armarne
500,000, numero non certamente sproporzionato alla popolazione, poichè
tale proporzione di soldati l'hanno gli Stati vicini, che non hanno
indipendenza da conquistare.

«Con tale esercito l'Italia non avrà più bisogno di padroni stranieri,
che se la mangiano a poco a poco col pretesto di liberarla.

«Che ovunque sono italiani che combattono oppressori, fa bisogno
spingere gli animosi e provvederli del necessario per il viaggio.

«Che l'insurrezione siciliana non solo in Sicilia bisogna aiutare, ma
dovunque sono nemici da combattere.

«Io non consigliai il moto della Sicilia, ma venuti alle mani quei
fratelli nostri, io ho creduto obbligo di aiutarli.

«Il nostro grido di guerra sarà _Italia e Vittorio Emanuele_ e spero,
che anche questa volta, la bandiera italiana non riceverà sfregio.

                                               Vostro con affetto
                                                 _G. Garibaldi_»

Altra lettera aveva già diretta il giorno innanzi al Re Vittorio
Emanuele:

                                            Genova, 4 maggio 1860

          Sire,

«Il grido d'affanno, che dalla Sicilia arrivò alle mie orecchie ha
commosso il mio cuore e quello di alcune centinaia dei miei vecchi
compagni d'armi. Io non ho consigliato il movimento insurrezionale dei
miei fratelli di Sicilia, ma dal momento che essi si sono sollevati a
nome dell'unità italiana, di cui Vostra Maestà è la personificazione,
contro la più infame tirannia dell'epoca nostra, non ho esitato di
mettermi alla testa della spedizione. So bene, che m'imbarco per
un'impresa pericolosa, ma pongo confidenza in Dio, nel coraggio e nella
devozione dei miei compagni.

«Il nostro grido di guerra sarà sempre «Viva l'Unità Italiana!» «Viva
Vittorio Emanuele, suo primo e più bravo soldato!»

«Se noi falliremo, spero che l'Italia e l'Europa liberale, non
dimenticheranno che questa impresa è stata decisa per motivi, puri
affatto da egoismo, ed interamente patriottici.

«Se riusciremo, sarò superbo di ornare la Corona di Vostra Maestà di
questo nuovo e brillantissimo gioiello, a condizione tuttavia, che
Vostra Maestà si opponga a ciò che i di Lei consiglieri cedano questa
Provincia allo straniero, come hanno fatto della mia terra natale.

«Io non ho partecipato il mio progetto a Vostra Maestà; temevo infatti,
che per la reverenza che Le professo, Vostra Maestà non riuscisse a
persuadermi d'abbandonarla.

«Di V. Maestà, Sire, il più devoto suddito

                                                  _G. Garibaldi_»

Ed all'esercito scriveva così:

          Soldati Italiani,

«Per alcuni secoli la discordia e l'indisciplina furono sorgenti di
grande sciagure pel nostro paese. Oggi è mirabile la concordia che anima
le popolazioni tutte dalla Sicilia alle Alpi. Però di disciplina difetta
ancora, e su di voi, che sì mirabile esempio ne deste e di valore, essa
conta per riordinarsi e compatta presentarsi al cospetto di chi vuole
manometterla. Non vi sbandate dunque, o giovani, resto delle patrie
battaglie; sovvenitevi che anche nel settentrione abbiamo nemici e
fratelli schiavi--e che le popolazioni del mezzogiorno, sbarazzate dai
mercenari del Papa e del Borbone, abbisogneranno dell'ordinato vostro
marziale insegnamento, per presentarsi a maggiori conflitti.--

«Io raccomando dunque, in nome della patria rinascente, alla gioventù
che fregia le file del prode esercito di non abbandonarle, ma di
stringersi vieppiù ai loro valorosi ufficiali ed a Vittorio Emanuele, la
di cui bravura può essere rallentata un momento dai pusillanimi
consiglieri, ma che non tarderà molto a condurci tutti a definitiva
vittoria.

                                                  _G. Garibaldi_»

La mattina del 7 maggio i due piroscafi andarono ad ancorare a Talamone,
a breve tratto dal porto S. Stefano e della fortezza di Orbetello.
Garibaldi, sceso a terra, vestito da generale del 1859, ottenne dal
comandante del luogo tutto quello che gli occorreva, limitatamente alla
possibilità sua; così si ebbe un piccolo numero di fucili arrugginiti ed
una vecchia colubrina. Saputo dal comandante di Talamone, che nel forte
di Orbetello sì trovava altro armamento, il generale vi spediva il
colonnello Türr con una sua lettera chiedente al colonnello Giorgini,
comandante del forte, armi e munizioni. Verso sera giungeva col Türr, lo
stesso comandante di Orbetello, il quale fatto persuaso dal Türr che la
spedizione di Garibaldi era fatta sotto gli auspici del Re, aveva messo
a disposizione del generale tutto quello che di armamento si trovava nel
forte, e cioè quattro cannoni da sei con 1200 cariche, alcuni fucili,
cartucce ecc. Dei quattro cannoni due erano col fusto, due senza.

Una parte dello scopo era raggiunto, ma il generale approdando a
Talamone aveva in animo un disegno molto più alto. Il pensiero,
vagheggiato nel 1859 di una invasione nello Stato Pontificio per la
Cattolica non era mai stato da lui dimenticato. Egli sperava che, data
la spinta, sapendosi la Sicilia sollevata, una vasta sommossa avrebbe
messo in fiamme la Penisola tutta; per cui, fatto chiamare a se il
colonnello Zambianchi, gli affidava l'incarico d'invadere lo Stato
Pontificio dalla parte di Orvieto, per promuovervi la rivoluzione. A tal
uopo staccò dagli imbarcati una schiera di 60 prodi armati e consegnato
al Zambianchi un manifesto pei Romani ed un foglio d'istruzioni, gli
ordinò dì prepararsi alla partenza. Fra i tanti bravi che ebbero ordine
di accompagnare il Zambianchi eranvi pure i cari compagni Guerzoni,
Pittaluga e Galliano.

Il manifesto diceva così:

          Romani,

«Domani voi udirete dai preti di Lamoricière, che alcuni mussulmani
hanno invaso il vostro terreno. Ebbene questi mussulmani sono gli stessi
che si batterono per l'Italia a Montevideo, a Roma, in Lombardia! Quelli
stessi che voi ricorderete ai vostri figli con orgoglio, quando giunga
il giorno che la doppia tirannia dello straniero e del prete vi lasci la
libertà del ricordo! Quelli stessi che piegarono per un momento davanti
ai soldati agguerriti e numerosi di Bonaparte, ma piegarono colla fronte
rivolta al nemico, ma col giuramento di tornare alla pugna, e con quello
di non lasciare ai loro figli altro legato, altra eredità, che quella
dell'odio all'oppressore ed ai vili!

«Sì, questi miei compagni combatterono fuori delle vostre mura accanto a
Manara, Melara, Masina, Daverio, Peralta, Panizzi, Ramorino, Mameli,
Montaldi, e tanti vostri prodi che dormono presso alle vostre catacombe,
ed ai quali voi stessi deste sepoltura perchè _feriti per davanti_.

«I vostri nemici sono astuti e potenti, ma noi marciamo sulla terra
degli Scevola, degli Orazi e dei Ferrucci; la nostra causa è la causa di
tutti gli Italiani: il nostro grido di guerra è lo stesso che risuonò a
Varese ed a Como «Italia e Vittorio Emanuele» e voi sapete che con noi,
caduti o viventi, sarà illeso l'onore italiano.

                                           _G. Garibaldi_

                               generale Romano, nominato da un governo
                           eletto dal suffragio universale».

Prima di partire da Talamone scriveva a Bertani così:

          Caro Bertani,

«Nella notte della nostra partenza si smarrirono due barche che
portavano le munizioni, i capellozzi, tutte le carabine e revolvers, 230
fucili ecc. Nel giorno seguente cercammo indarno tali barche per molte
ore, e poi proseguimmo.

«Qui abbiamo rimediato alle principali urgenze, grazie alla buona
volontà delle autorità di Orbetello e di queste.

«Fra poco avrete altre notizie di noi.

«Frattanto fate ritirare tutti gli oggetti suddetti.

«Con affetto.

          «Talamone, 8 maggio

                                           Vostro: _G. Garibaldi_

Poi perchè nessuno dovesse aver danno in causa della presa di possesso
dei due vapori «Piemonte» e «Lombardo» mandava a Genova la seguente
lettera:

_Ai Signori Direttori dei Vapori Nazionali_

          Signori,

«Dovendo imprendere un'operazione in favore d'italiani militanti per la
causa della patria, di cui il governo non può occuparsi per diplomatiche
considerazioni, ho dovuto impadronirmi di due vapori dell'amministrazione
dalle LL. SS. diretta e farlo all'insaputa del governo stesso e di tutti.

«Io attuai un atto di violenza: ma comunque vadano le cose io spero che
il mio procedimento sarà giustificato dalla santa causa da noi servita
e che il paese intero vorrà riconoscere come debito suo da soddisfare, i
danni da me recati all'amministrazione.

«Quandochè non si verificassero le mie previsioni sull'interessamento
della Nazione per indennizzarli, io impegno tutto quanto esiste in
denaro e materiale, appartenente alla sottoscrizione pel milione di
fucili, acciocchè con questo si paghi qualunque danno, avaria, o perdita
a LL. SS. cagionata. Con tutta considerazione

                                                   _G. Garibaldi_

          Genova, 5 maggio 1860.

                                   *
                                  * *

Alla mattina dell'8 maggio, salpati da Talamone, ancorarono nel porto
vicino di S. Stefano per prendervi il resto delle provvigioni, ed alla
sera si misero in rotta per ponente libeccio colla prua verso l'Africa.
Fra le istruzioni date dal generale Garibaldi a Bixio, principali erano
le seguenti: Seguire il «Piemonte», e se si fosse incontrata qualche
nave da guerra nemica, correre addosso all'arrembaggio.

Prima di lasciare Talamone venne affisso sull'albero di maestro dei due
vapori il seguente

                            ORDINE DEL GIORNO:

                                     Maggio 7, di bordo del Piemonte.

          «Cacciatori delle Alpi!

«La missione di questo Corpo è basata sull'abnegazione la più completa
davanti alla rigenerazione della patria. I prodi cacciatori servirono e
serviranno il loro paese colla devozione e disciplina dei migliori corpi
militari, senz'altra speranza che quella della loro incontaminata
coscienza. Non gradi, non onori, non ricompense allettarono questi
bravi.

«Essi si rannicchiarono nella modestia della loro vita privata allorchè
scomparve il pericolo; ma, suonando di nuovo l'ora della pugna, l'Italia
li rivede ancora in prima fila, volenterosi e pronti a versare il loro
sangue per essa.

«Il grido di guerra dei Cacciatori delle Alpi è lo stesso che rimbombò
sulle sponde del Ticino, or son dodici mesi: «_Italia e Vittorio
Emanuele_» e questo grido, pronunciato da eroi, susciterà spavento ai
nemici d'Italia.--

                                                  _G. Garibaldi_»

                                   *
                                  * *

L'organizzazione del corpo era la seguente:

                             Stato Maggiore

Sirtori Giuseppe, capo di stato maggiore. Türr, primo aiutante del
generale Garibaldi. Crispi, segretario di stato. Manin, Salvino,
Maiocchi, Grazziotti, Borchetta, Bruzzesi, Cenni, Montanari, Bandi,
Stagnetti, ufficiali d'ordinanza.

Basso Giovanni, segretario generale.

                       Comandanti delle Compagnie

    Nino Bixio, comandante la 1ª Compagnia
    Orsini         »         2ª     »
    Stocco         »         3ª     »
    La Masa        »         4ª     »
    Anfossi        »         5ª     »
    Carini         »         6ª     »
    Cairoli        »         7ª     »

                               Intendenza

                      Acerbi, Bovi, Maestro, Rodi

                              Corpo Medico

                       Ripari, Giulini, Boldrini

Un ordine di Garibaldi diceva:

«L'organizzazione è la stessa dell'Esercito italiano a cui apparteniamo,
ed i gradi, più che al privilegio, al merito, sono gli stessi già
coperti su altri campi di battaglia.

                                                  _G. Garibaldi_»

Prima di lasciare S. Stefano Garibaldi fece formare un'ottava compagnia,
comandante Bassini; della 2ª fu dato il comando a Dezza e l'Orsini ebbe
il comando dell'artiglieria.

In due giorni di viaggio nulla di notevole accadde.

La sera del 10 all'11 maggio il «Piemonte» fatto forza di macchina,
cominciò a lasciarsi indietro il «Lombardo» che camminava due nodi
all'ora di meno, fino a scomparire totalmente dalla vista dei
comandanti, per quanto si fosse fatto attivare maggior combustibile per
mantenersi vicini.

Era certo intenzione del generale Garibaldi di spingersi quanto più
avanti poteva, per scoprire il Marittimo, prima del cadere della notte:
però, se per il «Piemonte», che portava con sè il comandante della
spedizione tutto andava bene, non era così del «Lombardo» che, perduto
di vista il «Piemonte», aveva perduta la sua guida, e non sapeva quale
direzione tenere. Intanto la notte era scesa oscura, e Bixio sul ponte
di guardia, con l'ansietà di chi sente una gravissima responsabilità
pesare sopra di sè, stava assieme con Elia, spiando se da prua si
scoprisse una traccia del «Piemonte». Si era giunti in vista del
_Marittimo_ ed il «Piemonte» non si vedeva. Ad un tratto dal timoniere
si dà l'avviso, che un vapore era in vista dalla parte di poppa; ed
infatti dal lato opposto a quello ove il «Piemonte» era scomparso se ne
scopriva uno, che si avanzava su noi guadagnando rapidamente sul nostro
cammino. Esso aveva, i fanali spenti; questa precauzione (che se era
necessaria per noi, che volevamo passare inosservati, non poteva esserlo
per un _pacchetto postale_ od altro ordinario vapore) fece credere a
Bixio che avessimo a che fare con un naviglio borbonico in crociera;
ordinò quindi che si desse la maggiore velocità alla macchina e che
tutto si approntasse per un arrembaggio, se non fosse stato possibile
evitare il combattimento.

La nave che si supponeva nemica intanto si avanzava sempre più, il che
rendeva impossibile ogni sforzo per non essere raggiunti. Bixio,
raccomandando il silenzio, tutto dispose per l'arrembaggio e per una
pronta ed energica azione pregando Elia di prendere egli stesso il
timone per meglio dirigere l'abbordaggio. Era il vapore giunto a breve
distanza, quando il suono della campana colla quale il generale
Garibaldi era uso comandare le manovre del naviglio, ed al quale Elia si
era abituato nei passati giorni di continua sorveglianza, venne a
colpire le sue orecchie. Lasciò Elia subito il timone ad un marinaio
corse sul ponte di guardia per avvisare Bixio che il vapore che faceva
forza di macchina per raggiungere il «Lombardo» era il «Piemonte», e
tale fu la convinzione che Elia mise in questa asserzione, e tanta era
la fiducia che Bixio aveva nel suo secondo, che ordinò alla macchina di
fermare per attendere l'arrivo del generale; e difatti poco appresso la
voce di Garibaldi si faceva sentire nelle tenebre, ordinando di dirigere
su Marsala!

Verso le nove del mattino il «Piemonte» ed il «Lombardo» erano in
prossimità di Marsala, quando dalla punta di Mazzara si scoprirono tre
legni da guerra borbonici, che si avanzavano rapidamente per tagliare il
cammino alla spedizione ed impedirle l'arrivo in quel porto. A costo di
far saltare le caldaie bisognava fare sforzi di macchina supremi, per
arrivare primi; ed a ciò si riuscì. Il «Piemonte» arrivato avanti il
«Lombardo» sia perchè pescava meno, sia perchè potè rasentare più il
molo, passò liberamente e si accostò al molo stesso, al riparo
dell'antimurale del porto.

Il «Lombardo» invece per il suo maggiore pescaggio rimase in secco a
pochi passi dalla bocca del porto. Messe a mare le imbarcazioni, Bixio
scese tosto a terra per raggiungere il generale, lasciando ad Elia gli
ordini per lo sbarco dei volontari, delle armi e munizioni.

Elia ordinò tosto a Burattini di requisire quante imbarcazioni si
trovavano nel porto, e giunte queste in numero sufficiente, si effettuò
lo sbarco con ordine e prontezza ammirabile. Presa terra la parte dei
Mille che erano sul «Lombardo», scaricate le munizioni e le armi, il
generale Garibaldi mandò ordine ad Elia di uscire dal porto, e procurare
di raggiungere Genova per mettersi a disposizione del Comitato
presieduto da Bertani. Dovevasi ubbidire! ma mentre Elia provava di
trarre dal secco il vapore, obbedendo con dolore agli ordini del
generale, i legni borbonici presero a lanciare delle bordate: sicchè
poco appresso, vedendo che i legni napolitani avevano messe a mare le
imbarcazioni armate e s'avanzavano per impossessarsi dei nostri vapori,
ordinò ai marinari di entrare nelle imbarcazioni, e fatte aprire le
valvole della macchina, perchè penetrasse l'acqua nella stiva, e si
impedisse che il «Lombardo» cadesse preda del nemico, come avvenne poi
del «Piemonte», scesero tutti a terra.

                                   *
                                  * *

È bello, è doveroso il dire che fu ammirevole l'accoglienza fatta agli
sbarcati dalla patriottica cittadinanza marsalese. Essa accolse i Mille
con esultanza. Vecchi e giovani, uomini e donne--persone civili e
popolani fecero a gara per usare loro ogni sorta di gentilezze--facendo
echeggiare grida di «evviva Garibaldi».

Il generale dispose che Missori occupasse con forza la porta Trapani.

Bruzzesi, vestito da ufficiale dei bersaglieri, con una pattuglia di
camicie rosse, ebbe ordine di occupare l'ufficio postale e telegrafico.

Mosto, coi bravi carabinieri genovesi, fu appiattato nella scogliera che
forma il porto per respingere le imbarcazioni armate distaccate dalle
navi da guerra borboniche e difatti pochi tiri delle brave carabine
bastarono a metterle in ritirata. Le truppe rimasero scaglionate durante
la notte, a destra e a sinistra della città.

Ecco il proclama che il generale Garibaldi indirizzava al popolo
Siciliano appena sbarcato a Marsala:

          Siciliani,

«Io vi ho guidato una schiera di prodi, accorsi all'eroico grido della
Sicilia. Resto delle battaglie lombarde, noi siamo con voi e non
chiediamo altro che la liberazione della vostra terra. Tutti uniti,
l'opera sarà facile e breve. All'armi dunque; chi non impugna un'arma è
un codardo o un traditore della patria. Non vale il pretesto della
mancanza delle armi. Noi avremo fucili, ma per ora un'arma qualunque ci
basta, impugnata dalla destra di un valoroso.

«I Municipi provvederanno ai bimbi, alle donne ed ai vecchi derelitti.
All'armi tutti! La Sicilia insegnerà ancora una volta, come si liberi un
paese dagli oppressori, colla potente volontà di un popolo unito.

                                                  _G. Garibaldi_»

Occorreva però non perdere tempo, e marciare avanti al più presto.
Garibaldi comandò quindi che all'alba dell'indomani tutta la colonna
fosse pronta alla partenza, ed infatti la mattina si metteva per la via
di Salemi. A Rampagallo, feudo del Barone Mistretta, fu ordinato il
_grand'alto_ per pernottarvi. Fu in questa prima tappa, che si ebbero i
primi segni dell'insurrezione siciliana, perchè vedemmo con gioia
arrivare le bande comandate dai Baroni di S. Anna, e quelle del Barone
Mocarta. Saranno stati un'ottantina, armati di schioppetti.

Intanto fu riordinata la Legione, già ripartita in otto compagnie; si
formarono con esse due battaglioni ai comandi di Bixio e Carini, e si
organizzò coi marinai del «Piemonte» e del «Lombardo» una compagnia di
cannonieri.

Alla mattina seguente la colonna si rimetteva in via per Salemi, dove,
dopo una marcia alquanto faticosa, arrivava accolta da grande festa di
popolo, e al suono delle campane e di musica. Un vero delirio! A Salemi,
il generale pubblicò il Decreto col quale per volontà dei liberi comuni
di Sicilia, ed in nome di Vittorio Emanuele, Re d'Italia, assumeva la
Dittatura.

          _Italia e Vittorio Emanuele._

«Giuseppe Garibaldi, comandante in capo l'armata nazionale in Sicilia,
invitato dai principali cittadini e sulla deliberazione dei Comuni
liberi dell'Isola, considerando che in tempo di guerra è necessario che
i poteri civili e militari sieno concentrati nelle medesime mani,
decreta di prendere la dittatura di Sicilia in nome di Vittorio
Emanuele.

Salemi, 14 maggio.

                                                   _G. Garibaldi_

Altre bande intanto arrivavano, comandate da Giuseppe Coppola e dal
frate Pantaleo, che davano notizia che Rosolino Pilo e Corrao tenevano
sempre la campagna e con una mano di prodi erano nelle alture di S.
Martino, dominanti Monreale; si sapeva pure che verso Missilmeri
mantenevansi, asserragliati sulla montagna, il La Porta, il Firmatari,
il Piediscalzi, il Paternostro, e, cosa significantissima e per noi
sorprendente, il clero faceva parte della rivoluzione e ne era il
principale istigatore.

Ma il Borbone non stava inoperoso. Ordini erano stati dati al comando
delle truppe di Sicilia, per arrestare la marcia dei garibaldini e
distruggerli.

Infatti nella notte del 14 al 15 maggio Garibaldi aveva notizia che il
generale Landi con un corpo di 3000 uomini ed artiglieria marciava su
Calatafimi, e che a quella volta si era pure avviato il presidio di
Trapani.

Le bande dei _Picciotti_ non erano ancora giunte nel numero che il
generale avrebbe desiderato. Era dunque da pensare bene se con lo scarso
numero di volontari male armati, fosse prudente attaccare posizioni
fortissime, coperte ai fianchi ed alle spalle e difese da truppe
regolari armate da buone carabine e da artiglieria.

Non sarebbe forse stato più prudente consiglio trincerarsi in Salemi,
occupare coi _Picciotti_ le alture circostanti ed attendervi l'attacco?

Sì sarebbe potuto ricevere il nemico con una energica controffensiva e
costringerlo alla ritirata; le bande avrebbero avuto tempo di formarsi
numerose ed accorrere in aiuto, attaccando il nemico alle spalle.

Ma Garibaldi era impaziente di misurarsi col nemico; sentiva nell'animo
che una vittoria gli era necessaria; senza di che tutto sarebbe stato
compromesso e, forse, tutto perduto.

Non era dunque il caso di attendere il nemico a Salemi; bisognava
andargli incontro audacemente, romperlo e sloggiarlo ad ogni costo da
Calatafimi.

E così fu deciso.

La posizione nella quale eransi accampati i napolitani, chiamata fin
dall'epoca romana «_il Monte del Pianto_» era forte per se stessa,
perchè mentre impediva un rapido attacco, offriva validissimo riparo
alla difesa.

Da Vita, villaggio che si erge su di un poggio a cinque chilometri circa
da Salemi, Garibaldi dispose che le bande Siciliane che sopraggiungevano
e si andavano raccogliendo, si distendessero il più diffusamente
possibile sul dorso delle colline a destra e a sinistra della strada,
mostrandosi sempre pronte alla pugna. Dopo questo spiegamento Garibaldi
ordinava la marcia in avanti della colonna, con la sinistra in testa.

Precedeva Carini con l'ottava compagnia cui tenevano dietro la settima,
la sesta e la quinta; al centro marciava l'artiglieria i cui avantreni
consistevano in carri comuni a due ruote; poi alcuni volontari del
genio, e i marinari del _Piemonte_ e del _Lombardo_. Seguiva il
battaglione Bixio con le altre quattro compagnie.

Durante la marcia Garibaldi si spingeva in avanti con alcune sue guide,
avendo al fianco il capitano Menotti suo figlio, il capitano Schiaffino
ed il maggiore Elia, i quali non avendo voluto accettare comandi,
formavano la guardia del corpo del generale. Osservata la posizione del
nemico, che, colla sua linea di cacciatori coronava l'altura del
«Pianto», senza indugio inviava ai suoi l'ordine di schierarsi sulle
pendici di Monte Pietralunga e sulla strada.

Egli aveva appena le forza di un battaglione sul piede di guerra, e
dovette disporlo secondo esigeva il terreno, lo scarso numero dei suoi e
la posizione formidabile del nemico.

Stabilì quindi un ordinamento profondo e rado in linee successive; i
Carabinieri Genovesi in prima linea dietro ripari naturali; poi stese
l'ottava e la settima compagnia in cacciatori colle squadriglie a brevi
intervalli sul versante dell'avvallamento che separava la sua posizione
da quella nemica e le teneva nascoste nel grano già alto; in seconda
linea stavano le altre due compagnie 6ª e 5ª, pure in ordine rado, quasi
sul ciglio; ed a rovescio del ciglio aspettava il battaglione di Bixio
in riserva.

Questo schieramento si fece in ordine mirabile.

Da una parte e dall'altra delle alture apparivano secondo l'ordine di
Garibaldi, sui verdi dossi gli insorti siciliani, che per entusiasmo
sparavano i loro fucili e mandavano alte grida di guerra, che si
ripercuotevano minacciose per le lontane campagne.

Questa apparizione, nel momento in cui si stava per venire alle mani,
dovette certo, come aveva preveduto il generale, produrre sgomento e
depressione nell'animo delle truppe napoletane, mal disponendole alla
battaglia.

Verso il mezzogiorno parve che il nemico accennasse ad un serio attacco.
I suoi sostegni si avvicinarono alla linea dei cacciatori, la quale
cominciò a spiegarsi, scendendo per la costa del monte del Pianto. Per
giungere fino a noi, doveva toccare il fondo del Monte, passare la
convalle e rimontare la china verso l'altura di Pietralunga. Garibaldi
avrebbe avuto grande vantaggio nell'attirare il nemico in basso,
attendendolo a piè fermo nella posizione occupata dai suoi; egli veniva
a paralizzare così la superiorità delle sue armi da fuoco e al momento
opportuno, che egli avrebbe saputo ben cogliere, avrebbe potuto
rovesciare addosso ai Napoletani le forze garibaldine coll'impeto
irresistibile dell'attacco alla baionetta. A questo intento Garibaldi
ordinò ai suoi di star tranquilli, distesi a terra e di non sparare
alcun colpo.

Ma l'offensiva dei napoletani fu un lampo passeggiero e si arrestò poco
dopo iniziata; invece di un attacco a fondo, essi si limitarono a
mandare qualche colpo di fucile, le cui palle fischiarono alle orecchie
dei garibaldini come un eccitamento del quale essi non avevano davvero
bisogno. Ma non si doveva rispondere, bisognava mordere ancora il freno!

Intanto Bixio, di cui è da immaginarsi l'impazienza di venire alle mani,
venne a spiegarsi a sinistra di Carini col suo battaglione su due linee,
completando l'ordine di battaglia con dinanzi i Carabinieri Genovesi,
all'ala destra, Bixio alla sinistra; Orsini sulla strada colla sua
microscopica artiglieria. Garibaldi intanto con a fianco Turr suo
aiutante di campo e Sirtori capo di Stato Maggiore, stava spiando il più
fuggevole dei momenti tattici; quello che decide sempre della vittoria.

Vedendo che il nemico non si spingeva all'attacco desiderato, ma
rimaneva immobile, egli ordinò si suonasse la sveglia, sperando che
questo segnale servisse a scuoterlo. L'effetto prodotto da quel suono di
tromba fu affatto contrario; quei napoletani che si erano spinti avanti
in catena batterono tosto in ritirata; e fu quello il momento in cui
_Menotti Garibaldi_, _Schiaffino con la bandiera in pugno_ (una bandiera
da lui improvvisata a bordo del Piemonte, e non già quella che la città
di Montevideo donava alla Legione comandata dal generale Garibaldi) e
l'_Elia_ si lanciarono dietro ai fuggenti, seguiti dai Carabinieri
Genovesi che formavano la prima linea. Fra i cacciatori del Landi
fuggenti, i tre garibaldini erano con essi montati sulla banchina,
fortissima posizione del nemico: _Schiaffino colla bandiera, Menotti
Garibaldi, Elia_. Quello che accadde fu cosa di brevissimi istanti.
L'eroico Schiaffino veniva crivellato di ferite; Menotti Garibaldi, che
lo vide vacillare e sul punto di cadere, afferrava tosto la bandiera, ma
veniva colpito alla mano; Elia che era già stato sfiorato al petto da
una puntata di baionetta, con pensiero rapido e più rapidamente
eseguito, afferrava il suo caro amico Menotti e la bandiera che egli
teneva stretta nella mano sanguinante, e con lui abbracciato si lasciava
cadere al di sotto della banchina; disgraziatamente l'asta impugnata da
Menotti venne giù dalla banchina, ma il drappo della bandiera restava
sul campo nemico.

A ridosso della banchina stavano i carabinieri genovesi che prendevano
flato, per poi riprendere l'assalto.

Caduti dall'alto i due si trovarono vicini a Froscianti, il carissimo,
fidato amico del generale Garibaldi, che appena veduto Elia, gli
domandava cartucce avendo egli finito le sue. Nel voltarsi verso di lui,
Elia vide il generale Garibaldi che col solito sangue freddo camminava
verso la formidabile posizione nemica vomitante fuoco e dalla quale
poteva essere distante non più di cinquanta metri. Il pericolo che il
generale correva fece correre un brivido per le ossa ai presenti; ed
Elia si slanciava rapidamente verso lui, gridandogli con disperazione
«Generale, _se una palla vi colga tutto è perduto e con Voi la unità
della patria nostra_;» ma egli, calmissimo, procedeva in avanti. Con la
fronte rivolta al nemico. Elia, che gli camminava a fianco, stava in
indicibile angoscia pronto ad ogni evento, quando infatti vide un
cacciatore borbonico abbassare l'arma e puntarla alla direzione del
generale. Elia non ebbe che il tempo di fare un passo avanti alla
persona di Garibaldi; un terribile colpo alla bocca lo rovesciava ed
egli cadde a terra supino; coll'aiuto del generale che si era chinato su
lui per dirgli un'affettuosa parola «Coraggio, mio Elia di queste ferite
non si muore» egli potè volgersi bocca a terra e scampare l'imminente
pericolo di essere soffocato dal sangue.

Intanto i napoletani fulminavano i nostri; in quel momento arrivava
Bixio a spron battuto; parlò a Garibaldi brevi parole: e fu inteso il
generale rispondere «No, Nino, qui si vince o si muore» e puntata la sua
spada alla direzione della sempre formidabile posizione nemica, con
tonante parola gridò: «Avanti ancora questo assalto o figlioli e la
vittoria è nostra» e ordinata la carica si slancia per primo sull'erta,
seguito da tutti i compagni che non erano caduti; e quel pugno d'uomini,
trafelati, pesti, insanguinati, sfiniti da tre ore di corsa e di lotta,
con nuova lena riprende la sua ascesa micidiale rigando ancora ogni
palmo dell'erta terribile di altro nobile sangue, risoluti all'estremo
cimento.

Come l'eroe aveva preveduto, la vittoria fu nostra. Incalzati di fronte
da quello stuolo di indemoniati che parevano uscissero dalla terra,
sgomenti dall'improvviso rombo dei nostri cannoni che il bravo Orsini
era riuscito a portare in linea, turbati dal clamore crescente delle
squadre siciliane sui loro fianchi, disperando ormai di poter vincere,
voltarono le spalle, abbandonando il monte tanto fieramente contrastato
e non si arrestarono che dentro Calatafimi.

Il miracolo era compiuto--la giornata era vinta!--La vittoria di
Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la campagna del 1860 e per
l'unità della patria--decisiva sopratutto indiscutibilmente, nel senso
morale--perchè dalla giornata di Calatafimi la superiorità della
_Camicia rossa_ sulle truppe borboniche fu immensamente
stabilita.--«Aiuto e pronto aiuto» telegrafava a Palermo la stessa sera
del 15 il generale Lanza: ma poi credette miglior partito una
precipitosa ritirata anche da Calatafimi.

Ecco come un eroe dei mille Giuseppe Cesare Abba, descrive nel suo aureo
libro «da Quarto al Volturno» la gloriosa giornata di Calatafimi:

«Già tutta l'erta era ingombra di caduti, ma non si udiva un lamento.
Vicino a me il Missori, comandante delle guide, coll'occhio sinistro
tutto pesto e insanguinato, pareva porgesse orecchio ai rumori che
venivano dalla vetta, d'onde si udivano i battaglioni muoversi pesanti,
e mille voci, come flotti di mare in tempesta, urlare a tratti: «Viva lo
Re».

«Frattanto i nostri arrivavano a ingrossarsi, rinascevano le forze. I
capitani si aggiravano fra noi confortandoci. Sirtori e Bixio erano
venuti a cavallo fin lassù.

«Sirtori, impassibile, colla frusta in mano, pareva non si sentisse
presente a quello sbaraglio; eppure sulla sua faccia pallida e smunta io
lessi qualcosa, come la volontà di morire fra tutti noi.

«Bixio compariva da ogni parte, come si fosse fatto in cento; braccio di
ferro del generale. Lassù, lo rividi vicino a lui un altro istante.

«--Riposate, figliuoli, riposate un poco, diceva il generale--ancora uno
sforzo e sarà finita! E Bixio lo seguiva fra le file.

«In quello il sottotenente Bandi veniva a salutarlo lì, per cadere
sfinito. Non ne poteva più. Aveva toccate parecchie ferite, ma un'ultima
palla gli si era ficcata sopra la mammella sinistra, e il sangue gli
colava giù a rivi. Prima che passi mezz'ora sarà morto, pensai; ma
quando le compagnie si lanciarono all'ultimo assalto, contro quella
siepe di baionette che abbagliavano, stridevano, sì che pareva di averle
già tutte nel petto, tornai a vedere quell'ufficiale fra i primi.
«Quante anime hai?» gli gridò uno che deve essergli amico.

«Egli sorrise beato.

«In quel momento i regi tiravano l'ultima cannonata, fracellando a
bruciapelo un Sacchi pavese; e fu da quella parte un grido di gioia
perchè il cannone era preso. Poi corre voce che il generale era morto, e
Menotti, ferito nella destra, correva gridando e chiedendo di lui. Elia
giaceva ferito a morte; Schiaffino, il Dante da Castiglione di questa
guerra, era morto, e copriva colla sua grande persona la terra
sanguinosa.

«Quando, i nemici cominciarono a ritirarsi, protetti dai loro
cacciatori, rividi il generale che li guardava e gioiva.

«Gli inseguimmo un tratto; disparvero. Dal campo stemmo a vedere la
lunga colonna salire a Calatafimi, grigia lassù a mezza costa del monte
grigio, e perdersi nella città. Ci pareva miracolo aver vinto.

«O gran giorno, o immortali quelle tre ore del combattimento! Ma se
fosse stato perduto? Si accapriccia il cuore, immaginando Garibaldi
vinto, i suoi a squadre, a gruppi, rotti, messi in caccia, uccisi per
tutta quella terra da Calatafimi a Salemi, lontano, lontano; gli ultimi
ad uno ad uno, chi qua chi là, scannati come fiere, fin sulle rive del
mare; e la testa del generale mandata a Napoli; che la potesse vedere e
finire di tremare quel Re! Si raccapriccia. E forse l'Italia non si
sarebbe fatta mai più.

«Felici allora, ben felici i morti combattendo, che almeno non avrebbero
visto la grande tragedia.

«Ma per fortuna d'Italia la vittoria fu nostra».

Sgominato il nemico, conquistata Calatafimi, chiave della posizione,
ormai si era padroni delle tre vie conducenti a Trapani, a
Castellammare, a Palermo. Ulteriore resistenza non era pel momento da
prevedersi, ed inutile era anche l'inseguimento da parte dei
garibaldini, perchè ad infastidire i fuggiaschi vi avrebbero pensato i
bravi insorti siciliani.

Garibaldi pensò di dare un po' di riposo ai suoi, e volle che si
passasse la notte sul conquistato campo di battaglia.

Le perdite nostre furono gravi rispetto al numero esiguo che rendeva
prezioso ogni individuo; bisognava quindi aver cura dei feriti.

Trentadue dei mille rimasero sul terreno, fra i quali Schiaffino,
Montanari, Pedotti, Sartori, D'Amicis; centottantadue i feriti fra i
quali, Menotti Garibaldi, Elia, Maiocchi, Sirtori, Manin, Nullo,
Missori, Cariolato, Bandi, Martignoni, Perducca, Palizzolo, Sprovieri,
Bedischini, Carbonari, Pasquinelli, Della Torre, Della Casa, molti dei
quali gravemente.

La mattina del 16 i garibaldini entrarono a Calatafimi fra gli evviva e
le acclamazioni del popolo.

Posto il quartier generale al palazzo del Comune, Garibaldi emanava il
seguente ordine del giorno:

                            ORDINE DEL GIORNO
                     DOPO LA BATTAGLIA DI CALATAFIMI:

«Con compagni come voi io posso tentare ogni cosa, e ve l'ho provato
ieri portandovi ad una impresa ben ardua, pel numero dei nemici e per le
loro forti posizioni.

«Io contavo sulle fatali vostre baionette, e vedeste che non mi ero
ingannato.

«Deplorando la dura necessità di dover combattere soldati italiani, noi
dobbiamo confessare che trovammo una resistenza degna di uomini
appartenenti ad una causa migliore, e ciò conferma quanto sarem capaci
di fare nel giorno in cui l'italiana famiglia sarà serrata tutta intorno
al vessillo di redenzione.

«Domani il continente italiano sarà parato a festa per la vittoria dei
suoi liberi figli e dei nostri prodi siciliani; le vostre madri, le
vostre amanti, superbe di voi, usciranno nelle vie colla fronte alta e
ridente.

«Il combattimento ci costò la vita di cari fratelli morti nelle prime
file; quei martiri della santa causa d'Italia saranno ricordati nei
fasti della gloria italiana.

«Io segnalerò al nostro paese il nome de' prodi che sì valorosamente
condussero alla pugna i più giovani ed inesperti militi, e che
conduranno domani alla vittoria, nel campo maggiore di battaglia, i
militi che devono rompere gli ultimi anelli delle catene, con cui fu
avvinta la nostra Italia carissima.

Calatafimi, 16 maggio.

_Scrisse poi a Bertani la seguente lettera:_

          Caro Bertani,

Ieri abbiamo combattuto e vinto. La pugna fu tra italiani. Solita
sciagura--ma che mi provò quanto si possa fare con questa famiglia--nel
giorno che la vedremo unita.

Il nemico cedette all'impeto delle baionette de' miei vecchi Cacciatori
delle Alpi vestiti in borghese; ma combattè valorosamente--e non cedette
le sue posizioni che dopo accanita mischia corpo a corpo.

I combattimenti da noi sostenuti in Lombardia furono certamente assai
meno disputati che non fu il combattimento di ieri; i soldati
napolitani, avendo esaurite le loro cartucce, vibravan sassi contro di
noi, da disperati.

Domani seguiremo per Alcamo; lo spirito della popolazione si è fatto
frenetico, ed io ne auguro molto bene per la causa del nostro paese.

Vi daremo presto altre notizie. Vostro:

          Calatafimi, 16 maggio.

_P.S._ Questa serve per Medici pure.


Della battaglia di Calatafimi Garibaldi con parola commossa così ne
parlava:

«Calatafimi! Io avanzo di tante pugne--se nell'ultimo mio respiro i
miei, vedranmi sorridere, l'ultimo sorriso d'orgoglio--esso sarà
ricordandoti!»

«Tu fosti il combattimento più glorioso di popolo! L'Italia non deve
dimenticarlo».

                                    *
                                   * *

Disfatte le truppe napolitane a Calatafimi, in quell'eroico
combattimento nel quale si decise dell'unità della patria, Garibaldi
comprese che bisognava battere il ferro finchè caldo, e marciare su
Palermo. Era assai arduo affare, ma che cosa tratteneva più Garibaldi?
Si trattava ne più ne meno di questo; mettere assieme strategia ed
audacia per assalire con circa 4000 armati, tra i rimasti dei mille ed i
_picciotti_, ed impadronirsi d'una città che conteneva trentamila
difensori, appoggiati ad una fortezza e sorretti da una squadra regia.
Garibaldi tentò il colpo.

Il 17 marciava su Alcamo, il 18 per Partinico; nel medesimo giorno
ordinava una conversione e giungeva al passo di Reune; fiancheggiavano
Garibaldi a ponente le bande di Rosolino Pilo, a levante quelle del La
Masa, un quattromila _picciotti_, male armati ma arditi e ben condotti.
Per sopperire alla tenuità delle forze Garibaldi giuocò di astuzia; ordì
un tranello nel quale il nemico cadde.

Il giorno 20, comandò e diresse egli stesso, una ricognizione su
Monreale per attirarvi il nemico, e manovrò in modo da far credere che
quello era il suo obbiettivo. Impegnato un combattimento d'avamposti, ad
un tratto faceva sospendere l'attacco e si ritraeva indietro.

Nella notte, imperversando una violenta tempesta, prendeva sentieri di
montagna battuti solo da capre e volgeva a levante, lasciando Orsini con
le salmerie ed i cannoni a farsi inseguire dalle truppe borboniche.
Egli, di sorpresa, scendeva al Parco e batteva una colonna nemica che lo
aveva assalito di fronte; colà il generale Orsini coll'artiglieria lo
raggiungeva. Il 24 le truppe borboniche, fiancheggiate da forti colonne
di cacciatori attaccavano i nostri. Garibaldi batteva in ritirata su
Piana de Greci mentre era già sera. Nella notte ordinava ad Orsini di
prendere la strada di Corleone per attrarre le forze nemiche; egli
marciava silenzioso su Marineo, quindi lasciava Marineo per Missilmeri
e, mentre le truppe napolitane inseguivano quelle che credevano le forze
garibaldine condotte in ritirata dall'Orsini, Garibaldi, spalleggiato
dalla parte di levante dai _picciotti_ del La Masa, si preparava a dare
l'assalto a Palermo.

La mattina del 26, alle 4, accompagnato da Turr, Bixio e Missori, andò a
visitare il campo di Gibilrossa, occupato dalle squadre siciliane
comandate da La Masa, Fuxa e fratelli Mastricchi, formanti un corpo di
oltre 4000 uomini.

Garibaldi per avvicinarsi a Palermo aveva due grandi strade, ad una
delle quali si poteva giungere per stretti sentieri e La Masa, pratico
dei luoghi informò il Generale che da Gibilrossa poteva discendere
benissimo calando per quei sentieri praticabili sino a Mezzagno, da dove
con altro poco cammino faticoso si poteva trovar presto sulla strada di
Porta Termini. Garibaldi, dopo brevi riflessioni, decideva di battere
questa via e dava ordine a Turr di fissare la marcia per l'indomani di
primo mattino e che veniva ordinata così:

1º l'Avanguardia comandata dal maggiore Tuköry, composta di guide e di
60 volontari dei Mille, scelti da ciascuna compagnia.

2º Il battaglione Bixio coi carabinieri genovesi.

3º Il battaglione Carini, cacciatori delle Alpi.

4º Il corpo delle squadre siciliane, comandate da La Masa.

Disposta in tal modo la colonna Garibaldi, fatti chiamare i suoi
ufficiali superiori, i comandanti le compagnie, e i capi delle
squadriglie parlò loro così: «Compagni! Due vie abbiamo avanti a noi:
una è di ritirarci nell'interno dell'Isola facendo la piccola guerra per
organizzarci; l'altra è di piombare su Palermo, entrarvi, accendervi la
rivolta: sicuri che quest'ultima impresa darà per risultato la
liberazione dell'intera Sicilia. «Decidete!»--A «Palermo», tutti
gridarono.--«Ebbene, che ognuno faccia il suo dovere e domattina vi
saremo!»

Alle 3 antimeridiane del 27 maggio--data memoranda--Garibaldi col resto
dei suoi Mille comandati da Bixio, da Carini, da Cairoli, da Tuköry, da
Menotti, da Mosto, da Nullo, da Canzio, da Dezza, da Cucchi sui quali
sapeva di poter contare fino alla morte, spalleggiato fortemente dai
Picciotti del La Masa e del Fuxa, come aveva predetto, si preparava ad
assalire _Porta Termini_ e da quella entrare in Palermo.

Era intendimento del generale di sorprendere la posizione del _Ponte
dell'Ammiraglio_ senza colpo ferire, ed in tal guisa piombare su _Porta
Termini_, e di là spingersi al palazzo Reale dove trovavasi il Lanza,
comandante in capo delle forze borboniche, col suo quartier generale.
Tuköry colla sua avanguardia procedeva in silenzio per precipitarsi
d'improvviso sul nemico, ma i _Picciotti_, tosto che videro le prime
case del sobborgo, quasi avessero già in mano la città, non seppero
frenarsi e presero a gridare _Viva Garibaldi: Viva l'Italia_; sparando
delle schioppettate: così il piano di sorpresa andava fallito. I regi
fortemente protetti da barricate, che difendevano e impedivano il
passaggio del Ponte dell'Ammiraglio, spazzavano con un turbine di
mitraglia e di moschetteria la via che vi conduceva e i campi
d'intorno:--i _Picciotti_ non ancora abituati al fuoco ed ai cimenti
corpo a corpo, balenano per un momento, ma all'esempio dei mille che
nulla paventano, serrati, concordi, disprezzanti della morte si
slanciano, sperdono in men che si dica le truppe borboniche e, come un
torrente impetuoso si avventano su Porta di Termini scacciandone i
nemici, vincendone la resistenza: primi fra tutti Bixio, Carini,
Sirtori, Turr, Fuxa, La Masa; già erano caduti fulminati, i prodi fra i
prodi, Tuchöry, Rocco, La Russa, Pietro Inserillo e Giuseppe lo Squiglio
assieme a tanti e tanti altri che ebbero la fortuna di fare la bella
morte dei prodi; ebbero ferite più o meno gravi Turr, Benedetto Cairoli,
Enrico Piccinini, Raffaello Di Benedetto, Leonardo Caccioppo; Bixio alla
testa del suo bravo battaglione, coi carabinieri genovesi, con a fianco,
Dezza, Menotti, Mosto, Missori, Canzio, Nullo, Carbone, Cucchi, Cavalli,
Venzo ed altri bravi, a passo di corsa, con impeto furioso, attaccano ed
espugnano la barricata di Porta Termini. Il Carbone, dei carabinieri
genovesi, sale coraggiosamente per primo sulla barricata con la bandiera
italiana in pugno e ne riporta ferita che non gli impedisce di
continuare a combattere; per questo fatto il Carbone venne encomiato dal
generale Garibaldi e promosso sottotenente.

Nell'assalto della barricata Bixio, Dezza, Menotti, Bezzi, Canzio,
Cucchi, Carbone, Damiani, Mosto, Venzo, Manci fecero prodigi di valore;
Bixio sopra tutti; come una furia si precipitava dove era più forte la
resistenza, tempestando di colpi i nemici, finchè cadde gravemente
ferito.

Forzata l'entrata in città, i Carabinieri Genovesi ed il resto di Mille
seguiti dai bravi _picciotti_, si lanciarono sui borbonici forzandoli a
cedere ed a ritirarsi; nel combattimento dei Quattro Cantoni fino a
Piazza del Duomo ed a Porta Maqueda Cucchi, Miceli, Venzo, Mosto, ed
altri bravi caddero feriti; ma i nostri, non ostante le preziose
perdite, procedevano dovunque vittoriosi. Turr, Sirtori benchè feriti
insieme agli altri ufficiali di Stato Maggiore si moltiplicavano, ed
erano all'attacco del Palazzo Reale, erano a quello di Porta Maqueda,
tagliavano le comunicazioni tra il mare e il Castello, mentre Dezza e
Missori con un pugno dei Mille battevano il nemico all'Albergaria.

La Loggia, e molti altri signori siciliani componenti il Comitato
insurrezionale, con alcuni dei Mille fra i quali il Venzo, si cacciano
fino alla Fiera-Vecchia, penetrano nelle Chiese, salgono sui campanili,
ed il terribile tocco delle campane a stormo chiama in armi tutti i
cittadini. La Città dei Vespri si ridesta, si erigono dovunque
barricate, e i soldati napoletani, incalzati da ogni parte, sono
costretti a ritirarsi nelle caserme e nel forte di Castellammare.

Garibaldi si spinge fino in piazza Bologna, insedia il suo quartier
generale nel palazzo Municipale e di là emana il primo suo atto
dittatoriale in nome di Vittorio Emanuele, col seguente proclama:

          Siciliani!

«Il generale Garibaldi, dittatore in Sicilia a nome di S. M. Vittorio
Emanuele Re d'Italia, essendo entrato in Palermo stamattina 27 maggio,
ed avendo occupata tutta la Città, rimanendo le truppe Napoletane chiuse
nelle caserme e nel forte di Castellammare, chiama alle armi tutti i
Comuni dell'Isola, perchè corrano nella metropoli al compimento della
vittoria.

Dato in Palermo, oggi 27 maggio 1860

                                                  _G. Garibaldi._

                                   *
                                  * *

Il 28 fu giornata nella quale la città di Palermo sofferse orribilmente.
La mitraglia fece vittime numerosissime, le bombe rovinavano,
incendiavano, distruggevano tutto; ma mentre il bombardamento infieriva
con tutti i suoi orrori, Garibaldi pensava anche all'organizzazione
civile. Nominava Crispi segretario di Stato; il Duca della Verdura
sindaco; istituiva un Comitato di difesa, presidente lo stesso della
Verdura e componenti i signori Michele Mangiano, Tommaso Lo Cascio,
barone Michele Capuzzo, barone di Paternò, Rubino Emanuele e Benedetto
Scidita, Pietro Messineo, marchese Pilo, Patriola, Girolamo Mondino, ed
altri patrioti, e segretario Vincenzo Scimecca.

La mattina del 29 maggio, i garibaldini ebbero un rinforzo di siciliani
condotti da Fardella.

Per tutto quel giorno il combattimento continuò accanito, specialmente a
Montalto ove il Laporta, il marchese Firmaturi, il Sant'Anna, sostenuti
dai Carabinieri genovesi, fecero colle squadre dei _Picciotti_, con
fermezza e valore, il loro dovere.

Il generale Lanza, che fin dal mattino aveva fatto inutili sforzi per
riprendere le posizioni perdute, e vedeva falliti tutti i tentativi per
aprirsi le comunicazioni con Castellammare, fece cessare il
bombardamento, durato tre giorni e tre notti senza intervallo.

I Consoli esteri e l'Ammiraglio inglese, commossi per le tante rovine e
gli eccidi che da tre giorni sterminavano la bella città, fecero dei
passi presso il generale Lanza perchè si desse tregua con un armistizio
a tanta effusione di sangue cittadino; il generale borbonico
acconsentiva, e la mattina del 30 spediva al Dittatore Garibaldi la
lettera seguente:

          Generale!

«L'ammiraglio britannico mi fa conoscere che riceverebbe con piacere al
suo bordo due miei generali, per aprire con lei una conferenza, nella
quale egli servirà da intermediario.

«La prego farmi conoscere se acconsente, e nel caso affermativo,
permettere che i due miei generali passino la sua linea, facendoli Ella
accompagnare dal palazzo reale, ove potrebbe mandarli a prendere, fino
alla Sanità per imbarcarsi.

«In attesa di una sua risposta, ho l'onore di essere

«29 maggio 1860.

                                                       «_Lanza_».

Garibaldi acconsentì e ordinò la cessazione del fuoco, disponendo che
l'intervista avesse luogo all'una pomeridiana. Il maggiore Cenni fu
inviato alle undici e mezzo con due guide al palazzo Reale.

Erano scorsi pochi istanti dalla partenza del Cenni, quando veniva dato
un allarme a Porta Termini; poco dopo incominciavano le fucilate: Erano
Von-Mechel e Bosco, i quali ritornavano da Corleone, col dispetto di
essere stati giuocati per la terza volta, e di avere inseguito non
Garibaldi coi suoi volontari, ma un treno di cassoni e carriaggi
inservibili.

I garibaldini non risposero al fuoco; Carini e Sirtori si presentarono
per dare la notizia dell'armistizio nel momento in cui il fuoco dei
napoletani era più vivo; Carini ne riportò grave ferita, Sirtori fu
ferito leggermente. Turr, raccolti quanti uomini potè sul momento, corse
in appoggio dei nostri a Porta Termini.

In quel momento il generale borbonico Letizia accompagnato dal Cenni
traversava Toledo; saputo quanto accadeva, si offerse di recarsi egli
stesso sul luogo del combattimento per portare ai suoi la notizia
dell'armistizio, e per fare cessare il fuoco onde non si sospettasse un
tradimento. Arrivato sul luogo, impose a Von-Mechel e a Bosco di cessare
da ogni azione ostile, essendo che la tregua doveva essere rispettata da
tutti. Garibaldi all'una si recò a bordo dell'«_Annibal_» nave da guerra
Inglese, nella cui sala di consiglio ebbe luogo la conferenza e fu
stipulata una tregua di 24 ore; ma, prima che questa venisse a scadenza,
il generale borbonico richiese la sospensione delle ostilità per altri
tre giorni, prodromo evidente della resa finale. E Garibaldi
accondiscese ancora.

Infatti il 6 giugno, i negoziati furono ripresi e senza difficoltà
condussero ad una convenzione, per la quale le truppe napolitane
sgombravano Palermo e il forte di Castellammare per la via di mare.

Intanto tutte le principali città dell'Isola si erano affrancate a
libertà, e di tutta la Sicilia, il 7 giugno, non restava in mano del
Borbone che Messina, la cittadella di Milazzo, Augusta e Siracusa.

Garibaldi s'insediava, col suo quartier generale e col suo governo, al
Palazzo Reale.

                                    *
                                   * *

Dopo la presa di Palermo Garibaldi avuta notizia che Elia curato con
cure fraterne dai bravi medici chirurgi, Ripari, Lampiasi, Cipolla,
Maltese, era vivente a Vita, accolto amorevolmente in casa del patriota
Salvatore Romano, mandò Menotti con incarico di portarlo possibilmente a
Palermo, e ivi giunto il generale volle che fosse curato sotto ai suoi
occhi e lo fece condurre al palazzo Reale.

                                    *
                                   * *

Occorreva provvedere ora al necessario per non perdere il frutto delle
riuscite imprese. Faceva mestieri organizzare i corpi militari in forza
dell'entusiasmo dei cittadini per poter far fronte ai pericoli delle
rappresaglie d'un governo che, prossimo a cadere, voleva segnalare i
suoi ultimi giorni con atti disperati e col sovvertimento delle turbe e
di ogni ordine civile.

Questi pensieri pesavano orribilmente sull'animo del dittatore, il quale
trovava più difficile mettere riparo a queste difficoltà civili che il
combattere formidabili eserciti borbonici. Per riparare a questi mali
erano necessarie delle spedizioni nell'interno dell'Isola, affidate ai
suoi fidi compagni; ma l'esecuzione di tale progetto gli riusciva nel
momento assolutamente impossibile. Da Genova non arrivavano rinforzi.
Anzi si avevano notizie che due navi cariche di volontari condotti dal
maggiore Corte «L'Utile» e il «Charles Georgy» erano state catturate
dalla crociera napoletana e condotte a Gaeta.

Era un vero disastro che impensieriva il Dittatore, tanto più che si
sapeva che trovavasi in viaggio la forte spedizione Medici. Per fortuna
questo esperto condottiero, che aveva ereditato da Garibaldi tutte le
astuzie e tutte le audacie, seppe deludere la vigilanza della crociera
napoletana, approdando inaspettato a Cagliari e di là, per rotta
impensata dai nemici, arrivare alla desiderata destinazione.

Nella mattina del 19 giugno Medici sbarcava sulla vicina costa di
Partinico con forte aiuto di uomini e di armi, e tutte le preoccupazioni
del Dittatore erano dissipate--Medici aveva con sè il bravo colonnello
Malenchini coi suoi toscani--e annunziava l'arrivo di Cosenz. L'arrivo
di Medici pose Garibaldi in condizione di compiere i suoi piani riguardo
alla Sicilia, quelli cioè di scacciare quanto rimaneva dell'esercito
borbonico nella parte orientale dell'Isola.

Divise le forze in tre colonne: la prima formante la sinistra agli
ordini di Medici doveva marciare per il litorale fino a Milazzo, ultimo
obbiettivo Messina; la seconda, al centro, condotta dal Turr per
Missilmeri, Villafrati, Alia, Caltanisetta, sopra Catania, scopo ultimo
Messina; la terza, all'estrema destra, comandante Bixio, per Corleone,
Girgenti, Catania scopo finale Messina; così che, tutte le forze non
avevano che un solo obbiettivo la punta del Faro.

La marcia di queste brigate contribuì moltissimo a sistemare il nuovo
ordine di cose, a sollevare l'elemento liberale e por freno agli insani
tentativi di disordini.

Ma questo consolidamento incontrava ostacoli per il fatto che armi
borboniche occupavano dei punti importanti dell'Isola e tenevano in
soggezione tutta la regione orientale, appoggiandosi su Milazzo e alla
cittadella di Messina.

                                    *
                                   * *

Il Dittatore riserbava a Medici la parte splendida di liberare questa
regione dalle truppe borboniche, e Medici, ricevuti gli ordini, a marcia
forzata occupava Barcellona, quivi giunto, temendo che i regi
fortificati in Milazzo tentassero un colpo per sloggiarlo, avvisava a
tutti i mezzi per fortificarvisi; occupava l'interessante posizione del
fiume Meri; muniva il ponte con due cannoni; distendeva le sue ali di
difesa fino all'altura del villaggio Meri; e tutto preparava alla difesa
della sua posizione per dare tempo all'arrivo di altri rinforzi.

Le truppe borboniche così composte: un corpo di 3500 uomini proveniente
da Messina, altro di 1500 stanziato a Milazzo, altri 2500 che si
aggiunsero provenienti da altre parti dell'isola, erano comandate dal
colonnello Bosco, il quale si trovava in grado di dare aspra battaglia.

Il giorno 17 ebbe luogo un primo fatto d'armi, ostinato e sanguinoso.

Medici si era fortificato presso Carriola al fiume Nocito, ed aveva
occupata la strada di Meri e Milazzo, erigendovi barricate. Bosco pensò
di sloggiarlo, e con forze preponderanti pervenne a passare oltre
Carriola il Nocito; ma ivi s'impegnò un vivissimo combattimento con la
destra di Medici, gagliardemente tenuta dal reggimento Malenchini; tanta
resistenza da questa parte poneva i regi in pericolo di essere tagliati
fuori della loro linea, per cui Bosco spinse altri battaglioni verso le
barricate; il combattimento fu accanito, ma Medici per venirne a capo,
lanciava contro le truppe borboniche un battaglione della riserva e i
nostri alla punta della baionetta ricacciavano i regi dentro Milazzo. Le
truppe comandate dal Malenchini combatterono sotto gli occhi di Medici
assai valorosamente.

Il generale Garibaldi avvisato a Palermo della resistenza che incontrava
Medici s'imbarcava con un buon rinforzo. Sbarcato a Patti corse innanzi
solo, al quartiere generale di Medici. Vi arrivò il 19 e vi trovò anche
il Cosenz.

Calcolando il generale che i rinforzi sbarcati a Patti sarebbero
arrivati il 20 sul luogo del combattimento, decise di dare battaglia e
d'investire Milazzo.

La mattina del 20 alle 5 il generale Medici divideva le sue truppe in
due colonne, ciascuna di quattro battaglioni, una sotto il comando di
Simonetta, l'altra sotto quello di Malenchini.

Deciso il combattimento Garibaldi ordina che il Malenchini per la strada
di Santa Marina si porti ad assalire senz'altro la sinistra del nemico;
dà incarico al Medici di avanzare col reggimento Simonetta e il
battaglione Gaeta per la strada di San Pietro spingendosi col centro e
colla destra contro la città; affida a Nicola Fabrizi d'occupare con una
legione di siciliani la strada di Spadafora per antivenire ogni sorpresa
di un'eventuale sortita del presidio di Messina; delibera infine che la
colonna Cosenz, già partita fin dall'alba da Patti e rinforzata dal
battaglione Dunn e da quello del Guerzoni, lasciati a guardia di Meri,
formino la riserva.

Alle 5 del mattino tutti erano in moto; il Malenchini alle 7 aveva già
aperto il fuoco presso San Papino; anche il Medici attaccava il nemico
al di là di San Pietro e il combattimento si accese, accanito su tutta
la linea. I garibaldini si spingono verso Milazzo, ma la loro sinistra
appoggiata al mare, trovò tale resistenza nei regi nella strada di San
Pepino e tale fuoco d'artiglieria dal forte e dalla batteria portata
dietro i canneti, che furono obbligati a ripiegare.

Ad accrescere lo scompiglio nelle giovani schiere dei volontari,
concorse la cavalleria nemica che irruppe furiosamente sui nostri,
sbaragliandoli. Comandava questa colonna il colonnello Malenchini che,
potentemente coadiuvato dai suoi bravi ufficiali, faceva sforzi eroici
per riordinare i suoi e ricondurli alla pugna; chi si distinse per
ardire insuperabile fu il Tommasi, che venne promosso tenente sul campo
di battaglia.

Mentre questo avveniva sull'ala sinistra, Medici spingeva tre dei suoi
battaglioni ed uno di Carabinieri genovesi verso il fiume Nocito;
investiva i molini dove i regi eransi fortificati e tentava
d'impadronirsi della lingua di terra che congiunge Milazzo con
l'interno, e così girare alle spalle del corpo napoletano e tagliar
fuori di Milazzo il Bosco; ma anche questo tentativo incontrò
un'energica resistenza, perchè il Bosco da quel lato aveva spinto il
maggior nerbo delle sue forze; si combatteva uno contro tre, senza
contare la mitraglia che, da dietro grandi siepi di fichi d'India,
faceva strage dei nostri.

Medici riconosce la gravità della posizione e, da quell'eroe che era,
decide d'avventarsi contro il cannone che faceva strage dei suoi e
d'impossessarsene. «Meglio perire nell'arrischiata impresa, che vedere
così sacrificati i miei soldati». Con questo pensiero raduna quanti più
può dei suoi e si lancia in mezzo al fuoco nemico, ma nei primi passi
gli cade morto il cavallo e al fianco suo è colpito da palla fredda il
Cosenz, tanto da rimanerne tramortito; riavutosi tosto e circondato dai
suoi valorosi compagni, riprende impavido il combattimento.

Garibaldi, accortosi del pericolo che correvano i suoi cari compagni,
riunisce intorno a sè Missori, Statella e quanti trova sotto mano e si
lancia al soccorso; il cavallo di Garibaldi è ferito e non sente più il
freno; il tacco di un suo stivale è portato via da una scheggia; è
obbligato a smontare dal cavallo; accanto a lui in quel momento cadeva
mortalmente ferito il maggiore Breda; a Missori è pure ucciso il
cavallo; anche Garibaldi vede che per spuntarla bisognava ad ogni costo
impadronirsi del cannone che faceva strage, e dà gli ordini necessari;
si lancia alla testa dei suoi e il cannone è preso e trascinato nelle
proprie linee.

Allora la fanteria napolitana, che in quella giornata combattè
valorosamente, apre i suoi ranghi e dà il passo ad una furiosa carica di
cavalleria che s'avventa sui nostri come un turbine per riprendere il
pezzo; le squadriglie siciliane giunte allora da Patti entrano in
combattimento e con una formidabile scarica fermano l'impeto dei
cavalieri; l'ufficiale che comandava la cavalleria è esso pure obbligato
ad arrestarsi da Garibaldi che aveva preso la briglia del cavallo;
l'ufficiale mena un fendente, ma Garibaldi para il colpo e con una
pronta risposta gli taglia la gola; i napoletani assalgono Garibaldi; si
combatte corpo a corpo; Missori scarica quanti colpi ha nel suo revolver
ed uccide quanti tentano appressarsi al generale; Statella lo difende a
colpi di sciabola, dando così tempo ai garibaldini di accorrere al
soccorso.

Ma gli ostacoli sono insuperabili; gl'immensi canneti e le boscaglie di
fichi d'India sparsi su quella riva impedivano ai garibaldini di far uso
delle baionette, terribile arma loro prediletta, e favorivano i tiri
dell'artiglieria borbonica. Per fortuna in quel momento apparve nella
rada un vapore con bandiera italiana. Era la corvetta napoletana «La
Veloce» che il comandante Anguissola, dando primo l'esempio della
rivolta, aveva consegnata a Garibaldi, il quale la battezzava col nome
di «Tuckery» in memoria del prode maggiore ungherese morto alla presa di
Palermo. Il generale, senza perdita di tempo, si fa portare a bordo, e
salito sulla coffa dell'albero di trinchetto domina tutto il teatro
della battaglia; ordina al comandante d'accostarsi a tiro di mitraglia
ed al momento opportuno fa fulminare di fianco le truppe borboniche, e
ne fa strage tale che il nemico è sgominato in brev'ora.

Questo felice diversivo dà tempo al Medici ed al Cosenz di riordinare i
loro battaglioni e prepararsi ad un decisivo assalto.

Garibaldi scende a terra dal Tukery con un manipolo di marinari armati,
si mette alla testa dei suoi e si riprende l'assalto; tutte le riserve
sono impegnate: il maggiore Guerzoni arriva esso pure coi suoi a passo
di corsa; un'ultimo disperato assalto è ordinato, i canneti a sinistra,
il ponte di Curiolo di fronte, le case di destra, terribili strette,
sono tutte superate con indicibile valore; i cacciatori del Bosco
rispondono con un fuoco infernale e recano ai nostri danni non lievi; il
capitano Leardi, dopo aver veduto cadere attorno a sè non pochi dei suoi
valorosi è ferito a morte; il Costa, lo Statella, il Martini, il Cosenz
feriti; ma il nemico è in fuga e dopo del nemico i garibaldini entrano
in Milazzo e i borbonici si rinchiudono nel forte.

La battaglia di Milazzo fu la più sanguinosa tra quelle combattute delle
armi garibaldine nel 1860.

Su quattromila combattenti garibaldini, più di settecento restarono sul
campo fra morti e feriti.

La giornata del 21 passò in entrambi i campi tranquilla, le nostre
truppe riposarono, e quelle borboniche il 22 s'imbarcarono su tre
navigli francesi per essere trasportate a Napoli.

Il 23 arrivavano nelle acque di Milazzo quattro navi da guerra
napolitane; ma visto che i garibaldini erano padroni della piazza si
limitarono ad imbarcare il presidio del Castello; sicchè il Castello,
con cannoni, munizioni ed ogni attrezzo di guerra, rimaneva in potere di
Garibaldi, che vi faceva inalberare la bandiera tricolore.

                                    *
                                   * *

Dopo la presa di Milazzo anche le truppe che occupavano la cittadella di
Messina si arresero.--Tutta la Sicilia era liberata!

Occorreva pensare al passaggio dello stretto ed alla continuazione della
marcia gloriosa per le Calabrie alla capitale del Reame di Napoli, e
primo pensiero del Duce fu quello di nominare comandante militare e
civile di Messina l'illustre patriota Nicola Fabrizi, con suo Capo di
Stato Maggiore il valoroso Abele Damiani.

Questo venerando patriota aveva organizzato a Malta un corpo d'italiani
volontari del quale faceva parte il Pittaluga, che dopo lo scontro
infelice di Grotte, sostenuto dal Zambianchi contro forze superiori
papaline, aveva preso passaggio in un vapore delle _Messaggeries_ per
raggiungere Garibaldi in Sicilia; col Pittaluga erano il Civinini, il
Pedani livornese, ed altri.

Sbarcato il Fabrizi in Sicilia ebbe ordine da Garibaldi di recarsi a
Barcellona per organizzare e prendere il comando dei battaglioni
dell'Etna composti di patriotti siciliani. Il governo civile e militare
di Messina era quindi affidato a buone mani.

Il passaggio sul continente non era cosa delle più facili; bisognava
vincere le difficoltà che venivano dal Ministero in seguito alle
pressioni dell'imperatore dei francesi; bisognava inoltre deludere la
vigilanza della flotta nemica che giorno e notte batteva il mare e
sorvegliava lo stretto senza contare che il Borbone, nonostante le
defezioni, poteva sempre mettere a fronte di Garibaldi un Esercito
organizzato di 100 mila uomini. Era necessario quindi fare uso di quegli
audaci colpi di mano, nei quali Garibaldi era maestro.

Infatti la sera dell'8 agosto egli ordinava al Mussolino, calabrese, di
tentare con un limitato numero di volontari scelti fra i più audaci,
come Missori, Alberto Mario, Vincenzo Cattabeni ed altri valorosi, la
sorpresa del forte Cavallo e la insurrezione della Calabria. La sera
dopo ordinava a Salvatore Castiglia di sbarcare nell'Alta Fiumana con
arditi garibaldini.

Persuaso Garibaldi, dopo quindici giorni di vani tentativi, della
difficoltà del passaggio dello stretto di Messina, causa l'esiguità
delle sue forze, ed avute notizie dal Bertani che in Sardegna stavasi
organizzando una legione di circa 8 mila bene armati sotto la direzione
del colonnello Pianciani, col proposito d'invadere lo Stato Pontificio,
convinto che su Roma si poteva marciare con più sicurezza per la via di
Napoli, deliberava di portarsi egli stesso al Golfo degli Aranci per
assicurarsi il concorso degli ottomila uomini coi quali avrebbe
raddoppiato il numero delle sue forze. Non tardò a mettersi in viaggio
ed appena arrivato si presentò d'improvviso a quella gioventù che
anelava al combattimento; vinse col fascino delle sue parole gli
scrupoli di qualcuno e, preso il comando di quelle truppe, se le trasse
seco in Sicilia.

Date le disposizioni opportune per il governo dell'Isola--nominò
Depretis Prodittatore e partì per Messina.

Prima di lasciare Palermo il Generale emanava l'ordine del giorno
seguente:

          Alle Squadre Cittadine!

«A Voi robusti e coraggiosi figli dei campi, io dico una parola di
gratitudine in nome della patria italiana, a Voi che tanto contribuiste
alla liberazione di questa terra, a Voi che conservaste il fuoco sacro
della libertà sulle vette dei vostri monti, affrontando, in pochi e
male armati, le numerose ed agguerrite falangi dei dominatori.

«Voi potete tornare oggi alle vostre capanne colla fronte alta, colla
coscienza d'aver adempiuto ad opera grande! Come sarà affettuoso
l'amplesso delle vostre donne inorgoglite di Voi, accogliendovi festose
nei vostri focolari! e Voi racconterete superbi ai vostri figli i
perigli trascorsi nelle battaglie per la santa causa dell'Italia.

I vostri campi, non più calpestati dal mercenario, vi sembreranno più
belli, più ridenti. Io vi seguirò col cuore nel tripudio delle vostre
messi, delle vostre vendemmie, e nel giorno in cui la fortuna mi porgerà
l'occasione di stringere ancora le vostre destre incallite, sia per
narrare delle nostre vittorie o per debellare nuovi nemici della patria,
Voi avrete stretto la mano di un fratello.

          Palermo, 3 giugno.

                                                  _G. Garibaldi_.

Il generale Sirtori aveva già assicurati due vapori, il «Torino» ed il
«Franklin», che faceva trovar pronti nel porto di Taormina. Senza
perdita di tempo, appena arrivato a Messina, Garibaldi ordina a Bixio,
che tanto aveva sospirato quel comando, di mandare tutta la sua gente a
Taormina (circa 4000 uomini) e d'imbarcarla sui due piroscafi. Bixio,
che tutto aveva approntato per il passaggio dello Stretto, imbarcate le
sue truppe, monta sul «Torino»; Garibaldi, arrivato in carozza da
Messina, sale sul «Franklin» e nella notte del 19 di agosto, levate le
ancore partono per la Calabria, ed allo spuntar dell'alba del 20 i due
vapori si accostano a Melito tra Capo dell'Armi e Spartivento.
Disgraziatamente nel prendere terra il «Torino» rimaneva arenato, ma non
per questo venne ritardato lo sbarco a terra delle truppe garibaldine
che fu effettuato senza contrasto; solo più tardi le navi da guerra
napolitane in crociera se ne accorsero e presero a bombardare il
«Torino» vuoto.

Bisognava impadronirsi con un colpo di mano di Reggio; e senza esitare
il generale Garibaldi ordina di muovere all'assalto, e la sera del 20 i
garibaldini ripresero la marcia. Ad una certa distanza dalla città il
Generale faceva obbliquare a destra e per sentieri remoti, evitando gli
avamposti nemici appostati sullo stradale, e guidato dal colonnello
Plutino si avvicinava alla piazza. Fatti riposare i volontari e disposto
che la divisione Bixio dovesse assalire dalla parte di destra e quella
di Eberhardt da sinistra, dopo forte resistenza i nostri
s'impadroniscono della città ed obbligano i Regi a rinchiudersi nel
Castello.

A Garibaldi importava d'impossessarsi del Castello, perchè aveva avuto
notizia che una forte colonna nemica, comandata dal generale Briganti,
marciava su Reggio. Fortunatamente la comparsa di Missori, coi suoi
reduci dall'impresa del Forte Cavallo, fece credere ai Napoletani che
erano rinchiusi, di essere accerchiati, per cui alle prime fucilate
piovute dall'alto domandarono d'arrendersi.

                                    *
                                   * *

Questo è l'ordine del giorno che il generale Garibaldi aveva mandato
alle sue truppe prima che si accingessero al passaggio del Faro.

                                          Messina, 9 agosto 1860.

«Il maggior Casalta d'Ornano, della divisione Cosenz si dirigerà da
questo porto di Torre di Faro per sbarcare sulla costa di Calabria tra
Ragnore e Scilla.

«Egli comanda il suo battaglione e più un distaccamento del battaglione
Fazioli. La sua missione è di propagare l'insurrezione contro il
Borbone di Napoli ed il suo programma è quello dell'Italia e Vittorio
Emanuele.

«Chiederà del colonnello Mussolino, lo cercherà e procurerà di
coadiuvarlo in qualunque emergenza, siccome lo stesso Colonnello
coadiuverà lui.

«Si manterrà possibilmente vicino al quartiere Generale, che terrà
informato di qualunque cosa utile alla causa nazionale ed al servizio.

«Procurerà di tagliare le comunicazioni del nemico sullo stradale di
Reggio e Napoli, impossessandosi dei suoi convogli, dispacci ecc.

«Occuperà il nemico instancabilmente mediante distaccamenti, in varie
direzioni, per ingannarlo sulla sua vera situazione.

«Ubbidirà ai Colonnelli Mussolino e Missori soltanto nel caso che questi
colonnelli dovendo operare sul nemico lo richiedessero del suo concorso;
egli parteciperà queste istesse istruzioni ai Colonnelli suddetti.

«Sopratutto egli farà ogni sforzo per cattivarsi l'amicizia delle
popolazioni ed impedire qualunque prepotenza delle sue truppe contro le
stesse.

«Infine l'Esercito Meridionale confida che l'onore delle armi italiane
riceverà nuovo lustro dal coraggio, capacità e patriottismo del maggiore
Casalta.

                                                  _G. Garibaldi._

I risultati della presa di Reggio furono di grandissima importanza;
Garibaldi si rendeva padrone di buon materiale da guerra e acquistava
per base d'operazione sul continente una piazza di grande rilievo.

La vittoria di Reggio era ben presto coronata da altra pure
importantissima e decisiva. Nella notte dal 21 al 22 il generale Cosenz,
imbarcata sopra la flottiglia del Faro la sua divisione, i Carabinieri
Genovesi, e la Legione estera, riusciva ad approdare su la spiaggia
calabrese nelle vicinanze di Scilla, mettendosi così alle spalle della
forte brigala Briganti, accampata presso San Giovanni.

Avuta notizia del fortunato sbarco di Cosenz a Scilla, il generale
Garibaldi si mosse senza indugio con tutti i suoi da Reggio, ove
lasciava il colonnello Plutino con una colonna di patriotti calabresi,
per prendere fra due fuochi i Borbonici, comandati dal Briganti e dal
Melendez. Le mosse dei garibaldini furono così ben combinate che
riuscirono a circuire le forze regie, tantochè Garibaldi, serrandole
d'appresso e sicuro del fatto suo, intimava la resa. Allora si videro
novemila uomini d'ogni arma, ricchi d'artiglieria e d'ogni attrezzo di
guerra, abbassare le armi, dopo debole resistenza, innanzi a seimila
garibaldini quasi sprovvisti di tutto. Però nel breve combattimento
sostenuto dal Cosenz nel prendere terra nelle vicinanze di Scilla, dopo
di essere sfuggito miracolosamente alla flotta borbonica in crociera, si
ebbe a deplorare una preziosissima perdita, quella di Paul De Flotte,
deputato all'Assemblea repubblicana francese, il quale erasi unito ai
Mille col Locroix, col Dumas e con altri fratelli di Francia, venuti a
combattere per la libertà ed unità d'Italia; perdita dolorosissima per
tutti, ma particolarmente per Garibaldi, che così ne scrisse al Bertani,
in forma d'ordine del giorno del 24 agosto:

«Abbiamo perduto De Flotte! gli epiteti di bravo, di onesto, di vero
democratico sono impotenti per esprimere tutto l'eroismo di quest'anima
incomparabile!

«De Flotte, nobile figlio della Francia, era uno di quegli esseri
privilegiati che un sol paese non ha diritto di appropriarsi; no, De
Flotte appartenne all'umanità intera; giacchè per lui la patria era
ovunque un popolo sofferente e curvo si rialzava per la libertà.

«De Flotte morto per l'Italia, ha combattuto per essa come avrebbe
combattuto per la Francia.

«Quest'uomo illustre è un legame prezioso per la fratellanza dei popoli
che attende l'avvenire dell'Umanità. Morto nei ranghi dei Cacciatori
delle Alpi, egli era, come molti dei suoi bravi concittadini, il
rappresentante della generosa Nazione, che si può arrestare un momento,
ma che è destinata a marciare in avanguardia dell'emancipazione dei
popoli e della civiltà del mondo.

24 agosto.

                                                  _G. Garibaldi._

Da quel giorno lo sfacelo dell'esercito borbonico delle Calabrie seguì
con rapidità crescente. Tutte le provincie si sollevavano precedendo le
forze della rivoluzione, guidate da Garibaldi. La città di Potenza
cacciava le truppe che la custodivano, e la Basilicata rivendicava la
sua libertà. Cosenza costringeva le forze borboniche a capitolare ed a
ritirarsi a Salerno, con impegno di non più combattere contro Garibaldi.
A Foggia, a Bari le truppe fraternizzarono col popolo. Il Generale
Viale, che stava a guardia delle Termopoli di Monteleone con 12000
uomini, minacciato dall'insurrezione del popolo e dalla sedizione delle
truppe, batteva in ritirata, abbandonando ai garibaldini una delle più
forti posizioni, chiave strategica delle Calabrie. Delle truppe in
ritirata prese il comando il generale Chio che si arrestava a
Saveria-Manelli, tra Tiriolo e Cosenza, per attendere di piè fermo il
soproggiungere dei Garibaldini. Prima però che egli arrivasse a Saveria,
le alture che la dominano, erano occupate dalle bande calabresi di
Stocco, parte delle quali erano dirette e comandate dal valoroso
patriota Antonio Taglieri, che nominato tenente passò poi nel 2º
reggimento della divisione Cosenz; cosicchè il Chio si trovò prima di
combattere, accerchiato. Garibaldi ordinò tosto a tutte le truppe che lo
seguivano di convergere a marcia forzata su Tiriolo, e, appena potè
avere sottomano l'avanguardia della divisione Cosenz, la lanciò sulla
strada di Saveria-Manelli, fece calare dalle alture le bande dello
Stocco, ed intimò al generale Chio la resa.

Questi tentò di guadagnare tempo, ma dopo un'ora altri 12000 uomini
andavano dispersi e disciolti come quelli del generale Briganti,
lasciando libere nelle mani del Dittatore tutte le Calabrie. Garibaldi
intanto proseguiva la marcia trionfale per Napoli.

Tra Salerno ed Avellino circa ventimila uomini, la più parte mercenarii
stranieri, stavano aspettando Garibaldi, risoluti a combattere. Ma corsa
la notizia che la rivoluzione si era propagata ad Avellino e nel
Principato Ulteriore, saputo che il generale Calderelli, che aveva
capitolato a Cosenza, era passato con Garibaldi, anche le truppe di quel
campo cominciarono a dar segni di ammutinamento; il che tolse ai
comandanti la speranza di tentare un attacco con probabilità di
successo.

L'arrivo di queste notizie a Napoli indusse il Re a ritirarsi a Gaeta;
il che fece il 6 del mese di Settembre, lasciando Napoli in tutela della
Guardia Nazionale. All'udire la lieta notizia Garibaldi presa a Vietri
la ferrovia, arrivò a mezzogiorno alla stazione di Napoli ove Liborio
Romano lo ricevette, felicitandolo a nome della cittadinanza. Al tocco,
in carrozza, accompagnato da Cosenz, da Bertani, da Missori, da Nullo e
da pochi altri ufficiali entrava in Napoli, passando sotto i forti
ancora occupati dalle truppe borboniche, in mezzo a soldati nemici
sparsi per la città e fra l'entusiasmo di un popolo delirante, scendeva
alla Foresteria, palazzo del Governo, e ne prendeva possesso.

Primo suo atto fu quello di emanare il seguente Decreto:

                                        Napoli, 7 settembre 1860.

                       _Il Dittatore Decreta:_

«Tutti i bastimenti da guerra e mercantili appartenenti allo Stato delle
due Sicilie, Arsenali e materiali di Marina, sono aggregati alla Squadra
del Re Vittorio Emanuele, comandata dall'Amiraglio Persano».

                                                  _G. Garibaldi._

                                    *
                                   * *

Istituiva tosto il governo dittatoriale, nominando Crispi ministro degli
Esteri, Bertani ministro dell'Interno, Cosenz ministro della Guerra, ed
al general Turr dava il comando di tutte le truppe stanziate a Caserta
ed al Volturno.

Il 18 settembre il generale Turr, comandante le forze al Volturno
chiamava a sè il suo capo di Stato Maggiore e tutti i comandanti delle
brigate ai suoi ordini; esponeva ad essi il progetto di una
ricognizione offensiva su Capua, onde antivenire una battaglia che,
secondo notizie ricevute, i regi si apprestavano a dare appunto nel
giorno 19 dedicato a S. Gennaro, dal quale speravano protezione e
vittoria. Si doveva simulare un attacco sul fronte di Capua, per
attirarvi le forze borboniche ed impedire alle medesime di portare
soccorso alla loro sinistra dove dovevano operare le colonne di Csudafii
e di Cattabeni; dava ad ognuno dei comandanti di brigata verbali
istruzioni, determinando ad ognuno la parte che doveva prendervi;
raccomandava infine ai comandanti di non esporre le truppe oltre il
limite richiesto dallo scopo cui tendeva l'azione, cioè la simulazione
di un attacco.

Ordinava quindi che l'azione dovesse effettuarsi nelle prime ore del
giorno seguente, 19 settembre.

In seguito a tale ordine i colonnelli brigadieri Spangaro, Puppi e di
Giorgis si mossero sul fare del giorno del 19 al simulato attacco di
Capua.

L'attacco contro il fronte di questa fortezza fu sostenuto con grande
valore; colla punta della baionetta furono snidati i borbonici che
occupavano due cascine sulla strada conducente agli approcci del forte e
quelli appostati fra l'argine della ferrovia e la strada postale.

I bersaglieri milanesi, comandati dal capitano Pedotti, compirono atti
di grande valore; il capitano, cacciatosi coi suoi fra le fitte schiere
nemiche, corse pericolo di essere soprafatto; vi fu un momento in cui fu
creduto perduto, ma il destino lo volle conservato alla patria.

La mitraglia, senza interruzione vomitata dai bastioni e dai forti di
Capua, cagionava perdite enormi; lo stesso brigadiere Puppi, mentre con
temerario ardimento si esponeva alla testa dei suoi, cadeva mortalmente
ferito. Ormai lo scopo che il comandante superiore erasi prefisso poteva
ritenersi pienamente ottenuto; per cui venne ordinato di retrocedere
ordinatamente, per riprendere ciascun corpo le proprie posizioni. Al
capitano Pedotti coi suoi bersaglieri milanesi, coadiuvato dal
luogotenente Zancarini, comandante la compagnia Genio, fu dato l'arduo
incarico di sostenere e proteggere la ritirata del grosso delle truppe
garibaldine e di trarre in salvo l'artiglieria, specialmente i pezzi che
il fuoco nemico aveva smontati.

Il nemico, appena visto che i nostri muovevano in ritirata,
baldanzosamente usciva in buon numero dal forte per inseguirli e
molestarli; ma venne arrestato dalle punte delle baionette dei bravi
bersaglieri che, guidati dal loro comandante capitano Pedotti e
assecondati dal 3º battaglione comandato dal capitano De Caroli, lo
misero in fuga, inseguendolo fin sotto ai bastioni di Capua, al grido di
«viva Garibaldi».

Il capitano Pedotti per la sua eroica condotta veniva proposto per la
promozione e per la croce dell'Ordine Militare di Savoia.

Altri ufficiali per la loro bella condotta ebbero pure meritate
onorificienze.

Il maggiore Cattabeni, partito secondo l'ordine ricevuto da Caserta alle
3 pom. del giorno 18, arrivava a Limatola a mezzanotte e mandava il
seguente rapporto:

          _Al generale Turr._

«Mi trovo ad un terzo di miglio dalle sponde del fiume. Mi è riuscito
ottenere tre pescatori che mi serviranno di guida. Da qui a Caiazzo vi
sono circa 4 miglia. I soldati riposano, e alle 2 e mezza riprenderò la
marcia. Ho ordinato ai soldati di mettere le giberne all'estremità del
fucile, perchè troveremo un mezz'uomo d'acqua abbondante.

«Dai rinsegnamenti avuti, in Caiazzo ci sono 600 regi, con due pezzi
d'artiglieria.

«Al giungere di questo rapporto, son sicuro Caiazzo sarà in nostro
potere. Non potevamo scegliere un miglior punto di questo per passare il
fiume. Alle 4 e mezza darò l'assalto a Caiazzo, e vedrà che i cacciatori
di Bologna son degni di essere sotto i suoi comandi».

                                         firmato G. B. Cattabeni.

E, come aveva promesso, le truppe comandate dal Cattabeni alle 5 e mezza
entravano a Caiazzo.

Ottenuto lo scopo della ricognizione e di esplorare le forze del nemico,
il Turr esponeva al generale Garibaldi la necessità di ordinare al
Cattabeni di sgombrare Caiazzo; ma Garibaldi mostrava ripugnanza di
abbandonare una così bella posizione; e allora Turr fatta comprendere la
difficoltà di sostenere con un battaglione una posizione così lontana,
al di là di un fiume, raccomandò a Garibaldi di farla occupare
fortemente, e il generale dava ordini al Medici di mandarvi una brigata
della sua divisione; disgraziatamente era però già troppo tardi.

Il generale Garibaldi, visto che il Turr aveva bisogno di riposo, per
migliorare la sua salute il 20 gli telegrafava così:

          _Al generale Turr, Caserta._

«Subito giunto Medici a Caserta incaricato del Comando, venite qui a
passare qualche giorno Napoli 20, ore 6,50» _G. Garibaldi._


Intanto il generale Garibaldi avendo constatato colle ricognizioni del
19, opportunamente ordinate dal Turr, di avere da fare con un nemico che
disponeva di molte forze, si preparava per affrontarlo.

Ma, mentre questo avveniva nel campo garibaldino, i borbonici
preoccupati della perdita di Caiazzo, determinavano di riprenderlo
immediatamente e ad ogni costo.

La mattina del 21 settembre cinque battaglioni di cacciatori regi, due
squadroni di cavalleria ed una batteria da campagna, sotto il comando
del generale Colonna uscivano da Capua per investire Caiazzo.

Il comandante dell'11º battaglione garibaldino che occupava la posizione
avanzata di Monte S. Nicola, avvisava il brigadiere Spangaro di questo
movimento; ma era troppo tardi! I rinforzi non potevano arrivare in
tempo, solo il colonnello Vacchieri con 600 uomini potè giungere in
sussidio dal Cattabeni.

Ma che potevano fare i comandanti garibaldini contro l'enorme
superiorità delle forze nemiche? Essi occuparono un bosco di olivi,
barricarono le strade di Caiazzo ed attesero di piè fermo il nemico. Si
cominciò a combattere fuori le città ma, incalzati da ogni parte, i
garibaldini mancanti di artiglieria, oppressi dal numero, abbandonarono
la campagna e si ritirarono nella città dietro le barricate, per
resistere fino all'estremo. Avveniva allora un fatto atroce; mentre i
nostri combattevano alla difesa delle barricate, i reazionari li
fucilavano alle spalle dalle case e dai tetti. Ogni resistenza diveniva
impossibile, inutile; le barricate erano demolite dal cannone borbonico,
i garibaldini assaliti di fronte e alle spalle; il Cattabeni cadeva
ferito gravemente mentre incoraggiava alla resistenza; molti altri
ufficiali feriti caddero prigionieri; i garibaldini cercarono di
salvarsi ritirandosi, ma, incalzati dalla cavalleria, molti rimasero sul
terreno, altri si gettarono nel fiume, ove non pochi perdettero la vita,
sicchè del battaglione Cattabeni ben pochi rientrarono in Caserta.

Verso la fine di settembre Garibaldi, presentendo che i napoletani,
forti di oltre quarantamila uomini, rinchiusi a Capua avrebbero fatto un
supremo sforzo per riconquistare Napoli al loro Re, aveva mandato fuori
un caldo proclama chiamando i commilitoni a raccolta e chiedendo
all'Italia nuovo aiuto d'uomini, pel compimento dei suoi voti di libertà
e d'indipendenza.

Alla chiamata di Garibaldi volle rispondere anche l'Elia, che il
Prodittatore Depretis aveva mandato a Bologna alle cure del professore
Rizzoli; sebbene assai sofferente e impedito di parlare, pur'egli sentì
il dovere di non mancare allo appello, tanto più che il tenente Lanari,
superstite del battaglione Cattabeni, si offriva di accompagnarlo.

Quando il generale lo vide a Caserta lo accolse con gioia ed amore,
rallegrandosi di vedere avverata la sua profezia del 15 maggio a
Calatafimi «_Coraggio, mio Elia, di queste ferite non si muore_» che
egli si compiacque di rammentare ai presenti del quartiere generale.

                                    *
                                   * *

Come Garibaldi aveva previsto i borbonici si preparavano ad una fiera,
disperata riscossa.

Ma il generale dal canto suo non si faceva cogliere sprovvisto.--Egli si
approntava a ricevere il nemico come si conveniva, e prendeva il partito
il fronteggiarlo in tutti i punti, pei quali avrebbe potuto sfondare e
marciare su Napoli.

A questo scopo dava le sue disposizioni.

Le posizioni dell'esercito garibaldino, cominciando dalla sua estrema
destra, cioè da Maddaloni, descrivendo un semicerchio erano le seguenti:

Monte Longone, Monte Caro, Castelmorone, posto di prolungamento della
linea tra Maddaloni e S. Leucio; S. Leucio, Sant'Angelo, Santa Maria e
San Tommaso, le quali erano occupate così:

Sopra Maddaloni Bixio colla sua divisione, che componevasi delle brigate
Dezza e Spinazzi, più la brigata Eberhardt della Divisione Medici, con
la colonna Fabrizi, in tutto 5500 uomini circa, con 8 pezzi di
artiglieria.

A Castelmorone, passo da Caserta a Limatola, il battaglione Bronzetti di
soli 270 uomini.

A S. Leucio il generale Sacchi colla sua brigata (divisione Turr) di
2000 uomini circa.

A Sant'Angelo il generale Medici con la sua divisione (meno la brigata
Eberhardt) e colla brigata Spangaro (divisione Turr) in tutto 4500
uomini circa, con 9 pezzi da campagna e il reggimento Brocchi del genio
con 300 uomini.

A San Tommaso, estrema sinistra, della divisione Cosenz, il reggimento
Fardella esteso fino alla ferrovia di S. Maria e a Capua, ove eravi pure
una mezza batteria, i reggimenti Malenchini e Laugè della divisione
Cosenz, sulla strada ruotabile a destra di S. Maria, ed a sinistra verso
la ferrovia la brigata La Masa con una compagnia del genio, distesa
verso lo stradale Santa Maria-Sant'Angelo; la batteria della divisione
Turr a Porta Capua di S. Maria. Tutta questa forza sotto gli ordini del
generale Milbitz.

Ad Aversa il colonnello Corte con la brigata di formazione.

La riserva forte di 5500 uomini circa, con 12 pezzi di artiglieria,
sotto gli ordini del generale Turr a Caserta.

La battaglia era imminente; Garibaldi la presentiva. Il 30 di settembre
aveva notato un gran movimento in Capua, e siccome era sicuro di aver
indovinato il pensiero del suo avversario, mandava gli aiutanti ad
avvertire i suoi Luogotenenti che facessero buona guardia perchè
l'indomani sarebbe avvenuto l'attacco generale, ultimo, disperato
tentativo da parte dei borboni.

Il 1º ottobre, alle 3 del mattino, il generale Garibaldi seguito dal suo
stato maggiore e dai suoi aiutanti montava in ferrovia e giungeva a S.
Maria sul far dell'alba. Il Milbitz era già alle prese col generale
Tabacchi in S. Maria, e il Medici con Afan de Rivera a S. Angelo.

Il generale Tabacchi, attaccando S. Maria e trovando forte resistenza di
fronte da parte dei reggimenti Lauger, Sprovieri, Corrao e La Porta,
spinse una parte delle sue truppe a sinistra per girare la città e
tagliare le comunicazioni fra S. Maria e Sant'Angelo; ma se ne avvide
del tentativo Garibaldi ed ordina alla brigata Assanti di accorrere in
aiuto.

Dava pure ordine al 2º battaglione bersaglieri livornesi comandati dal
maggiore Sgarallino di spingersi a sinistra dalla strada per S. Angelo,
al 2º reggimento colonnello Borghesi, ed al 1º comandato dal tenente
colonnello Fazioli, di occupare il cimitero ed una casa, per tener testa
all'irrompente nemico. Tutti questi ordini rigorosamente eseguiti,
malgrado il fulminare incessante del nemico, rafforzano la minacciata
posizione tenuta con estremo valore dal brigadiere Malenchini e dai suoi
eroici compagni. L'attacco fulmineo della brigata Assanti e dei bravi
guidati da Lauger, Sprovieri, Palizzolo, Malenchini, La Porta ferma lo
slancio del nemico che si riduce ad investire Santa Maria.

Mentre a destra ardeva così il combattimento a Sant'Angelo i Regi
facevano i più arditi sforzi, con le più grandi masse, per sfondare la
linea occupata dai nostri e irrompere su Caserta e Napoli. Il Dunn, lo
Spangaro, il Simonetta, il Ferrari, il Pedotti facevano sforzi eroici
per contenere ed arrestare l'impeto del nemico, ma battuti da tutti i
lati dall'artiglieria dei Regi, ferito il brigadiere Dunn, morto il
comandante del battaglione Ramorino, feriti i capitani Tito, Franco ed
altri, sono costretti a dare indietro e a riparare dietro le barricate.

Il generale Medici comprendeva che la perdita della sua posizione
sarebbe stata la perdita della battaglia e l'occupazione da parte dei
Regi di Caserta e di Napoli. Bisognava vincere ad ogni costo: «Avanti
figliuoli» egli grida--«moriamo tutti qui se occorre, ma vinciamo in
nome d'Italia e di Garibaldi».

«Avanti tutti» egli grida--e colla risoluzione di vincere o di morire si
mette alla testa dei suoi e, sorretto dalla sezione d'artiglieria
comandata dal tenente Torricelli, si slancia contro il nemico
affrontandone il turbine di fuoco, caricando furiosamente alla
baionetta; cadeva nella brillante carica il maggior Castellazzo, il
luogotenente Capanelli e molti altri, ma il nemico era fermato e
obbligato a retrocedere.

Il generale Garibaldi che dalle prime ore del mattino si trovava a S.
Maria, confidando interamente in Milbitz, suo vecchio compagno di Roma,
cui aveva raccomandato di tener duro e impedire ad ogni costo che le
comunicazioni tra S. Maria e Sant'Angelo fossero tagliate, montò in
vettura e, scortato dal suo stato maggiore, da Missori, da Arrivabene,
da Canzio, da Basso e da alcune guide, si mosse verso Sant'Angelo per
vedere se, anche in quel campo d'azione, il combattimento era impegnato
seriamente.

La strada che da S. Maria va a Sant'Angelo era fulminata; il generale
Garibaldi in quel momento supremo per le sue armi nel traversarla si
trovò avvolto in un nembo di morte; la carrozza tempestata da una
grandine di fucilate fu involta fra un nugolo di nemici. Già le scariche
avevano ucciso un cavallo ed il cocchiere, talchè Garibaldi fu costretto
a balzare a terra e coi suoi difendersi; cadeva ferito, facendo scudo al
generale il prode Arrivabene; il pericolo era grande; ma se ne avvidero
i carabinieri genovesi comandati dal Mosto, i carabinieri lombardi
comandati dal Simonetta, e il bravo capitano Romano Pratelli comandante
la 7ª compagnia della brigata Spangaro, i quali tutti si slanciarono
con tale impeto che il nemico fu in breve sbaragliato e posto in fuga a
punta di baionetta, e a Garibaldi e ai suoi fu aperta la via per Monte
Sant'Angelo.

Ivi arrivato trovò Medici che alla testa dei suoi faceva eroici sforzi
onde rigettare le masse borboniche e s'avvide che le sommità del Monte
S. Nicola erano occupate dai nemici, i quali per strade coperte avevano
delusa la vigilanza dei garibaldini e, girato Sant'Angelo, si erano
portati dietro la nostra linea, occupando le alture.

Senza perdita di tempo il generale raccolse tutte le truppe che potè
avere sotto mano e, preso esso stesso il comando, si avviò per stretti
sentieri di montagna passando al di sopra del nemico e d'improvviso
fatta una sola scarica si precipitò sui borbonici che ne rimasero
schiacciati e fatti prigionieri.

Intanto altre truppe giungevano in aiuto al Medici condotte dal maggiore
Farinelli, dal maggior Morici, dal Simonetta, dal colonnello Ferrari, e
dal colonnello Guastalla, capo dello stato maggiore; con tutte queste
forze il Medici ordinava un estremo assalto alla baionetta; questo fu
condotto con tale impeto irresistibile, che i borbonici furono rotti e
posti in fuga lasciando numerosi prigionieri.

Quando Garibaldi fu assicurato che a Sant'Angelo per l'eroica condotta
dei combattenti potevasi ormai contare sulla vittoria, si lanciò di
nuovo verso S. Maria. Mentre accorreva in quella parte ove il
combattimento era aspramente impegnato, il generale Turr mandò a
Garibaldi un suo ufficiale d'ordinanza, per fargli noto di avere inviata
parte della riserva a S. Maria e parte in rinforzo a Bixio; e per
chiedergli se credeva arrivato il momento opportuno per fare entrare in
combattimento i restanti 3500; Garibaldi gli rispondeva: «marciate con
tutte le forze su S. Maria, dove mi troverete».

Il generale Turr non perdette un minuto--egli teneva pronti i suoi--e
presto fu a S. Maria ove trovò che Milbitz faceva eroici sforzi per
ribattere gli attacchi sempre ripetuti del nemico.

Appena Garibaldi vide Turr con la riserva gli disse: «Siamo
vincitori--non occorre che l'ultimo colpo decisivo».

All'istante il generale Turr ordina alla brigata Milano che aveva
condotto con sè di caricare il nemico; Garibaldi seguito da Rustow coi
suoi usseri si mette alla testa della brigata; tutti gli altri corpi
fanno a gara per seguirlo nell'estremo cimento; Corrao, La Porta, Pace,
Palizzolo, Sprovieri, Malenchini, Bassini, Tasca si slanciano in furioso
attacco; il battaglione Tasca del reggimento Bassini, 1ª compagnia
Lepore alla testa, affronta il nemico che erasi fortemente trincerato
nel Cimitero da dove seminava strage sui nostri; il primo a scalare la
cinta è il valoroso furiere Pittaluga; il Pittaluga è seguito dalla 1ª
compagnia e dalle altre; il Cimitero è preso colla punta della baionetta
e il nemico posto in fuga; molti rimangono prigionieri e il prode
Pittaluga è promosso sottotenente sul campo di battaglia.

Altri si avventano contro la batteria nemica e se ne impadroniscono.

Ma non era ancora la vittoria predetta da Garibaldi!

A S. Maria ancora si combatteva accanitamente.

La compagnia La Flotte teneva fermo nella Cascina davanti S. Maria dalla
mattina, da dove cinque furiosi assalti nemici non avevano potuto
sloggiarla. Ma tutti erano sfiniti.

Per fortuna il capitano Adamoli dello Stato maggiore portava la notizia
al generale Turr dell'arrivo della brigata Eber; si sentiva il vivissimo
fuoco col quale era stata accolta la brigata Milano guidata da Garibaldi
in persona, e Turr ordinava che Eber con la brigata, colla legione
ungherese e con la compagnia dei cacciatori esteri, accorresse a
sostegno.

Il Dittatore, sboccato sulla strada S. Angelo colla brigata Milano, era
stato accolto da fuoco violentissimo sulla sua sinistra; la cavalleria
borbonica si slanciava alla carica, ma i bersaglieri milanesi mandati
dal Medici a sostegno e guidati dal capitano Pedotti, tennero testa con
una furiosa controcarica loro e della legione ungherese e mettono in
fuga, sbaragliata, la cavalleria borbonica.

Era ora di finirla; e Garibaldi manda ordine al Turr a S. Maria, a
Medici a Sant'Angelo, perchè si faccia un ultimo supremo sforzo su tutta
la linea; Scheiter coi suoi usseri ungheresi, Corrao, La Porta, coi loro
reggimenti; Tanara, Cucchi, Tasca coi loro battaglioni si lanciano in
aiuto delle truppe di Malenchini e del Bassini e tutti uniti si
avventano contro il nemico con furiosa carica alla baionetta; il nemico
è rotto su tutta la linea, sbandato ed in ritirata su Capua.

La giornata del 1º ottobre fu memorabile.--In quel fiero combattimento
anche una volta Garibaldi dava prova di grande sapienza militare: i suoi
luogotenenti Turr, Medici, Bixio, Milbitz e Dezza, si mostrarono degni
di lui; i bravi garibaldini tutti, diedero prove di grandissimo valore e
di abnegazione. Moltissimi furono coloro che si distinsero e fra questi
i colonnelli Borghesi e Fazioli, il maggiore Pedotti, il tenente
Carbone, il Tommasi, che il Malenchini promosse capitani; a fianco del
Carbone combattè da valoroso il furiere maggiore Coffa che veniva
promosso sottotenente e fregiato della medaglia al valore militare.

Verso le 6 pom. tutta la linea di battaglia da S. Maria alle alture di
S. Angelo era abbandonata dai nemici e i garibaldini estenuati, dopo 14
ore di combattimento accanito, potevano riposarsi sul campo tanto
gloriosamente difeso.

Anche da Maddaloni Bixio aveva mandata la notizia della vittoria su
tutta la sua linea.

Il combattimento fu lungo ed accanitissimo.--Bixio aveva voluto dai suoi
compagni nel grave cimento la promessa che sarebbero morti tutti al loro
posto piuttosto che permettere ai borbonici di marciare su
Caserta--«Devono passare sui nostri corpi» aveva detto e gli assalti
delle truppe regie, replicati ed accaniti, furono respinti ed infine i
nemici furono posti in fuga.

Gli atti di eroismo di Bixio, di Dezza, di Menotti Garibaldi, degno
figlio del padre, e di tanti altri, fra i quali si distinse anche il
tenente Venzo che con pochi de' suoi fugato il nemico s'impadroniva di
un cannone, non possono descriversi: si comportò da valoroso il tenente
Giorgi Tullio; venne proposto per la promozione e per la medaglia al
valore il tenente Taglieri Antonio e si distinsero molti e molti altri
nel fiero combattimento, che fu vinto colla punta della baionetta e con
atti di vero eroismo.

È degno di memoria onorata questo episodio; mentre si combatteva
accanitamente in tutta la linea a S. Maria, a S. Angelo ed a Maddaloni,
il maggiore Bronzetti con 270 dei nostri sosteneva a Castel Morrone
l'urto di 3000 borbonici, respingendoli a varie riprese in ben dieci
assalti; la maggior parte di quei bravi era caduta; invano gli ufficiali
napoletani esortavano i superstiti ad arrendersi, facendo sapere che
tanto valore sarebbe stato rispettato; Pilade Bronzetti resistette entro
il castello finchè ebbe cartucce, e, quando queste vennero meno, i
difensori di Castel Morrone vollero morire da eroi. Stretti come un sol
uomo, tentarono aprirsi un varco colla baionetta tra le migliaia dei
nemici; caddero quasi tutti; fu ferito a morte lo stesso eroico
Bronzetti e i pochi non feriti vennero condotti prigionieri. Fra questi
eroi sacrati alla morte, combatterono disperatamente il valorosissimo
Mirri capitano ed i tenenti Matteo Renato Imbriani e Vincenzo
Migliorini, che si guadagnarono la medaglia al valore militare e la
promozione.

                                    *
                                   * *

Mentre Garibaldi co' suoi del quartiere generale si ritirava da S.
Angelo, s'imbattè nei carabinieri genovesi che vollero fargli scorta;
fatto _l'alt_ per il rancio, e per un piccolo riposo di cui tutti
sentivano il bisogno, venne al Generale l'avviso che una colonna di 5000
borbonici trovavasi a Caserta vecchia, pronta a piombare su Caserta,
quartiere generale garibaldino. Mandate staffette per avvertire Sirtori
che era a Caserta e Bixio a Maddaloni, egli coi carabinieri genovesi e
con altre forze, che potè avere sotto mano, si mise subito in marcia,
prendendo la via della montagna. I nemici si erano mossi su Caserta ove
trovavano Sirtori che li ricevette vigorosamente; e, sorpresi ai fianchi
ed alle spalle dalle forze di Bixio e da quelle condotte da Garibaldi,
dopo poca resistenza furono fatti prigionieri.

La vittoria del Volturno del 1 e 2 ottobre aveva tolto ai borbonici ogni
possibilità di rivincita; rinchiusi nelle fortezze di Capua e Gaeta non
avevano altro scampo, che una resa più o meno lontana.

Però un pensiero crucciava Garibaldi. Esso diceva con gli amici nei
brevi momenti di riposo al quartier generale di Caserta: «Il primo
ottobre abbiamo sconfitto il nemico a tal punto, che non sarà più in
grado di affrontarci; ma non posso andare a Roma, lasciando addietro
40,000 uomini trincerati in due fortezze: essi si riprenderebbero
Napoli, quando io coi miei non fossimo qui a difenderla».

                                    *
                                   * *

A distoglierlo da cotali pensieri era avvenuto un fatto politicamente
assai importante.




                              =CAPITOLO XX.=

    =Liberazione dell'Umbria e delle Marche Castelfidardo-Ancona.=


Decisa l'occupazione delle Marche e dell'Umbria da parte delle truppe
Piemontesi, il Conte di Cavour ne dava avviso con sua nota del 7
settembre 1860 al Cardinale Antonelli nella quale si diceva: Che il
governo Sardo era dovuto venire in quella determinazione perchè «la
coscienza del Re Vittorio Emanuele non gli permetteva di rimanersi
testimone impassibile delle sanguinose repressioni con cui le armi dei
mercenari stranieri al soldo del governo papale, soffocherebbero nel
sangue italiano ogni manifestazione del sentimento nazionale. Niun
governo ha diritto di abbandonare all'arbitrio di una schiera di soldati
di ventura gli averi, l'onore, la vita degli abitanti di un paese
civile.

«Per questi motivi dopo aver chiesti gli ordini di S. Maestà il Re mio
Augusto Sovrano, ho l'onore di significare a Vostra Eminenza che truppe
del Re hanno incarico d'impedire, in nome dell'umanità, che i corpi
mercenari pontificii reprimano colla violenza l'espressione dei
sentimenti delle popolazioni delle Marche e dell'Umbria.

«Ho inoltre l'onore d'invitare Vostra Eminenza, per i motivi sopra
espressi, a dare l'ordine di disarmare e di sciogliere quei corpi, la
cui esistenza è una minaccia continua alla tranquillità dell'Italia.

«Nella fiducia che V. Eminenza vorrà comunicarmi tosto le disposizioni
date dal governo di S. Santità in proposito, ho l'onore di rinnovarle
gli atti dell'alta mia considerazione.

                                            Firmato: _C. Cavour_»

Sciogliere l'esercito sarebbe stato lo stesso che aprire le porte alla
rivoluzione; il governo pontificio dovette scegliere la guerra.

Dopo la giornata del 1859 nella quale le truppe pontificie comandate dal
generale Schmidt espugnarono Perugia commettendovi fatti atroci, Cortona
era divenuta il centro dei nuovi preparativi insurrezionali nel
limitrofo Stato romano. Emigrati perugini, come il Danzetta, il conte
Ansidei, il Pompili ed il Massarucci vi avevano preso stanza e vi
tenevano adunanze di patrioti; v'interveniva anche il Gualterio che
aveva preso parte al movimento del 27 aprile in Toscana. Questi, assieme
al Diligenti, si recava a Torino dal conte di Cavour per stabilire
accordi per una prossima sollevazione dell'Umbria.

Gli accordi furono questi: il Danzetta ed il Massarucci con altri
patrioti ed amici dovevano preparare una sollevazione nel punto che essi
avessero creduto il migliore per l'8 o 9 di settembre. Il Diligenti
venne incaricato di intendersi coi patrioti Toscani vicini alla
frontiera perchè si riunissero in armi a Chiusi il giorno 7 e di là
corressero a prestare man forte ai sollevati dell'Umbria; il Diligenti
per questo s'intese anche coi liberali livornesi e tutto era stabilito.

Cento patrioti dell'eroica città di Perugia, dei quali erano capi
Ugolini conte Galeazzo e Manni Gaetano, uscirono dalla città, si
diressero all'osteria dell'Ellera, poco distante, ove trovarono ordine
di recarsi a Chiusi per concretare le operazioni da farsi; durante il
cammino incontrarono una squadra di gendarmi, impegnarono la lotta, ne
uccisero alcuni e fecero gli altri prigionieri.

A Todi ed a Terni altri patrioti dei quali era alla testa il conte Alceo
Massarucci erano pronti pel movimento; e l'8 di settembre i patrioti che
il Massarucci aveva radunati si mettevano in marcia; erano circa 400
mandati dal Massarucci, dal Theodoli Mario, da Baldoni Giuseppe, e da
Colacicchi di Todi; luogo di convegno era l'altura di Allerona; vi
arrivarono alle 11 della notte del 9 ove trovarono i volontari condotti
dal Danzetti e dal Bruschi. A Chiusi aveva preso il comando di altri 300
volontari, il colonnello Masi e ne aveva formata la legione alla quale
aveva dato il nome dei Cacciatori del Tevere. Partito il Masi da Chiusi
si diresse su Città della Pieve, ove nominava un governo provvisorio.
Giungevano da Chiusi altri 150 volontari condotti dal capitano Giuseppe
Baldini. Il giorno 10 il colonnello Masi, arrivava al convento di S.
Lorenzo ove erano adunati i volontari dell'Umbria e prendeva il comando
del corpo di circa mille uomini.

Fu deciso di marciare su Orvieto e, colle intelligenze che si avevano
nell'interno, impadronirsi della città di notte e di sorpresa. Il
colonnello riunita la colonna nel piazzale del convento di S. Lorenzo,
con voce vibrata disse parole patriottiche agli adunati chiedendo a
tutti abnegazione e valore; tutti lo giurarono. Divise quindi le forze
in due colonne, una la prese con sè e si diresse al nord della città
d'Orvieto, con la speranza che gli amici interni gli aprissero la porta
da quel lato della città come era convenuto, l'altra colonna sotto il
comando del capitano Liborio Salvatori si diresse dalla parte sud della
città, su quel cono di tufo alto ed inaccessibile, nel mezzo della
spianata del quale sorgono le mura dell'antica Orvieto.

Erasi convenuto con i liberali orvietani che verso la mezzanotte
avrebbero fatto scendere una scala di corda per la quale i volontari da
fuori sarebbero ascesi sulle mura. All'ora stabilita la scala era al
posto; primo a montarvi fu il coraggioso Delbontromboni Giovanni di
Crevalcore, già caporale dei finanzieri pontifici; altri lo seguirono;
nel salire assai faticoso, disgrazia volle che i fucili di quei bravi
urtassero e facessero rumore; già il bravo Delbontromboni stava per
arrampicarsi sulla sommità delle mura, quando una voce gridò; «Chi
vive?» alla risposta «Roma» seguì una detonazione che fu susseguita da
altre; la scala venne abbandonata da coloro che la tenevano e i
volontari che vi erano saliti, sbattendo violentemente contro il tufo,
precipitarono nel fossato. Il tentativo era fallito e la colonna dovette
ritirarsi a S. Lorenzo, ove prima del giorno faceva pur ritorno il
colonnello Masi, essendogli fallito anche il tentativo dell'apertura
della porta al nord della città.

L'audace tentativo non andava però perduto; il giorno seguente le
autorità cittadine guidate dal conte Piccolomini, assecondate dal popolo
orvietano tutto assembrato, si presentavano al legato del Papa monsignor
Cerruti chiedendo si aprissero le porte alle truppe nazionali e si
evitassero conflitti.

Il delegato, dopo breve indugio, accordava la resa e dava incarico per
l'esecuzione alla rappresentanza comunale; così i cacciatori del Tevere
entravano in Orvieto dalla parte della Rocca, mentre i papalini ne
uscivano dalla porta Romana.

La sera del 17 settembre i cacciatori incolonnati prendevano la via di
Bagnorea preceduti da ardita avanguardia comandata dal tenente marchese
Mario Theodoli. Arrivata la colonna a Bagnorea dopo breve sosta, riprese
la marcia per Cellino e Montefiascone; si sperava di arrivare al paese
di sorpresa, ma a tre chilometri distanti alcuni uomini dell'avanguardia
mandati avanti dal Theodoli ad esplorare, s'imbatterono in una pattuglia
di gendarmi a cavallo; altri a piedi seguivano a distanza; gli uomini
dell'avanscoperta aprirono il fuoco: i carabinieri a piedi che si
trovavano a distanza si misero in fuga, quelli a cavallo che erano già
sopra ai nostri furono fatti prigionieri. Ma i fuggiti avevano dato
l'allarme e la sorpresa non fu più possibile.

Una compagnia di pontifici (belgi) si fece avanti per arrestare
l'avanguardia dei cacciatori comandati dal Theodoli, ma i nostri, fatta
una scarica, e sorretti dal corpo del Masi sopraggiunto di corsa,
attaccano i belgi alla baionetta, li mettono in fuga e con essi
entravano a Montefiascone, mentre i papalini fuggivano dalla parte
opposta per la via di Viterbo.

Il giorno 20 settembre la guarnigione pontificia avendo abbandonato
Viterbo, una deputazione cittadina veniva ad invitare Masi ad entrarvi,
ed alle 5 pomeridiane dello stesso giorno i nostri erano a Viterbo. Il
24 i cacciatori del Tevere occupavano Civitacastellana e Corneto.

Il 2 di ottobre i cacciatori lasciata Civitacastellana giunsero parte a
Rignano Flaminio, altri a Castelnuovo di Porto e una colonna a Fiano
Romano; il 5 tutta la colonna transitava sulla sinistra del Tevere e nel
pomeriggio arrivava a Poggio Mirteto, città delle più patriottiche.

Presavi stanza il colonnello Masi spediva il Diligenti ed il Massarucci
al generale Brignone in Terni per sapere se poteva proseguire il suo
movimento verso Roma e quali erano le intenzioni del Governo.

I due patrioti venivano incaricati dal generale di fare sapere al
colonnello Masi che ogni speranza di andare a Roma era svanita e che
ordine perentorio eravi di sgombrare dal così detto patrimonio di S.
Pietro.

Fu forza al Masi di ubbidire e l'8 di ottobre non restava un volontario
sulla sinistra del Tevere. I cacciatori del Tevere si erano ridotti a
Montefiascone diretti per Orvieto, da dove avevano mossi i primi passi
pieni di ardire e di speranze; il 20 dovettero abbandonare anche
Orvieto!

In seguito i cacciatori del Tevere formati in due battaglioni, sotto gli
ordini del colonnello Masi, poterono rendere segnalati servigi al paese
combattendo il brigantaggio che nell'Ascolano e negli Abruzzi
perpetravano atrocità inaudite specialmente in Collalto, segnalandovisi
in modo particolare il capitano Marchese Mario Theodoli che si meritava
promozioni ed onoreficenze; vi si distinsero pure il tenente Giulio
Silvestri ed il più giovane fratello Annibale sottotenente, romani.

                                    *
                                   * *

Per liberare l'Umbria dai mercenari del papa comandati dal famoso
generale Schmidt, fu dato incarico al generale Fanti, comandante del 5º
corpo, il quale formò il piano seguente:

1º Impadronirsi di Perugia come base d'operazione;

2º Marciare compatti su Foligno, centro delle comunicazioni dello Stato
pontificio con l'intento d'assicurare per ogni evento la congiunzione
col 4º corpo, comandato dal Cialdini;

3º Da Foligno rivolgersi su Spoleto o su Ancona secondo le mosse di
Lamoricière.

Il generale De Sonnaz con la brigata granatieri di Sardegna ed altre
truppe sussidiarie, bersaglieri, artiglieria, cavalleria e genio, doveva
occupare Perugia. La mattina del 14 settembre investiva la piazza murata
e alle ore 9 la colonna di destra comandata dallo stesso generale De
Sonnaz, sfondava la porta S. Antonio e coi bersaglieri in testa,
comandati dal colonnello Pallavicini, entrava in città. Mentre questo
avveniva a destra, i granatieri di Sardegna a sinistra sfondata la porta
Santa Margherita entravano essi pure trionfanti in Perugia. Il generale
Schmidt che si era ritirato nel forte, alle 6 pomeridiane capitolava.
Così per le eccellenti disposizioni tattiche prese dal generale De
Sonnaz e pel valore delle nostre truppe si ebbe espugnata
l'importantissima piazza di Perugia e si arrendevano prigionieri 1700
ponteficii con sei pezzi d'artiglieria e la bandiera del 2º reggimento
estero.

                                    *
                                   * *

Nelle Marche le cose andavano così:

L'8 settembre Urbino insorgeva e fugati i gendarmi pontificii, abbattuti
gli stemmi del governo papale proclamava l'unione all'Italia sotto la
dinastia di Savoia; Fossombrone ne seguiva l'esempio innalzando il
vessillo tricolore. A tale notizia il generale Lamoricière mandava
ordine al Di Curten di ridurre a servitù le ribellate città. Il giorno
11 Fossombrone veniva violentemente assalita da una forte colonna di
mercenari, i quali sorpresa la città vi rinnovarono le scelleratezze e
gli eccidî che funestarono la patriottica Perugia; non ebbe il _prode_
Di Curten l'ardire di assalire Urbino, ove lo attendevano in armi i
generosi cittadini rafforzati da 800 volontari accorsi in loro soccorso
dalle terre vicine, risoluti all'estrema resistenza.

Nè, nella baldanza brutale di quell'orgia sanguinaria, ardiva di muovere
su Pergola che erasi pure sollevata con grande entusiasmo e si sosteneva
con vigoroso ardimento, ispirato coll'esempio dai patriotti G. Batt.
Jonni e Ascanio Ginevri.

Per tutte le Marche il Lamoricière aveva fatto proclamare lo stato
d'assedio e le scorazzava terrorizzando le popolazioni con atti feroci.

Al Cialdini, a cui il governo del Re aveva dato l'incarico di liberare
le Marche da tanto flagello, era imposto il dovere di accelerare le sue
mosse per cogliere il nemico disseminato e sconfiggerlo prima che avesse
potuto raccogliersi.

Il mezzogiorno del 11 settembre una brigata di cavalleria e tre
battaglioni di bersaglieri, divorata la via, accerchiavano la città di
Pesaro.

Il Cialdini mandava un parlamentario coll'intimazione della resa, ma
essendo stata questa respinta, l'artiglieria, che appena arrivata aveva
preso posizione, apriva il fuoco contro porta Rimini e porta Cappuccini.
Dopo un'ora di cannoneggiamento i nostri bravi bersaglieri entravano in
città per le porte sfondate.

La guarnigione mercenaria erasi riparata nel forte coll'intendimento di
resistere; ma il giorno di poi dopo un vivacissimo fuoco della nostra
artiglieria piazzata sul colle di Loreto, inalberava bandiera bianca e
si arrendeva a discrezione.

Il giorno 12 i nostri s'impadronirono di Fano e la mattina del 13
riprendevano la marcia per Ancona.

Il 14 si volle dare un po' di riposo alle truppe a Senigallia, ma,
saputosi che la colonna del generale Di Curten si trovava sulle alture
di S. Angelo, il bravo generale Leotardi ordinava al brigadiere Avogadro
di Casanova di muovere subito ad attaccarli e questi, con due
battaglioni della brigata Bergamo e coi Lancieri di Milano, verso le 2
pomeridiane assaliva il nemico vigorosamente e lo sbaragliava, facendo
buon numero di prigionieri.

Nella notte del 14 il generale Cialdini veniva informato che il generale
Lamoricière si dirigeva per la Valle del Chienti a marcie forzate verso
Ancona con circa 4000 uomini e che era seguito, ad un giorno di
distanza, dal general Pimodan colla 2ª brigata di circa 5000 uomini; e
gli si riferiva pure che avrebbe passata la notte del 15 a Macerata.

Da Macerata per Ancona il Lamoricière poteva percorrere tre strade; la
1ª, più breve e più diretta, discende in Val di Potenza, passa questo
fiume, sale a Monte Casciano e per Monte Fiore procede per Osimo e di
là ad Ancona; la 2ª che, dopo passato il fiume Potenza segue il
versante a maestro di questa valle mette a Recanati, sale a Loreto e per
la Valle di Musone va alle Crocette di Castelfidardo e ad Ancona; la 3ª
segue la cresta delle colline fra Potenza e Chienti, per Monte Lupone e
Monte Santo sbocca alla spiaggia, varca il fiume Potenza presso la foce,
viene a Porto Recanati e per Camerano va ad Ancona.

Il generale Cialdini al mattino del 16 fece occupare un'eccellente
posizione fra Osimo e Jesi, spingendosi fino a Castelfidardo.

Per trarre in inganno il Lamoricière sulle sue intenzioni il Cialdini
mandava nel cuore della notte del 15 uno squadrone di lancieri a
Filottrano, con incarico di ordinare perentoriamente pel mattino
seguente 24,000 razioni di pane per l'esercito, il quale doveva
attraversare il paese diretto per Macerata. Invece, nella stessa notte,
i due battaglioni 11º e 16º che colla brigata Como avevano occupato
Torre di Iesi, si portavano a passo accelerato accompagnati da una
sezione d'artiglieria, ad occupare la forte posizione di Osimo.

Il Lamoricière arrivò il 15 a Macerata ed il 16 a Loreto, ove il 17 lo
raggiunse la colonna Pimodan.

Soltanto il Musone separava i due eserciti; il generale Cialdini aveva
dovuto disporre le sue truppe in modo da parare contemporaneamente a due
attacchi, convergenti ma provenienti da direzioni opposte, e cioè da
Loreto e da Ancona. A tale intento, aveva occupate le colline che
dividono il Musone dall'Esino, e si protendono digradando verso il mare
fin presso la confluenza dei fiumi. L'ordine di battaglia delle truppe
italiane aveva quindi due fronti, l'uno rivolto al nord, verso Ancona e
disteso dal ponte delle Ranocchie, per S. Biagio, la Badia e San
Rocchetto, alle Crocette: l'altro, rivolto al sud, verso Loreto, dalle
Crocette, per Campanari, Castelfidardo, S. Solino ad Osimo. Quest'ultimo
era il più forte, come il più potente era il capo pontificio al quale
doveva opporsi.

Il Lamoricière, che aveva per obbiettivo Ancona, comprese subito che per
raggiungerlo gli era necessario d'impadronirsi della linea di colline
che riunisce l'Esino al Musone e più che altro, del poggio che fa
culmine al Monte Oro ad oriente delle Crocette. Divise perciò il suo
corpo in due colonne: l'una forte di cinque battaglioni, tre squadroni e
12 cannoni guidati da Pimodan, che, con una conversione a sinistra
doveva sloggiare le truppe italiane dalla suindicata posizione; la
seconda, sotto il proprio comando, forte di quattro battaglioni, riparti
di cavalleria e 4 pezzi, doveva attaccare da destra.

Alle ore 9,30 del 18, l'avanguardia pontificia, carabinieri e svizzeri,
urtò contro i primi avamposti italiani sulla destra del Musone.
L'estrema punta dell'ala sinistra italiana era formata da bersaglieri,
ossia dal 26º battaglione, e di una compagnia del 12º, ed occupava col
grosso il poggio e col resto il piano inclinato antistante, circoscritto
a Nord-Est dall'Aspio ed a Sud dal Musone. Due grosse case coloniche si
ergevano in quello spazio, l'una nel piano, l'altra a mezza costa.

Il combattimento si accese innanzi alla casa di sotto, che le cinque
compagnie di bersaglieri raccoltesi là intorno, difesero valorosamente
contro tre battaglioni pontifici, carabinieri e svizzeri, il primo
cacciatori indigeni ed i zuavi franco-belgi con due cannoni; dopo
accanitissima resistenza, soprafatti dal numero, i bersaglieri
ripiegarono alla casa di sopra, che egualmente tennero con tenacia e che
pur dovettero sgombrare. Ma, accorsi a sostegno, prima due e poi due
altri battaglioni del 10º reggimento fanteria con due cannoni, dopo
pugna ostinata le due case vennero riprese; ed invano varcarono il
Musone e si schierarono in battaglia gli altri due battaglioni del
Pimodan, che vi perdeva la vita, ed i quattro della colonna Lamoricière
con tutta la loro artiglieria. Queste truppe non ressero a lungo al
fuoco delle truppe italiane e si ruppero, sbandandosi quali verso
Loreto, altre verso Recanati; mentre alcuni piccoli drappelli si
diressero verso Umana. Riuscì a pervenire in Ancona solo il generale
Lamoricière con pochi dei suoi, deludendo la vigilanza dei nostri.

Alle 2 del pomeriggio il combattimento era cessato.

Dalla parte di Ancona tuonava il cannone. Fin dalle 8 di mattina la
flotta aveva aperto il fuoco contro la piazza, danneggiando le opere di
Monte Cardetto e di Monte Marano; verso sera si ritrasse al largo avendo
raggiunto il suo scopo, cioè quello di distogliere il presidio della
piazza dal portare soccorso ai combattenti di Castelfidardo.

Il giorno 19 fra il generale Cialdini ed il colonnello Coudenhoven venne
stabilito che i pontificii avrebbero deposte le armi in presenza delle
truppe italiane. Si arresero circa 5000 pontificii, con 150 ufficiali;
11 cannoni, cassoni e carri di artiglieria caddero nelle mani del
vincitore.

Così ebbe termine la battaglia di Castelfidardo colla vittoria delle
armi italiane.

                                    *
                                   * *

Il giorno 20 il generale Cialdini diede le disposizioni per un largo
blocco intorno ad Ancona, in aspettativa della sua 13ª divisione e del
5º corpo che distava di poche marcie.

Il giorno 23 il generale Fanti riconobbe la piazza dal lato di mare e
presi concerti coll'ammiraglio Persano dichiarò il blocco serrato di
terra e di mare; sbarcò il parco d'assedio nella grossa spiaggia di
Numana e dispose il completo investimento della piazza.

Dalla parte di terra l'obbiettivo principale era quello di Monte
Gardetto, dal qual forte si poteva comandare e battere tutte le altre
difese della piazza; per raggiungere tale obbiettivo era necessario
impadronirsi delle posizioni fortificate di Monte Pelago e Monte Pulito,
onde impiantarvi le batterie per battere la Lunetta di S. Stefeno e
Monte Gardetto.

Il generale Fanti ordinava pertanto che si concentrassero vivissimi
fuochi d'artiglieria sulla Cittadella e sul campo trincerato, e
comandava che si prendessero di viva forza la lunetta di Monte Scrima e
il Lazzaretto.

Il giorno 24 si apriva il fuoco contro le opere esterne della piazza.

Dalla sua parte Cialdini radunati su Montagnolo 12 pezzi rigati
investiva la Cittadella e il forte Scrima, che fu dovuto abbandonare
dalle truppe pontificie e subito occupato dai nostri. Il giorno 25 il
generale Cadorna vi piantava la 4ª batteria e con essa apriva il fuoco
contro il Lazzaretto, dal quale si voleva sloggiare il nemico.

Il giorno 26 fu deciso dal Fanti l'attacco al Monte Pelago. La brigata
Bologna, condotta dal brigadiere Pinelli, si slancia col più grande
vigore sulla posizione, unitamente al 23º e 25º battaglione bersaglieri,
e nonostante la fitta grandine di palle di carabina e di mitraglia dei
cinque pezzi ivi piazzati, i nostri bravi continuano la loro corsa;
ufficiali e soldati gareggiano a chi prima porrà il piede sul parapetto
nemico; in un baleno superano gli spalti, saltano nel fosso,
s'arrampicano sui parapetti e la bandiera del 39º reggimento sventola
sul culmine del forte: i mercenari sono messi in piena fuga.

I nostri bravi soldati inebbriati dalla vittoria inseguono il nemico,
scalano i parapetti della seconda lunetta e v'impiantano la bandiera del
40º reggimento impossessandosi di altri due pezzi.

Monte Pulito viene occupato dal 39º reggimento che vi si stabilisce.

Si dà allora alla squadra il segnale di aprire il fuoco e questa assale
con le sue bordate il Gardetto e il Forte dei Capuccini, che ne vengono
gravemente danneggiati.

Nella notte del 26 essendosi ultimati i lavori del forte Scrima, e
piazzatavi una batteria d'obici ed altra di pezzi rigati sulla sinistra,
al far del giorno tutti questi pezzi aprirono il fuoco contro le
posizioni fortificate della piazza. Intanto il generale Cialdini
ordinava al 7º battaglione bersaglieri, comandato dal capitano Brunetta,
sotto la direzione del suo capo di stato maggiore tenente-colonnello
Piola, di occupare rapidamente Borgo Pio. Il battaglione si slancia
risolutamente, e cacciati i posti nemici lo occupa provvedendo subito
alle opere di prima difesa; verso sera due altri battaglioni di
bersaglieri il 6º e il 12º rinforzarono il 7º e occupano solidamente
quel borgo.

Alle ore 8 del 27 il 6º battaglione dei bersaglieri ebbe l'ordine
d'impadronirsi del Lazzaretto; sotto un fuoco micidiale questi bravi si
lanciano all'ardita impresa; una barca serve da ponte nello stretto
canale che isola il Lazzaretto.

Il primo plotone accompagnato da un drappello di zappatori procede sotto
un fuoco vivissimo all'atterramento della porta; ma il sottotenente
Ferrari Luigi si slancia entro il ridotto per una cannoniera seguito dai
suoi bersaglieri, e, cadendo all'improvviso sul nemico, facilita la
apertura della porta; in un'ora l'intero battaglione si stabiliva al
Lazzaretto, impossessandosi di 3 pezzi e facendo prigionieri 3 ufficiali
ed i soldati che lo presidiavano.

Il giorno 28 e la notte fra il 28 al 29 le truppe piemontesi si
occuparono nel piantare a 400 metri dalle mura, nuove batterie. Il
Lazzaretto era stato rinforzato da altre truppe, ma vedendo il generale
Fanti che le batterie del Molo e quella della Lanterna lo avevano preso
di mira e lo fulminavano, dava ordine al contrammiraglio Persano di
attaccare quelle batterie e farle ad ogni costo tacere.

Il Persano corrispose prontamente all'invito del Fanti. Ad un'ora
pomeridiana la Piro-fregata «Vittorio Emanuele» si abbozzava a 500 metri
di distanza dalla batteria Casamatta della Lanterna; le Piro-fregate
«Governolo» e «Costituzione» assecondarono la «Vittorio Emanuele»
ormeggiandosi a 500 metri di distanza a ponente della Lanterna. Alle due
pomeridiane le manovre erano eseguite sotto il fuoco delle batterie
della piazza; senonchè il vento forte che soffiava da scirocco fece
arare gli ancoroti che tenevano abbozzata la «Vittorio Emanuele» la
quale dovette cambiare di posto e per manovrare fu obbligata a mettersi
fuori di tiro. Fu segnalato alla «Carlo Alberto» di prendere il posto
della nave suddetta e questa s'andò ad abbozzare verso le 3 pom. a 200
metri di distanza dalla Lanterna, senza rispondere neppure con un colpo
ai tanti che le piovevano attorno dai forti.

Alle 3 1/2 fatto il tiro di prova questa fregata lanciava tutta la sua
fiancata contro la batteria della Lanterna; che ne aveva rovinato il
piano superiore. «Il Governolo», «La Costituzione» e il «Carlo Alberto»
continuavano a fulminare le batterie del porto.

La «Vittorio Emanuele» rientra in azione e a tutta velocità manovra per
passare ad un tiro di pistola dalla Lanterna; alla temeraria manovra
rimangono pietrificati gli stessi artiglieri delle batterie nemiche; ma,
arrivata la bella fregata all'altezza della Lanterna lancia a bruciapelo
la sua terribile fiancata e come se nulla fosse passa avanti prendendo
il largo per girare di bordo e portarsi a lanciare all'occorrenza
l'altra fiancata; ma non ve ne fu bisogno, perchè ad un tratto si vide
uscire denso fumo dalle cannoniere della batteria e da li a poco si fe'
udire un terribile scoppio e la Lanterna apparve avvolta in una fitta
colonna di fuoco.

Svanito il fumo si vide la batteria ridotta ad un mucchio di macerie,
sotto le quali rimasero sepolti ufficiali e artiglieri. La catena che
sbarrava l'entrata del porto non esisteva più, perchè i pontoni che la
reggevano erano stati affondati dai colpi di cannone delle fregate, per
cui il porto stesso era aperto alla nostra squadra e quindi Ancona
poteva considerarsi perduta per i mercenari papalini.

Alle 4 1/2 cessava il fuoco ed il maggiore Mauri recavasi a bordo
dell'ammiraglio per chiedere un armistizio; ma il Persano rispondeva che
egli non aveva la facoltà di accordarlo e che bisognava trattare col
generale Fanti; senonchè ripugnando al Lamoricière di trattare col Fanti
non mandò alcun parlamentario e quindi il Fanti ordinava che alle 10 di
notte tutte le batterie riaprissero il fuoco. Da due ore i nostri
fulminavano la città, quando fu annunziato al Fanti l'arrivo di un
parlamentario e la resa fu conclusa.

Così poterono fare ritorno in Ancona i patriotti conte Michele Fazioli,
conte Ferdinando Cresci, l'Ornani, l'Albani, i fratelli Gigli, il
Bravura, l'Andreucci, lo Stronati, i fratelli Schellini, l'Andreani e
tanti e tanti altri che per sfuggire alle gravi pene, perfino di morte,
inflitte loro dal _mansueto_ governo dei preti, avevano dovuto
abbandonare la patria e le loro famiglie.

                                    *
                                   * *

Disfatto a Castelfidardo il generale Lamoricière ed entrate le truppe
italiane nella capitale delle Marche, il conte Cavour, sfidando la
collera di qualche potenza europea, chiese al Parlamento subalpino
l'approvazione della sua politica, che era quella di annettere tutte le
provincie italiane, che liberamente avessero dichiarato di voler far
parte della Monarchia Sabauda, ed avutone l'assenso dispose tosto che il
Re stesso si mettesse alla testa dell'Esercito per passare il Tronto.
Già il Re aveva emanato il seguente proclama ai soldati, che stavano per
occupare l'Umbria e le Marche:

          Soldati!

«Voi entrate nelle Marche e nell'Umbria, per restaurare l'ordine civile
nelle desolate città, e per dare ai popoli la libertà di esprimere i
propri voti.

«Non avete a combattere potenti eserciti, ma liberare infelici provincie
italiane dalle straniere compagnie di ventura.

«Non andate a vendicare le ingiurie fatte a me o all'Italia, ma ad
impedire che gli odi popolari rompano a vendetta della mala signoria.

«Ora insegnerete coll'esempio il perdono delle offese e la tolleranza
cristiana a chi, stoltamente paragona all'islamismo, l'amor della patria
italiana.

«D'accordo con tutte le grandi potenze, ed alieno da ogni provocazione,
io intendo togliere dal centro d'Italia una cagione perenne di
turbamento e di discordia. Io voglio rispettare la sede del Capo della
Chiesa, al quale sono sempre pronto a dare io, d'accordo colle potenze
alleate ed amiche, tutte quelle guarentigie d'indipendenza e di
sicurezza, che i suoi ciechi consiglieri si sono indarno ripromessi dal
fanatismo delle sette malvagie, cospiranti contro la mia autorità e la
libertà della Nazione.

«Soldati! Mi accusano di ambizione. Sì, ho un'ambizione: ed è quella di
restaurare i principii dell'ordine morale in Italia, e di preservare
l'Europa dai continui pericoli della rivoluzione e della guerra».

11 settembre 1860.

                                             _Vittorio Emanuele_.

Il generale Cialdini nell'imminenza della battaglia di Castelfidardo
dirigeva questo proclama alle truppe:

          Soldati di questo Corpo d'Armata!

«Vi conduco contro una masnada di briachi stranieri, che sete d'oro e
vaghezza di saccheggio, trasse nei nostri paesi.

«Combattete, disperdete inesorabilmente quei compri sicari, e per mano
vostra sentano l'ira di un popolo, che vuole la sua nazionalità e la sua
indipendenza.

          Soldati!

«L'invitta Perugia domanda vendetta e, benchè tarda, l'avrà.

«Il generale comandante il 4º corpo d'armata

                                                      _Cialdini_»

Garibaldi, informato che il generale Cialdini aveva disfatto a
Castelfidardo i mercenari del Papa capitanati dal Lamoricière, emanava
il seguente ordine del giorno:

                                          Caserta, 5 ottobre 1860

«Il quartiere generale è a Caserta; i nostri fratelli dell'Esercito
italiano, comandati dal bravo generale Cialdini, combattono i nemici
d'Italia e vincono.

«L'esercito di Lamoricière è stato disfatto da quei prodi. Tutte le
provincie serve del Papa sono libere. Ancona è nostra: i valorosi
soldati dell'esercito del settentrione hanno passata la frontiera e sono
sul territorio napolitano. Fra poco avremo la fortuna di stringere
quelle destre vittoriose.

                                                  _G. Garibaldi_»

Il 7 ottobre indirizzava a Vittorio Emanuele la lettera seguente:

          Sire!

«Mi congratulo colla Maestà Vostra per le brillanti vittorie riportate
dal vostro bravo generale Cialdini e per le felici loro conseguenze. Una
battaglia guadagnata sul Volturno ed un combattimento alle due Caserte,
pongono i soldati di Francesco II nell'impossibilità di più resisterci.
Spero dunque poter passare il Volturno domani. Non sarebbe male, che la
M. V. ordinasse a parte delle truppe, che si trovano vicino alla
frontiera abruzzese, di passare quella frontiera e fare abbassare le
armi a certi gendarmi che parteggiano ancora pel Borbone.

«So che V. M. sta per mandare quattromila uomini a Napoli, e sarebbe
bene. Pensi V. M. che io le sono amico di cuore e merito un poco di
essere creduto. È molto meglio accogliere tutti gli italiani onesti a
qualunque colore essi abbiano appartenuto per il passato, anzichè
inasprire fazioni, che potrebbero essere pericolose nell'avvenire.

«Essendo ad Ancona, dovrebbe V. M. fare una passeggiata a Napoli per
terra o per mare. Se per terra, e ciò sarebbe meglio, V. M. deve
marciare almeno con una divisione. Avvertito in tempo, io vi
congiungerei la mia destra e mi recherei in persona a presentarle i miei
omaggi e ricevere ordini per le ulteriori operazioni.

«La M. V. promulghi un decreto, che riconosca i gradi de' miei
Ufficiali. Io mi adoprerò ad eliminare coloro che debbono essere
eliminati.

Della M. V. ubbidientissimo

                                                  _G. Garibaldi_»

Il 9 ottobre Vittorio Emanuele da Ancona lanciava _ai popoli dell'Italia
Meridionale_ il seguente manifesto:

          Ai popoli dell'Italia Meridionale,

«In un momento solenne della storia nazionale e dei destini italiani,
rivolgo la mia parola a voi, popoli dell'Italia meridionale, che mutato
lo Stato nel nome mio, mi avete mandato oratori d'ogni ordine di
cittadini, magistrati e deputati de' municipii, chiedendo di essere
restituiti nell'ordine, confortati di libertà ed uniti al mio Regno.

«Io voglio dirvi quale pensiero mi guidi, e quale sia in me la coscienza
dei doveri che deve adempiere chi dalla Provvidenza fu posto sopra un
trono italiano.

«Io salii al trono dopo una grande sventura nazionale. Mio padre mi
diede un alto esempio, rinunziando la corona per salvare la propria
dignità, e la libertà de' suoi popoli. Carlo Alberto cadde coll'armi in
pugno, morì nell'esiglio; la sua morte accomunò sempre più le sorti
della mia famiglia a quelle del popolo italiano, che da tanti secoli ha
dato a tutte le terre straniere le ossa de' suoi esuli, volendo
rivendicare il retaggio di ogni gente, che Dio ha posta fra gli stessi
confini, e stretta insieme col simbolo di una sola favella.

«Io mi educai a quell'esempio e la memoria di mio padre fu la mia stella
tutelare.

«Fra la corona e la parola data, non poteva per me essere dubbia la
scelta, mai.

«Riaffermai la libertà in tempi poco propizii a libertà, e volli che,
esplicandosi, essa gittasse radici nel costume dei popoli, non potendo
io avere a sospetto ciò che a' miei popoli era caro. Nella libertà del
Piemonte fu religiosamente rispettata la eredità, che l'animo presago
del mio Augusto Genitore, aveva lasciato a tutti gli Italiani.

«Colle franchigie rappresentative, colla popolare istruzione, colle
grandi opere pubbliche, colla libertà dell'industria e dei traffici,
cercai di accrescere il benessere del mio popolo: e volendo rispettata
la religione cattolica, ma libero ognuno nel santuario della propria
coscienza, e ferma la civile autorità, resistetti apertamente a quella
ostinata e procacciante fazione, che si vanta la sola amica e tutrice
de' troni, ma che intende a comandare in nome del Re, ed a frapporre tra
il Principe e il popolo la barriera delle sue intolleranti passioni.

«Questi modi di governo non potevano essere senza effetto per la
rimanente Italia. La concordia del Principe col popolo nel proponimento
dell'indipendenza nazionale e della libertà civile e politica, la
tribuna e la stampa libere, l'esercito che aveva salvata la tradizione
militare italiana sotto la bandiera tricolore, fecero del Piemonte il
vessillo e il braccio d'Italia. La forza del mio principato non derivò
dalle arti di una occulta politica, ma dallo aperto influsso delle idee
e della pubblica opinione.

«Così potei mantenere nella parte di popolo italiano riunito sotto il
mio scettro, il concetto di una egemonia nazionale, onde nascer doveva
la concorde armonia delle divise provincie di una sola nazione.

«L'Italia fu fatta capace del mio pensiero, quando vide mandare i miei
soldati sui campi della Crimea accanto ai soldati delle due grandi
potenze occidentali. Io volli far entrare il diritto d'Italia nella
realtà dei fatti e degli interessi europei.

«Al congresso di Parigi i miei legati poterono parlare per la prima
volta all'Europa dei vostri dolori. E fu a tutti manifesto, come la
preponderanza dell'Austria in Italia fosse infesta all'equilibrio
Europeo, e quanti pericoli corressero la indipendenza e la libertà del
Piemonte, se la rimanente penisola non fosse francata dagl'influssi
stranieri.

Il mio magnanimo alleato, l'Imperatore Napoleone III, sentì che la causa
italiana era degna della grande nazione sulla quale impera. I nuovi
destini della nostra patria furono inaugurati da una giusta guerra. I
soldati italiani combatterono degnamente accanto alle invitte legioni
della Francia. I volontari accorsi da tutte le provincie e da tutte le
famiglie italiane sotto la bandiera della Croce Sabauda addimostrarono,
come tutta l'Italia m'avesse investito del diritto di parlare e di
combattere in nome suo.

«La ragione di stato pose fine alla guerra, ma non a' suoi effetti, i
quali si andarono esplicando per la inflessibile logica degli
avvenimenti e dei popoli.

«Se io avessi avuta quell'ambizione che è imputata alla mia famiglia da
chi non si fa addentro nella ragione dei tempi, io avrei potuto essere
soddisfatto dell'acquisto della Lombardia. Ma io aveva speso il sangue
prezioso dei miei soldati non per me, per l'Italia.

«Io aveva chiamati gl'italiani alle armi; alcune provincie avevano
subitamente mutato gli ordini interni per concorrere alla guerra
d'indipendenza, dalla quale i loro Principi aborrivano. Dopo la pace di
Villafranca, quelle provincie dimandarono la mia protezione contro il
minacciato restauro degli antichi Governi. Se i fatti dell'Italia
centrale erano la conseguenza della guerra alla quale noi avevamo
invitati i popoli, se il sistema delle intervenzioni straniere doveva
essere per sempre bandito dall'Italia, io doveva conoscere e difendere
in quei popoli il diritto di legalmente e liberamente manifestare i voti
loro.

«Ritirai il mio Governo; essi fecero un Governo ordinato: ritirai le mie
truppe; essi ordinarono forze regolari, ed a gara di concordia e di
civile virtù vennero in tanta riputazione e forza, che solo per violenza
d'armi straniere avrebbero potuto esser vinti.

«Grazie al senno dei popoli dell'Italia Centrale, l'idea monarchica fu
in modo costante affermata, e la Monarchia moderò moralmente quel
pacifico moto popolare. Così l'Italia crebbe nella estimazione delle
genti civili, e fu manifesto all'Europa come gl'italiani siano acconci a
governare sè stessi.

«Accettando la annessione io sapeva a quali difficoltà europee andassi
incontro. Ma io non potevo mancare. Chi in Europa mi taccia
d'imprudenza, giudichi con animo riposato, che cosa sarebbe diventata,
che cosa diventerebbe l'Italia, il giorno nel quale la Monarchia
apparisse impotente a soddisfare il bisogno della costituzione
nazionale!

«Per le annessioni, il moto nazionale se non mutò nella sostanza, pigliò
forme nuove; accettando dal diritto popolare quelle belle e nobili
provincie, io doveva lealmente riconoscere l'applicazione di quel
principio, nè mi era lecito di misurarlo colla norma dei miei affetti ed
interessi particolari. In suffragio di quel principio, io feci per
utilità dell'Italia, il sacrificio che più costava al mio cuore,
rinunziando a due nobilissime provincie del Regno avito.

«Ai Principi italiani che han voluto essere miei nemici, ho sempre dati
schietti consigli, risoluto, se vani fossero, ad incontrare il pericolo
che l'accecamento loro avrebbe fatto correre ai troni, e ad accettare la
volontà dell'Italia.

«Al Granduca io aveva indarno offerta la alleanza prima della guerra. Al
Sommo Pontefice, nel quale venero il Capo della Religione dei miei avi e
dei miei popoli, fatta la pace, indarno scrissi offerendo di assumere il
Vicariato per l'Umbria e per le Marche.

«Era manifesto che queste provincie contenute soltanto dalle armi di
mercenari stranieri, se non ottenessero la guarentigia di governo civile
che io proponeva, sarebbero tosto o tardi venute in termine di
rivoluzione.

«Non ricorderò i consigli dati per molti anni dalle potenze al Re
Ferdinando di Napoli. I giudizii che nel Congresso di Parigi furono
proferiti sul suo Governo, preparavano naturalmente i popoli a mutarlo,
se vane fossero le querele della pubblica opinione e le pratiche della
diplomazia.

«Al giovane Suo Successore io mandai offerendo alleanza per la guerra
dell'indipendenza. Là pure trovai chiusi gli animi ad ogni affetto
italiano e gli intelletti abbuiati dalla passione.

«Era cosa naturale, che i fatti succeduti nell'Italia settentrionale e
Centrale, sollevassero più e più gli animi nella Meridionale.

«In Sicilia questa inclinazione degli animi ruppe in aperta rivolta. Si
combatteva per la libertà in Sicilia, quando un prode guerriero devoto
all'Italia ed a Me, il generale Garibaldi, salpava in suo aiuto. Erano
italiani che soccorrevano italiani; io non potevo, non dovevo
rattenerli!

«La caduta del Governo di Napoli riaffermò quello che il mio cuore
sapeva, cioè quanto sia necessario ai Re l'amore, ai Governi la stima
dei popoli!

«Nelle due Sicilie il nuovo reggimento si inaugurò col mio nome. Ma
alcuni atti diedero a temere che non bene si interpretasse, per ogni
rispetto, quella politica che è dal mio nome rappresentata. Tutta
l'Italia ha temuto, che all'ombra di una gloriosa popolarità e di una
probità antica, tentasse di riannodarsi una fazione pronta a sacrificare
il vicino trionfo nazionale, alle chimere del suo ambizioso fanatismo.

«Tutti gl'italiani si sono rivolti a me perchè scongiurassi questo
pericolo. Era mio obbligo il farlo perchè nell'attuale condizione di
cose non sarebbe moderazione, non sarebbe senno, ma fiacchezza ed
imprudenza, il non assumere con mano ferma la direzione del moto
nazionale, del quale sono responsabile dinanzi all'Europa.

«Ho fatto entrare i miei soldati nelle Marche e nell'Umbria, disperdendo
quella accozzaglia di gente di ogni paese e di ogni lingua, che qui si
era raccolta, nuova e strana forma d'intervento straniero e la peggiore
di tutte.

«Io ho proclamato l'Italia degli italiani, e non permetterò mai che
l'Italia diventi il nido di sette cosmopolite, che vi si raccolgano a
tramare i disegni o della reazione o della demagogia universale.


                   Popoli dell'Italia Meridionale!


«Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l'ordine. Io non vengo
ad imporvi la mia volontà, ma a far rispettare la vostra.

«Voi potrete liberamente manifestarla: la Provvidenza, che protegge le
cause giuste, ispirerà il voto che deporrete nell'urna.

«Qualunque sia la gravità degli eventi, io attendo tranquillo il
giudizio dell'Europa civile e quello della Storia, perchè ho la
coscienza di compiere i miei doveri di Re e di italiano!

«In Europa la mia politica non sarà forse inutile a riconciliare il
progresso dei popoli colla stabilità delle monarchie.

«In Italia so che io chiudo l'era delle rivoluzioni.

«Dato da Ancona addì nove ottobre milleottocentosessanta.

                          «VITTORIO EMANUELE

                                                      «_Farini_».

                                    *
                                   * *

Il giorno 15 ottobre il generale Garibaldi pubblicava questo manifesto:

«Per adempiere ad un voto indisputabilmente caro alla Nazione intera,
determino:

«Che le Due Sicilie, che al sangue italiano devono il loro riscatto e
che mi elessero liberamente Dittatore, fanno parte integrante
dell'Italia una ed indivisibile, con suo Re costituzionale Vittorio
Emanuele e i suoi discendenti.

«Io deporrò nelle mani del Re, al suo arrivo, la dittatura conferitami
dalla Nazione.

«I prodittatori sono incaricati dell'esecuzione del presente decreto.

                                                «_G. Garibaldi_».

Il 21 il plebiscito era votato con la formula:

«Il popolo vuole l'Italia una e indivisibile sotto lo scettro di Casa
Savoia».

E nel giorno stesso Garibaldi emanava il seguente

                            Ordine del giorno:

«Il prode generale Cialdini ha vinto presso Isernia. I borbonici
sbaragliati hanno lasciato ottocentottanta prigionieri, cinquanta
ufficiali, bandiere e cannoni.

«Ben presto i valorosi dell'esercito settentrionale porgeranno la mano
ai coraggiosi soldati di Calatafimi e del Volturno.

                                                «_G. Garibaldi_».

Garibaldi aveva finita la sua impresa colla quale aveva collegata
all'Italia settentrionale l'Italia meridionale. Arrivata al Volturno la
divisione Della Rocca, serrò Capua di regolare assedio.

Il 31 di ottobre il generale consegnava solennemente alla legione
ungherese la bella bandiera ricamata dalle Signore napoletane; il 4 il
Generale faceva la solenne distribuzione della medaglia, che il
Municipio di Palermo aveva decretato ai _Mille_. Il giorno 6 passava in
rassegna il glorioso esercito, che aveva combattuto sì strenuamente per
l'Italia e Vittorio Emanuele.

Il giorno 7 il Re Vittorio Emanuele faceva il solenne ingresso a Napoli,
fra un entusiasmo indescrivibile ed una pioggia di fiori. Nella carrozza
davagli la destra il generale Garibaldi: di fronte sedevano i due
prodittatori Mordini e Pallavicino.

Il giorno 8 il Generale consegnava al Re il plebiscito delle Due
Sicilie, e prendeva da lui congedo, dopo di avergli raccomandato i suoi
valorosi compagni d'armi; indi faceva pubblicare il seguente ordine del
giorno, per accomiatarsi dai suoi compagni:

          Ai miei Compagni d'armi,

«Penultima tappa del risorgimento nostro, noi dobbiamo considerare il
periodo che sta per finire, e prepararci ad attuare splendidamente lo
stupendo concetto degli eletti di venti generazioni, il cui compimento
assegnò la provvidenza a questa generazione fortunata.

«Sì giovani! l'Italia deve a Voi un'impresa che meritò il plauso del
mondo.

«Voi vinceste--e vincerete--perchè siete ormai istruiti nella tattica
che decide delle battaglie!

«Voi non siete degeneri di coloro che entravano nel fitto profondo delle
falangi Macedoniche e squarciavano il petto ai superbi vincitori
dell'Asia.

«A questa pagina stupenda della Storia del nostro paese, ne seguirà una
più gloriosa ancora, e lo schiavo mostrerà finalmente al libero fratello
un ferro arruotato che appartenne agli anelli delle sue catene.

«All'armi tutti! tutti, e gli oppressori, i prepotenti sfumeranno come
la polvere.

«Voi, donne, rigettate lontani i codardi, essi non vi daranno che
codardi.

«Che i paurosi dottrinari se ne vadano a trascinare altrove il loro
servilismo, le loro miserie.

«Questo popolo è padrone di sè. Egli vuole essere fratello degli altri
popoli, ma guardare i protervi con la fronte alta; non rampicarsi
mendicando la sua libertà; egli non vuole essere a rimorchio di uomini a
cuore di fango, no! no! no!

«La provvidenza fece dono all'Italia di Vittorio Emanuele. Ogni cuore
italiano deve rannodarsi a Lui, serrarsi intorno a Lui. Accanto al Re
Galantuomo ogni gara deve sparire, ogni rancore dissiparsi!

«Anche una volta io vi ripeto il mio grido--all'armi tutti! tutti!--Se
marzo del 1861 non trova un milione d'italiani armati, povera libertà,
povera vita italiana! Oh! no: lungi da me un pensiero che mi ripugna,
come un veleno. Il marzo del 1861, e se fa bisogno, il febbraio, ci
troverà tutti al nostro posto.

«Italiani di Calatafimi, di Palermo, del Volturno, di Ancona, di
Castelfidardo, d'Isernia, e con noi ogni uomo di questa terra non
codardo non servile; tutti, tutti serrati intorno al glorioso soldato di
Palestro, daranno l'ultimo colpo alle crollanti tirannide!

«Accogliete giovani volontari, resto onorato di dieci battaglie, una
parola d'addio! Io ve la mando commosso d'affetto dal profondo della mia
anima. Oggi io devo ritirarmi, ma per pochi giorni. L'ora della pugna mi
troverà con voi ancora accanto ai soldati della libertà italiana.

«Che ritornino alle loro case quelli soltanto chiamati da doveri
imperiosi di famiglia, e coloro che gloriosamente mutilati, hanno
meritato la gratitudine della patria. Essi la serviranno nei loro
focolari coi consigli e coll'aspetto delle nobili cicatrici che decorano
la maschia figura di vent'anni. All'infuori di questi, gli altri restino
a custodire le gloriose bandiere.

«Noi ci ritroveremo fra poco, per marciare insieme al riscatto dei
nostri fratelli schiavi ancora dello straniero. Noi ci troveremo fra
poco per marciare insieme a nuovi trionfi della libertà.

                                                  _G. Garibaldi_.

Il giorno del suo ingresso in Napoli il Re Vittorio Emanuele indirizzava
ai popoli dell'Italia Meridionale il seguente proclama:

                                              17 novembre 1860.

                     Ai popoli Napoletani e Siciliani

«Il suffragio universale mi dà la sovrana potestà di queste nobili
Provincie. Accetto quest'altro decreto della volontà Nazionale, non per
ambizione di Regno, ma per coscienza d'italiano. Crescono i miei,
crescono i doveri di tutti gli italiani. Sono più che mai necessarie la
sincera concordia e la costante abnegazione. Tutti i partiti debbono
inchinarsi devoti dinanzi alla maestà dell'Italia che Dio solleva.

«Noi dobbiamo instaurare un governo che dia guarentigia di viver libero
ai popoli e di severa probità alla pubblica opinione. Io faccio
assegnamento sul concorso efficace di tutta la gente onesta.

«Dove nella legge ha freno il potere e presidio la libertà, ivi il
Governo tanto può pel pubblico bene, quanto il popolo vale per la virtù.

«All'Europa dobbiamo addimostrare che, se la irresistibile forza degli
eventi superò convenzioni fondate sulle secolari sventure d'Italia, noi
sappiamo ristorare nella Nazione Unita l'impero di quegli immutabili
dommi, senza dei quali ogni società è inferma, ogni autorità combattuta
ed incerta».

                                             _Vittorio Emanuele_.

Il 3 novembre, il generale Della Rocca d'ordine del Re scriveva una
lusinghiera lettera a Garibaldi con la quale ammirava i prodigi di
valore e i sagrifizi dell'Esercito Meridionale, ed esprimeva la
riconoscenza che la patria italiana deve al loro eroismo.

Garibaldi a sua volta scrisse un'affettuosa lettera di commiato al Re,
la quale si chiudeva con queste parole:

«Vogliate Maestà, permettermi una sola preghiera nell'atto di rimettervi
il supremo potere. Io Vi imploro affinchè mettiate sotto l'altissima
Vostra tutela, coloro che mi ebbi a collaboratori in questa grand'opera
di affrancamento dell'Italia Meridionale, e che accogliate nel Vostro
Esercito i miei commilitoni che han ben meritato della patria e di
Voi».




                            =CAPITOLO XXI.=

                     =Ritiro di Garibaldi a Caprera.=


Il giorno 8 di novembre il Generale volle vedere Elia, al quale fece
invito di andare con lui a Caprera. «Sarete fratello a Menotti» gli
disse stringendogli la mano. L'Elia commosso ringraziò il generale a cui
fece capire che egli aveva altri sacri doveri da compiere verso la madre
vedova e verso le sue quattro sorelle orfane; e prese congedo con dolore
da quel grande che in meno di sei mesi aveva assicurata l'unità
italiana, unendo sotto lo scettro di Vittorio Emanuele l'Italia
Meridionale, con quasi otto milioni di sudditi devoti.

La mattina del 9 Garibaldi s'imbarcava per Caprera.

                                    *
                                   * *

Fu grande fortuna d'Italia la rivoluzione siciliana del 4 aprile 1860.

Questa provocò la spedizione dei Mille. Se questa spedizione non veniva
in tempo--come è provato dalle rivelazioni di Brassier de
Saint-Simon--l'Italia si sarebbe sistemata in base ai risultati della
guerra del 1859--e secondo il volere di Napoleone non si sarebbe avuta
l'unità ma la federazione, ed il Papa ne sarebbe stato il Capo e
tutt'ora Re di Roma!

La spedizione dei Mille ha avuto un'importanza massima, più di qualsiasi
altro evento della Storia d'Italia.




                              =CAPITOLO XXII.=

                       =Presa di Capua e di Gaeta.=


La mattina del 28 ottobre ambo gli eserciti settentrionali e meridionali
erano intorno a Capua. Una conferenza tra Garibaldi ed i generali
Menabrea e Della Rocca aveva già determinato il piano di espugnazione
della fortezza, per l'esecuzione del quale il generale Menabrea diede i
suoi ordini agli ufficiali del genio e prendeva tutte le misure per una
pronta espugnazione della piazza, mentre il generale Della Rocca dava le
sue disposizioni all'artiglieria ed agli altri corpi, per effetto delle
quali, le truppe piemontesi rinforzavano il posto di Caiazzo abbandonato
dai borbonici, di S. Maria e di S. Angelo; il genio e l'artiglieria si
distribuivano nelle rispettive posizioni intorno alla fortezza e tutto
era ordinato per il bombardamento.

Più di ventimila borbonici si erano trincerati con potenti artiglierie a
Mola di Gaeta. Il 4 di novembre vennero destinati a conquistare quella
posizione, la brigata granatieri di Sardegna, il 14º e 24º bersaglieri,
due squadroni di lancieri di Novara e due batterie d'artiglieria.

Mola, è la parte più a mare della cittadella di Formia, ed è addossata
ad una linea di colline che scendono sul mare lasciando appena posto per
la strada.

Il 24º battaglione bersaglieri si andò a stendere su un'altura a cavallo
della strada; a destra, sulle prime alture, si stendeva il 1º reggimento
granatieri; il 2º reggimento granatieri si collocava più indietro; il 3º
in riserva; il 14º battaglione dei bersaglieri venne mandato a sloggiare
i borbonici che occupavano il paese di Maranola, situato in altura sopra
Mola.

Alle ore 11 s'incominciò l'assalto con fuoco vivissimo da ambo le parti;
un battaglione del 1º granatieri è mandato in sostegno del 14º
bersaglieri e con vigoroso attacco scacciano i borbonici da Maranola.

Il battaglione granatieri dopo di avere cacciato i borbonici da
Maranola, rinforzato da altro battaglione del 2º granatieri si scaglia
arditamente contro l'alta posizione chiamata Madonna di Ponza fortemente
occupata e difesa da due batterie; i nostri con slancio ammirabile vi
sono sopra, fugano il nemico e s'impossessano dei cannoni.

Eseguite queste due brillanti operazioni, tutta la linea dei nostri si
slancia risolutamente all'attacco di Mola sotto il fuoco assai ben
nutrito del nemico, attraverso un terreno difficile, seminato da siepi,
da muri e da fossi; marciano in testa la 3ª e la 4ª compagnia del 2º
granatieri che primi scavalcano le barricate e penetrano nel paese,
mettendo in fuga il nemico che lascia in potere dei nostri undici
cannoni. Non restava che di espugnare la posizione del Castellone
fortemente tenuta dai borbonici; i granatieri e bersaglieri esaltati
dalle riportate vittorie, si lanciano valorosamente all'assalto e,
superati tutti gli ostacoli ed ogni resistenza, riescono vittoriosi e
l'espugnano.

                                    *
                                   * *

Ricoverati entro le mura di Gaeta, i Borboni di Napoli si sforzavano di
tener ancora testa alle forze vigorose dell'unificazione d'Italia, con
una guarnigione di oltre 15 000 combattenti e con ben 528 bocche da
fuoco.

Nella notte del 10 novembre 1860, otto pezzi da campagna aprivano il
fuoco con tiri in arcata, producendo grande sgomento negli assediati;
nella notte successiva il fuoco fu ripreso. Il giorno 12 il generale
Cialdini, comandante delle due divisioni 4ª e 7ª, che aveva occupato
tutte le alture dominanti la città e spinti i suoi avamposti più presso
il Borgo di Gaeta--oggi Tlena--decise di ricacciare entro la cinta
quella parte di truppe borboniche che aveva stabiliti i suoi bivacchi
sull'istmo fino all'attrattina: le fa assalire da buon nerbo di
bersaglieri che colla punta della baionetta l'obbliga ad abbandonare
ogni esterna posizione.

Alla fine di dicembre tutte le batterie erano piazzate e l'8 di gennaio
Cialdini ordinava si aprisse il fuoco. Mentre seguiva il bombardamento
la diplomazia non mancava d'agitarsi. Napoleone III s'interponeva fra i
belligeranti e riusciva a fissare un armistizio che aveva principio la
stessa sera dell'8 gennaio per terminare il 19.

Dal 19 al 21 furono fatte pratiche per la resa, ma avendo il Borbone
rifiutato, alle ore 8 1/2 ant. del giorno 22 tutte le batterie
assedianti entrarono in azione. Il bombardamento durò fino al 12
febbraio, producendo danni non lievi alla città e provocando esplosioni
di magazzini di polvere. Infine il giorno 13 verso le 3 pomeridiane un
orribile esplosione succedeva nelle batterie Malpasso e Transilvania,
essendovisi appiccato il fuoco all'enorme quantità di 26 mila
chilogrammi di polvere. Lo spavento in Gaeta fu così grande che rese
necessario risolversi alla capitolazione, la quale fu firmata alle ore 5
pomeridiane.

Francesco II non s'intromise nella capitolazione e prima che l'esercito
italiano entrasse a Gaeta s'imbarcava sul vapore francese «La Muette»
che lo condusse a Civitavecchia.

Molti dei nostri valorosi ufficiali si distinsero nei combattimenti di
Mola e nell'assedio di Gaeta e fra questi il prode capitano di San
Marzano che veniva decorato della Croce militare di Savoia e promosso.

                                    *
                                   * *

A Caprera il generale non rimaneva inoperoso; egli aveva l'anima fissa
al riscatto di Roma e di Venezia ed invitava gli amici a preparare i
mezzi occorrenti. Con questi concetti scriveva al Bellazzi alla fine di
dicembre 1860.

                                  Caprera, 29 dicembre 1860.

          Caro Bellazzi,

«Io desidero l'apertura concorde di tutti i comitati italiani di
provvedimento per coadiuvare al gran riscatto. Così Vittorio Emanuele
con un milione d'italiani armati questa primavera, chiederà giustamente
ciò che manca all'Italia.

«Nella sacra via che si segue, io desidero che scomparisca ogni indizio
di partiti; i nostri antagonisti sono un partito, essi vogliono l'Italia
fatta da loro col concorso dello straniero e senza di noi.

«Noi siamo la Nazione, non vogliamo altro capo che Vittorio Emanuele;
non escludiamo nessun italiano, che voglia francamente come noi; dunque
sopra ogni cosa si predichi energicamente la concordia di cui
abbisogniamo immensamente.

                                                      Vostro

                                                  _G. Garibaldi_».

                                    *
                                   * *

Dopo aver preso parte ad una seduta tempestosa alla Camera dei Deputati,
Garibaldi era tornato a Caprera, quando il 6 giugno si sparse la
fulminea notizia che Cavour _era morto_. L'impressione fu enorme;
l'Italia perdeva il suo più grande uomo di Stato, la libertà un devoto
amico, la Dinastia di Savoia uno dei suoi più validi sostegni.

Il Ministro Ricasoli, succeduto al Conte di Cavour, volle accontentare
il generale Garibaldi coll'istituzione dei Tiri a Segno Nazionali, ma
dopo pochi giorni il Barone Ricasoli non era più al Governo; il partito
moderato voleva che si fosse proceduto allo scioglimento dei Comitati di
Provvedimento, ma egli in nome della libertà di associazione, rifiutò e
diede le dimissioni. Gli successe Rattazzi, che, conseguente al disegno
del Ricasoli, commise al generale la direzione dei Tiri a bersaglio.

All'Elia che ne voleva istituire uno in Ancona il generale così
scriveva:

                                          Caprera, 18 gennaio 1862.

          Caro Elia,

«Italia e Vittorio Emanuele è il programma consentaneo ai voti della
nazione e fu di guida a tutti i Comitati di Provvedimento.

«Oltre ai servizi che hanno già resi alla patria, amministrati che siano
da persone intelligenti ed oneste, potrebbero renderne altri importanti
in avvenire, raccogliendo i fondi pel riscatto di Roma e Venezia.

«Qualunque altro Comitato che sorga con programma e fini diversi non
potrebbe reggersi, perchè la Nazione lo riproverebbe.

«Accetto adunque con piacere l'offerta vostra di erigere in cotesta
importante città un Comitato di Provvedimento. Intendetevi a tal fine
con persone oneste e patriottiche e mettevi in relazione col sig.
Federico Bellazzi, persona di mia confidenza, il quale ha diretto
devotamente il Comitato Centrale di Genova, ma che si è ritirato, non
accettando la presidenza di quel nuovo comitato.

«Gradite i sensi di stima e d'affetto dal

                                                         vostro

                                                     _G. Garibaldi_».

Nei primi giorni di maggio 1862, quando già da qualche tempo il generale
era in giro nella Lombardia per l'impianto dei tiri a bersaglio,
incominciarono a manifestarsi i sintomi di un tentativo per la
liberazione di Venezia; il tentativo di Sarnico, che venne impedito dal
governo.

Disgustato da questo avvenimento, il generale erasi di nuovo ritirato a
Caprera, quando amici della Sicilia lo invitarono ad andare a visitare
le terre da lui liberate. La notte del 7 luglio coi pochi amici, che si
trovavano all'Isola, prese imbarco per la Sicilia. A Palermo fu accolto
con delirio. Chiamato nei luoghi dell'epopea del 1860, Alcamo,
Partinico, Calatafimi, Corleone, Sciacca ed altre città, si spinse fino
a Marsala. Dovunque passava dimostrava la necessità di riprendere le
armi per la liberazione di Roma, essendo un'onta per la Nazione, che la
sua Capitale rimanesse schiava del Papa. E fu allora che ebbe principio
il grido di _Roma o morte!_, grido che condusse al doloroso fatto di
Aspromonte ed alla gloriosa disfatta di Mentana.




                            =CAPITOLO XXIII.=

                  =Aspromonte--Sollevazione in Polonia.=


Ad Aspromonte, il generale veniva ferito al piede da palla italiana; il
fatto suscitò profonda commozione non solo in ogni angolo d'Italia, ma
in quante contrade era giunto il nome dell'Eroe condottiero e l'eco
delle sue vittorie. I volontari accorsi intorno a lui, venivano dispersi
ed egli stesso veniva portato in prigione nel forte del Varignano. Ecco
come si svolsero i dolorosi fatti:

Il Governo, istigato dall'imperatore dei Francesi, aveva determinato di
arrestare Garibaldi sulla via di Roma, incaricando il generale Cialdini
di anche combatterlo, qualora fosse necessario, e ad ogni costo
arrestarlo disperdendo i suoi seguaci.

Il general Mella, comandante della brigata Piemonte mandato in Sicilia
sotto gli ordine del Cialdini, sapendo che diversi ufficiali suoi
dipendenti erano stati compagni a Garibaldi nelle guerre combattute per
l'indipendenza, considerando che questi mal si sarebbero trovati se
condotti a combattere contro Garibaldi ed i loro antichi compagni,
riuniva gli ufficiali superiori e, intesosi con questi, chiamava a
rapporto gli ufficiali subalterni, e faceva loro intendere, che quelli
che non si sentissero di combattere contro Garibaldi, potevano chiedere
le dimissioni, giacchè l'ufficiale non essendo legato come il soldato,
era libero di dimettersi; rammentava ad essi che da ufficiali d'onore
avevano l'obbligo di francamente dichiararsi; accordava per ciò mezz'ora
di tempo per decidersi.

Gli ufficiali che erano stati compagni a Garibaldi, senza calcolare fin
dove poteva arrivare la competenza dei loro superiori, piuttosto che
combattere contro Garibaldi, il che avrebbero pur fatto anche a
malincuore pur di compiere il loro dovere, in numero di trentadue
rassegnarono le loro dimissioni, mai immaginando che ciò facendo il loro
onore potesse rimanere intaccato. Le dimissioni furono da ognuno così
formulate:

«A termini delle parole del Comandante del Reggimento e del generale, al
rapporto del quale gli ufficiali furono chiamati, il sottoscritto
domanda le dimissioni».

Gli ufficiali dimissionari in seguito alle dichiarazioni del generale
Mella e degli ufficiali superiori del 3º e 4º reggimento, Brigata
Piemonte, furono i seguenti:

_Capitani:_ Bennici Giuseppe, Buttinoni Francesco, Burruso Giuseppe,
Alessi Antonio, Bonafini Francesco, Pastori Enrico, Bonetti
Pietro.--_Luogotenenti:_ Tosti Paolo, Maggioni Ulrico, Bonighi Arnoldo,
Armanni Ernesto, Amadesi Alfonso, Bresciani Giuseppe, Nizzori Antonio,
Plebani Luigi.--_Sottotenenti:_ Quercioli Egisto, Zanoncelli
Michelangelo, Sassi Francesco, Cucchiarelli Levino, Archieri Federico,
Lucianetti Lodovico, Rosignoli Francesco, Bergalli Nicolò, Bertone
Luigi, Orsoni Emilio, Conti Carlo, Pollina Pietro, Sparacio Giuseppe,
Aceto Emidio, Fioravanti Valentino, Sulli Giovanni, Belluzzi Raffaele,
De Carli Carlo.

Di questi dimissionari, uno che maggiormente s'era nella campagna
precedente distinto, e che corse serio pericolo di essere due volte
fucilato fu un carissimo amico di Bixio, un valorosissimo ufficiale e
caldo patriota, Giuseppe Bennici; preso con l'armi in pugno dai
borbonici alli 21 di maggio 1860 sui Monti di Monreale, come capo
squadra dell'insurrezione siciliana, il giorno 27 doveva essere tradotto
sul banco dei rei colpevoli di fellonia e di ribellione al Re di
Napoli. La condanna a morte era sicura; ma la fortuna volgeva uno
sguardo pietoso sulla patria e sul bravo giovane di Piana de' Greci.

All'alba del 27 Garibaldi entrava in Palermo, la sentenza restava
sospesa e dopo tre giorni era reso libero cittadino in libera terra. Da
quel giorno Giuseppe Bennici giurava affetto eterno e fede costante al
liberatore Giuseppe Garibaldi; Bixio lo vide, lo volle con sè e ne fece
il suo aiutante.

Dopo quasi due anni nell'agosto del 1862 in Adernò gli veniva ordinato
di battersi contro Garibaldi che con la medesima bandiera dei plebisciti
marciava alla liberazione di Roma, o, se meglio gli fosse piaciuto,
rassegnasse le sue dimissioni. Il giovane non aveva di ricchezza che la
sua sciabola, e tutto il suo avvenire era basato nell'intrapresa
carriera militare; ma per lui la riconoscenza verso il suo liberatore
s'imponeva, e depose le spalline. Incontrato Garibaldi a Catania, si
univa a lui ed ai suoi vecchi compagni di Calatafimi e del Volturno. Ad
Aspromonte venne fatto prigioniero; trasportato alla Sede del comando
del generale Pallavicini, gli si partecipava che sarebbe stato fucilato.
Alla mezzanotte, data la muta alla guardia, il capo scorta gli ordinava
di seguirlo; gli si fece percorrere tutta la linea degli avamposti e lo
si accompagnava al posto, ove doveva essere fucilato, quando
sopraggiunse un ufficiale latore di un contr'ordine.

L'indomani sotto buona scorta fu mandato a Scilla, il 31 a Reggio ed il
1 settembre fu trasportato a Messina e rinchiuso nel forte Gonzaga. Il 9
di ottobre era condotto innanzi al tribunale militare, dal quale veniva
emanata la seguente sentenza:

                               NELLA CAUSA

                                 contro


«Bennici Giuseppe, del fu Gerlando d'anni 21, nato a Piana de' Greci,
celibe, Luogotenente nella 8ª Compagnia del 4º Reggimento Fanteria.

                           detenuto e accusato

«di tradimento, per aver portato le armi contro lo Stato, prestando
servizio nelle file del generale Garibaldi, arrestato il giorno 29
agosto p.p. ecc.

«Condanna alla pena di morte previa degradazione ecc.»

Ma anche questa volta un altro angelo salvatore vegliava sulle sorti del
Bennici; il generale Pinelli si adoperò con ogni sua possa per
ottenergli, se non la grazia, la commutazione della pena, e così il 26
di ottobre S. M. il Re firmava il decreto col quale si commutava la pena
di morte in quella dell'ergastolo.

La madre del Bennici, angosciata per la sorte del figlio, si rivolse con
calde preghiere al generale Garibaldi, e ne riceveva questa confortante
lettera.

                                            Pisa, 11 novembre 1862.

          Signora,

«Mi commuove il modo eroico col quale sopportate la vostra sventura.
Vostro figlio sarà libero e presto; io appena potrò farlo, m'incaricherò
di lui.

«Le catene di vostro figlio sono gloria per lui.

«Credetemi

                                                   _G. Garibaldi_.

Fu un conforto per Bennici e per gli altri ufficiali compromessi pel
fatto di Aspromonte udire come patrioti, quali il Mordini, il Crispi, il
Cadolini, il Macchi, ed altri perorarono la loro causa in Parlamento, e
fu gioia e speranza per essi il sapere che nobili Signore, come Donna
Pallavicino Trivulzio, Laura Mancini, Laura Mantegazza ed altre,
facevano coprire da molte migliaia di firme una petizione al Sovrano per
la loro liberazione.

Finalmente il 14 marzo 1865 si aprivano le porte del Castello di
Vinadio, ed il Bennici ed altri compagni che vi erano stati tradotti,
venivano posti in libertà.

Primo pensiero dei liberati fu quello di dirigersi al camposanto e
formato circolo sul luogo che racchiudeva le ossa di alcuni loro
compagni di sventura, il più anziano tra i graduati, dinnanzi alle
autorità civili e militari, pronunziava un discorso funebre, che
concludeva con queste commoventi e nobili parole.

«E lassù sono i nostri compagni d'armi caduti in Aspromonte, e lassù gli
altri trapassati, sopraffatti dai dolori; e di lassù ci mirano le anime
dei nostri undici compagni che lasciarono il loro misero corpo in questo
tenebroso recinto, ed esultano nel ricevere questo tributo d'affetto; e
lassù faranno voti, che ognora il nostro cammino sia quello dell'onore e
della gloria.

«E noi, forti sotto l'usbergo della nostra pura coscienza, osiamo
gridare arditamente a' quattro angoli d'Italia, che dall'Esercito che ha
saputo vincere a S. Martino, a Castelfidardo, a Calatafimi e sulle
barricate di Palermo, non escono e non usciranno giammai _traditori_.
Pronti a chinare il capo ad una espiazione militare, sdegnosamente
protestiamo, contro qualunque accusa infamante, per chi col vessillo
tricolore alla liberazione di Roma con Garibaldi, marciava. Si! per Roma
solo andavamo; per Roma abbiamo sofferto, e per Roma questi undici
nostri compagni sono morti! Quando nel tempio di Marsala il duce dei
Mille giurava _Roma o morte_, non era per ribellarsi contro il principe
eletto da liberi plebisciti.

«Garibaldi, facendosi interprete del bisogno supremo dell'Italia,
intimava la crociata del 1862, solo ambizioso di offrire, come fece al
Volturno della corona delle due Sicilie, Roma a Vittorio Emanuele, in
Campidoglio...

«Si paralizzino i nostri sensi, e la vergogna ricopra le nostri fronti,
se cesseremo di combattere, finchè il vessillo tricolore non isventoli
sulla pina di S. Pietro».

Dopo Aspromonte e dopo sì avversa fortuna, i liberali, prima di
ritornare alle loro case, vollero sulla cenere dei loro morti rinnovare
il giuramento di Marsala, «Roma o morte».

La palla del 29 agosto 1862, se abbattè il corpo del temuto capitano,
fece percorrere alla idea sua animatrice per tal fatto, un cammino quale
non avrebbe potuto sperare con la più splendida vittoria.

Aspromonte giovò alla questione romana in modo decisivo.

                                    *
                                   * *

Nel 1862 il Governo Russo aveva ordinata la leva generale in tutto
l'impero, ma per la Polonia si prescriveva, che fossero esenti
dall'obbligo di leva i contadini ed i grandi proprietari rurali, per cui
la legge colpiva soltanto gli abitanti delle città. Questo privilegio
promosse una agitazione grandissima in tutta la Polonia, e quando il
Governatore di Varsavia volle applicare la legge, il 18 gennaio 1863, il
Comitato Nazionale di Varsavia bandì l'insurrezione e la lotta
incominciò.

Il Generale era infermo a Caprera, e si doleva di non poter accorrere in
aiuto dei Polacchi per pagare un debito di gratitudine verso un paese
che tanti suoi figli aveva sacrificati per la causa della nostra
libertà. Non potendo pagare di persona scriveva all'Europa: «Non
abbandonate la Polonia».

Ed in Italia recar soccorso alla Polonia era come un dovere. Il valoroso
Nullo Francesco dei Mille, impaziente d'indugio e di martirio, partiva
e, unitosi ai ribelli, trovava la morte sugli argini di Skutz.

In Genova si era costituito il Comitato Generale di soccorso ai Polacchi
sotto il patronato di Garibaldi, e presieduto dal generale Clemente
Corte.

Alla fine di maggio due emissari Polacchi sbarcavano a Caprera
apportatori di un audacissimo progetto:

Sommuovere la Rumenia, coll'aiuto del Rossetti e del Bratiano,
rovesciare il principe Couza; formare la base dell'insurrezione nel
principato; penetrare nella Bessarabia e di là in Polonia, per dare mano
forte alla rivoluzione.

In Ancona pure, fin dai primi del 1863 si era costituito un comitato di
soccorso per la Polonia.

Il 16 marzo 1863 Elia riceveva la seguente lettera dal generale Clemente
Corte, accompagnata da poche linee del generale Garibaldi.

                                             Genova, 16 marzo 1863.

          Pregiatissimo Signore,

«Ho ricevuto il di lei foglio 15 corrente e m'affretto a risponderle,
che sentii con molto piacere come la sottoscrizione per la Polonia sia
stata iniziata e promossa in Ancona, da cittadini distinti pel loro
patriottismo.

«È urgente che tale sottoscrizione sia spinta con la maggiore
sollecitudine possibile, e che il denaro raccolto venga spedito al
nostro Comitato di Genova. Confido quindi, che Ella e gli altri patrioti
d'Ancona, faranno in modo di soddisfare a tale mia richiesta.

«Le accludo copia della lettera colla quale il generale Garibaldi
autorizza il nostro Comitato a raccogliere e disporre dei fondi suddetti

«Aggradisca i miei più cordiali saluti e mi creda con distinta stima

                                                       Dev.mo suo

                                                 _Clemente Corte_.»

                                             Caprera, 1 marzo 1863.

          Signori,

Vogliate pregare i Comitati italiani per la Polonia di mettersi in
relazione con Voi, acciò si possa disporre dei fondi raccolti in favore
della rivoluzione.

                                                        Vostro

                                                    _G. Garibaldi._

Al Comitato per la Polonia

                                                          Genova.

                                    *
                                   * *

Il gennaio del 1864, Elia data la sua piena adesione al movimento
insurrezionale della Polonia e deciso di prendervi parte, gli venne
trasmesso dall'organizzatore generale del Governo Nazionale, il decreto
qui trascritto col quale lo si creava organizzatore delle forze
insurrezionali a favore della Polonia nell'Adriatico e lo si nominava
provvisoriamente Capitano di Fregata.

    _Pour etre remplace par un brevet en notre arrive au Quartier
    General._

    VARSAVIA.

    Bollo nazionale Polacco.

    Donè o Gene 1864 Mars 15.

En vertu des pouvoirs qui nos sont confères pour le Gouvernement
National Polonais par un Decret du 10 fevrier 1864 daté de Varsavie,
nous nommons au post d'Organizateur des forces Navales Polonais sur le
mer Adriatique le Citoyen Auguste Elia sujet du Roy.me de l'Italie,
natif d'Ancone, et lui conferons provisoirement le grad de Capitaine de
Fregate dans la Marine Nationale; il aurà a se conformer dans l'esercice
de ses funtions a nos ordres et instruction ulterieurs.

                                                  F.to F. K.

                                            _Organizateur General_.

Il 13 marzo Elia ricevette dal Cy John Robson di Londra la seguente
lettera, con la quale l'avvisava dell'arrivo in Ancona di un vapore a
lui diretto e gli dava commissione di vendere il carico e di fare del
vapore quell'uso, che più gli fosse piaciuto, dandogli assicurazione,
che il vapore medesimo era pienamente adatto pel servizio dei passeggeri
nel mare Adriatico e per non lunghe navigazioni.

                                            London, 1864 mars 13th

          Dear Sir,

«Having been furnished with your address by my commercial friend. I
avail myself of the opportunity, and beg of yon, to take in your charge
my steamer the «Princess,» Master Sainscler, destined to your port and
charged with goods insended for speculation. Should yon accept this
commission, I then will send you the power for sale, or to dispose of
her in manner yon would think proper. She is fit for transport, and
passengers trade of short distance, and I think she will answer well in
the Adriatic. She may be in your place towards the end of this month.

«The bearer of this letter, the Master of the steamer, will require your
aid and your advice, which yon will kindly afford him and oblige.

«Your obedient servant

                                                    _John Robson_».

Nell'aprile, insistendo Elia che non aveva avuto altre notizie, perchè
gli si facesse fare qualche cosa, riceveva la seguente lettera:

                                            Torino, 22 aprile 1864.

          Pregiatissimo Signore,

Ho ricevuto la vostra del 11 aprile. Aspettate e fate aspettare
gentilmente, fino a che non riceverete notizie positive da Londra.

Spero che gli avvenimenti camminino e che con loro camminerà anche il
nostro affare. Fra poco riceverete da parte mia la lettera patente
commerciale, che ho ricevuto oggi e che manderò a voi col mezzo di una
persona sicura. A tutti i miei saluti.

Aggradite l'espressione della mia sincera amicizia e del mio
distintissimo rispetto

                                                    Vostro dev.mo

                                                       _S. S._

Ma passò del tempo. Il vapore annunziato non erasi veduto, nè arrivavano
altre notizie, quando da persona sconosciuta gli venne portata la
seguente lettera:

                                            Torino, 30 giugno 1864.

          Mio caro Elia,

«Se potete e volete consacrarvi ad una grande impresa, che vi
allontanerà per qualche tempo dalla vostra famiglia, ma che può e deve
essere base della nostra gloria e della grandezza avvenire, venite
immediatamente a Torino e da Torino al Campo di S. Maurizio, dove debbo
dirvi cosa e come. Non dite niente a nessuno. Il latore non sa nulla e
non gli dite nulla.

«Se poi le vostre ferite non vi permettessero di viaggiare per mare e
per terra rispondetemi _non posso_.

«Attendo con impazienza voi od una vostra riga. Tacete tutto e vogliate
sempre bene al

                                                    Sempre Vostro

                                                    _Nino Bixio_»

È da immaginarsi con che premura Elia rispondesse all'appello del caro
amico generale Bixio, che già presentiva essere d'accordo col Re
Vittorio Emanuele e con Garibaldi per qualche ardita e gloriosa impresa.
Non indugiò la partenza e raggiunse dopo due giorni, Bixio al Campo di
S. Maurizio.

Montati a cavallo si recarono in una casina di proprietà di Accossato,
dove Elia ebbe l'altissimo onore e la grande soddisfazione di stringere
la mano che gli veniva stesa dal Padre della Patria, Re Vittorio
Emanuele II, che ebbe parole assai benevoli per lui. Elia ricevette
verbali ordini e disposizioni intorno ad una combinata operazione e
ritornò in Ancona in attesa di essere chiamato.

Anche Mazzini cooperava con Vittorio Emanuele e spronava gli amici suoi
a dare il loro appoggio per l'insurrezione in Gallizia, e nel trovare
appoggio nei principati Balcanici, e sopratutto nel Montenegro, per un
forte diversivo contro l'Austria, per poi marciare colle forze nazionali
alla conquista del Veneto.

Intanto che tali trattative correvano, il generale Garibaldi, invitato
dal popolo inglese a recarsi in Inghilterra, la mattina dell'11 aprile
vi faceva il suo ingresso, accolto da per tutto da una moltitudine
fremente d'ammirazione e di amore.

Fra le feste che gli furono fatte merita di essere ricordata quella
della prima autorità cittadina.

Il Lord Mayor di Londra salutava in lui in nome della libera
Inghilterra:

«Il grande Apostolo della libertà; l'eroico e cavalleresco soldato che
non impugnò mai la spada che per una giusta causa; il conquistatore di
un regno per liberarlo dall'oppressione; colui che rimase povero per
arricchire gli altri; il cittadino amante della sua patria e di tutta la
razza umana, assai più della propria vita; l'uomo sinceramente buono e
giusto di cui le private virtù sono superate soltanto dalle virtù
pubbliche, dalla magnanimità più che spartana o romana».

Invitato ad un banchetto di amici polacchi ed italiani tra i quali
Mazzini, Saffi e Mordini, al levare della mensa Mazzini si levò e
propose un brindisi al generale Garibaldi con queste parole:

«Il mio brindisi racchiuderà tutto quanto ci è caro, tutto quello per
cui abbiamo sofferto, e combattuto. Bevo alla salute della libertà dei
popoli, dell'uomo, che è la incarnazione vivente di queste grandi idee,
di Giuseppe Garibaldi; della povera, sacra ed eroica Polonia i cui figli
silenziosamente combattono e muoiono per la libertà da più di un anno;
bevo alla salute di quella giovane Russia la cui divisa è terra e
lavoro; della nuova Russia che fra non molto offrirà la mano alla
Polonia sorella, riconoscendo la sua indipendenza e cancellando i
ricordi dei russi degli Czar; alla salute dei russi che col nostro amico
Herzen hanno fatto tanto per creare questa nuova Russia».

Garibaldi rispose:

«Sono per fare una dichiarazione che avrei dovuto fare già da gran
tempo; vi è fra noi un uomo che ha reso i più grandi servigi al nostro
paese ed alla causa della libertà.--Quando io ero giovinetto non avendo
che aspirazioni verso il bene, cercai uno capace di servire di guida e
di consiglio ai miei giovani anni, e lo trovai.--Egli solo vegliava,
mentre tutti intorno a lui dormivano--Egli solo alimentò il fuoco
sacro--Egli conservò sempre la sua fede, l'amore sviscerato al suo
paese e la devozione alla causa della libertà--Quest'uomo è il mio amico
e Maestro Giuseppe Mazzini. Beviamo alla sua salute».

Il 5 maggio Garibaldi lasciava l'Inghilterra, ed il 9 l'«Ondine» Jakt
del Duca di Sutherland lo sbarcava a Caprera.

                                    *
                                   * *

Prima d'imbarcarsi per far ritorno alla sua Isola il generale così
scrisse a Victor Ugo che avevagli espresso il desiderio di stringergli
la mano qualora avesse potuto visitarlo nella partenza da Londra:

          Mio caro Victor Ugo,

«Il visitarvi nel vostro esiglio era per me più che un desiderio; era un
dovere: ma molte circostanze me lo impediscono. Spero mi capirete, chè
lontano o vicino, non sono mai separato da Voi e dalla causa che
rappresentate.

«Sempre vostro

          «Londra, 22 aprile.

                                                «_G. Garibaldi_».

Volle pure fosse pubblicata una lettera di commiato e di omaggio alla
stampa inglese e così scriveva:

«Nel lasciare l'Inghilterra non posso a meno di offrire un pubblico
omaggio alla stampa inglese, e uno speciale tributo di gratitudine a
tutti quei giornali che furono sinceri e fedeli organi della pubblica
opinione verso di me, e benevoli interpreti dell'ammirazione e dei
sentimenti che nutro per la nazione che mi diede ospitalità.

          «Londra, 28 aprile.

                                                «_G. Garibaldi_».

                                    *
                                   * *

Garibaldi però non si trattenne a lungo nella sua isola. Il 14 di
giugno, collo stesso vapore che lo aveva ricondotto dall'Inghilterra e
che il Duca di Sutherland aveva messo a sua disposizione, sbarcava
nell'Isola d'Ischia per curarsi, secondo si diceva, dell'artrite.

Come si disse già da qualche tempo correva una corrispondenza privata
fra Mazzini e Vittorio Emanuele.

Intermediario fra Vittorio Emanuele e Mazzini era il patriota Diamilla
Muller amico al Mazzini e carissimo quanto altrettanto devoto a Vittorio
Emanuele.

Nel novembre del 1863 il Diamilla Muller riceveva da Mazzini un
messaggio che diceva così:

«Il Re non intende questo cospirare continuo a impiantare un dualismo
tra il governo e il partito d'azione, in cose nelle quali si era, in
sostanza, d'accordo; volere egli Venezia quanto me: avere egli fede
nell'onestà del mio procedere; perchè non si verrebbe a un patto per
l'intento comune?»

E il 15 novembre del 1863 il Mazzini in una sua lettera nella quale
apriva l'animo suo grande, concludeva così:

          Caro Muller

«Se chi pensa alla guerra contro l'Austria ha coscienza di me, e crede
al mio onore, che non ho tradito mai, io dichiaro

«Che non credo a vittoria definitiva possibile senza l'esercito regolare
e l'intervento governativo.

«Che non sogno neanche d'innalzare, ove anche il potessi, una bandiera
repubblicana sul Veneto--che tacendo noi per coscienza e per dignità
d'ogni programma politico, e limitandoci a gridare guerra all'Austria,
aiuto ai nostri fratelli, accetteremmo il programma che escirebbe dal
Veneto. Ora il grido del Veneto che abbisogna dell'esercito e
dell'Italia costituita come è, sarà infallibilmente monarchico. Su
questo punto il re non ha dunque da temere.

«Data questa sicurezza, il migliore accordo è quello di _lasciarci
fare_, e apprestarsi a cogliere rapidamente l'opportunità che noi
cercheremo di offrire.

«Garibaldi è l'anima d'ogni moto di volontari. Nessuno può dubitare
sulla di lui adesione alle dichiarazioni che io feci sul principio di
questa mia lettera. Ma sono convinto, che la di lui azione dovrebbe
essere lasciata libera ed indipendente. S'intende che i primi fatti di
guerra governativa regolarizzerebbero il contatto dell'insurrezione e
del capo dei volontari col disegno generale strategico.

«Potete comunicare al re questa mia e credetemi vostro

                                                     _G. Mazzini_

La risposta di Vittorio Emanuele fu:

«Avere comuni lo slancio e il desiderio di fare con la persona di cui si
parla. Giudicare le cose da me e con la massima energia, non con timide
impressioni altrui.

«Ma sappia la persona che gravi sono i momenti, che bisogna ponderarli
con mente calma e cuore ardente, che io e noi tutti vogliamo e dobbiamo
compiere nel più breve spazio di tempo la grand'opera; ma guai a noi
tutti se non sappiamo ben farlo, o se, abbandonandoci ad impetuose
intempestive frenesie, venissimo a tale sciagura da ripiombare la patria
nostra nelle antiche sventure.

«Il momento non è ancora maturo; fra breve, spero, Dio aiuterà la patria
nostra.

                                                        «_V. E._»

Il 2 di maggio in un autografo il Re faceva a Mazzini questa risposta:

«La Polonia mancò ognora nelle varie sue fasi insurrezionali della forza
vitale di espansione, e questa è la principale cagione della sua rovina:
forse potrebbe rinascere come la fenice dalle proprie ceneri, estendendo
le sue ramificazioni in Gallizia, Principati ed Ungheria, dove il
terreno sarebbe facile _á exploiter_ se vi fossero uomini energici ed
audaci che servissero di _trait-d'union_.

Se i moti in Gallizia estesi alle citate contrade prendessero le
proporzioni di una _spontanea popolare_ insurrezione da tenere
fortemente occupata l'Austria, allora sarebbe necessario anzitutto
d'aiutarla con un nucleo d'italiani determinati, e così riuniti vari
fecondi elementi, _tutti ostili al principale nemico_ si potrebbe
condurre a compimento il comune desiderio.

                                                        «_V. E._»

Intanto correvano intelligenze oltre che con Mazzini e Garibaldi anche
coi generali Klapka e Turr capi dell'insurrezione ungherese e con altri
a Belgrado ed a Bukarest--Garibaldi era pronto a tutto.

Nel maggio il Re Vittorio Emanuele approvava tutte le proposte di
Mazzini e si metteva d'accordo col generale Garibaldi, che doveva essere
il condottiero dell'ardita impresa; intermediario del Re Vittorio
Emanuele con Garibaldi era il sig Porcelli.

Alcuni amici del generale Garibaldi non approvavano questa pericolosa
spedizione e temevano pel Generale stesso, che volevano rimanesse in
Italia ad aspettare altri eventi propizi. Ma egli era risoluto; si
doveva partire ed Elia stava aspettando impaziente l'annunziato vapore,
quando ricevette la seguente lettera:

                                             Torino, 9 luglio 1864.

          Mio caro Elia,

«I mestatori hanno tentato di fare andare a monte il tutto e di far
cambiare idea al nostro G....

«Spero che non riesciranno! Questa sera vedrò l'altra persona e cercherò
di accomodare ogni cosa.

«Domani vi saprò dire qualche cosa di positivo.

«Intanto ho voluto scrivervi queste due righe in risposta alle vostre
due, perchè attendiate senza inquietarvi.

«Sarà un piccolo ritardo, ma pazienza! Ho scritto a Stagnetti ciò che
desiderate.

«A domani dunque.

          «Tutto Vostro

                                                    «_Porcelli_».

Ma l'indomani 10 luglio 1864 il Giornale il _Diritto_ pubblicava la
seguente protesta anonima:

«Avuta certa notizia, che alcuni fra i migliori del partito d'azione
sono chiamati a prendere parte ad imprese rivoluzionarie e guerresche
fuori d'Italia, i sottoscritti (che non si sottoscrissero!) convinti:

«Che noi stessi versiamo in gravi condizioni politiche;

«Che nessun popolo e nessun terreno sia più propizio ad una rivoluzione
per gli interessi della libertà, che l'italiano;

«Che le imprese troppo incerte e remote quali sono le indicate, ordite
da principi, debbano necessariamente servire più a' loro interessi che a
quelli de' popoli;

«Credono loro dovere per isgravio della loro coscienza dichiarare;

«Che l'allontanarsi dei patriotti italiani in questi momenti non può che
essere funesto agli interessi della patria».

Questa pubblicazione del _Diritto_ fece persuaso Vittorio Emanuele che
non potendosi più condurre l'impresa con la dovuta segretezza, se ne
accrescevano i pericoli; e non volendo che si pensasse, che egli mandava
al sagrifizio Garibaldi coi suoi valorosi compagni, per vedute ambiziose
proprie, con lettera, portata al Generale dal Porcelli, lo scioglieva da
ogni impegno e ritirava il suo concorso all'opera progettata.




                            =CAPITOLO XXIV.=

                =Guerra del 1866--Liberazione del Veneto.=


La guerra del 1864 intrapresa dalle due grandi potenze germaniche contro
la Danimarca fu poi l'origine dei loro dissensi. Finchè si trattò di
togliere ad un piccolo regno i tre ducati dell'Elba; finchè si volle
togliere ogni ingerenza ai minori Stati della Confederazione, Austria e
Prussia andarono d'accordo; ma quando si fu alla spartizione della
conquista fra le due potenze, si sviluppò un forte antagonismo che
doveva condurre alla guerra.

In vista di questa eventualità il Conte di Bismark chiamato a sè nei
primi di marzo il Conte Barral, Ministro d'Italia presso il Re di
Prussia, ebbe con lui una conversazione concernente un trattato di
alleanza offensiva e diffensiva a concludere il quale La Marmora
incaricava il generale Govone--non poteva farsi scelta migliore--e il 9
marzo egli partiva da Firenze per Berlino. Il trattato fu concluso e
firmato, ed a questo l'Italia si mantenne fedele, sebbene l'Austria le
offrisse la cessione del Veneto, purchè si distaccasse dalla Prussia.
Essa si preparò alla guerra con la mobilitazione dell'esercito e col
richiamo sotto le armi delle vecchie classi.

La guerra fu dichiarata.

                                    *
                                   * *

Il Re Vittorio Emanuele, dopo la dichiarazione di guerra all'Austria,
indirizzava alla Nazione il seguente proclama:

          Italiani!

«Sono corsi ormai sette anni che l'Austria assalendo armata i miei
Stati, perchè Io aveva perorata la causa della comune patria nei
consigli d'Europa, e non ero stato insensibile ai gridi di dolore che si
levavano dall'Italia oppressa, ripresi la spada per difendere il mio
trono, la libertà dei miei popoli, l'onore italiano e combattere pel
diritto di tutta la nazione.

«La vittoria fu pel buon diritto; e la virtù degli eserciti, il concorso
dei volontari, la concordia ed il senno dei popoli e gli aiuti di un
magnanimo alleato, rivendicarono quasi intera la indipendenza e la
libertà d'Italia.

«Supreme ragioni che noi dovemmo rispettare ci vietarono allora di
compiere la giusta e gloriosa impresa: una delle più nobili ed illustri
regioni della penisola, che il voto delle popolazioni aveva riunito alla
nostra Corona e che per una eroica resistenza e una continua e non meno
eroica protesta contro il restaurato dominio straniero ci rendeva
particolarmente sacra e cara, rimase in balia dell'Austria.

«Benchè ciò fosse grave al mio cuore, nondimeno mi astenni dal turbare
l'Europa desiderosa di pace, che favoriva colle sue simpatie il crescere
ed il fondarsi del mio Regno.

«Le cure del mio governo si volsero a preferenza ad accordare gli
ordinamenti interni, ad aprire ed alimentare le fonti della pubblica
prosperità, a compire gli armamenti di terra e di mare, perchè l'Italia,
posta in condizione di non temere offesa, trovasse più facilmente nella
coscienza delle proprie forze la ragione delle opportune prudenze,
aspettando si maturasse col tempo, col favore dell'opinione delle genti
civili e degli equi e liberali principii che andavano prevalendo nei
consigli d'Europa, l'occasione propizia di ricuperare la Venezia e di
compiere ed assicurare la sua indipendenza. Quantunque l'aspettare non
fosse senza pericoli e senza dolori entro confini mal circoscritti e
disarmati, e sotto la perpetua minaccia di un inimico, il quale nelle
infelici provincie rimaste soggette alla sua dominazione aveva
accumulato i suoi formidabili armamenti della offesa e della difesa:
collo spettacolo continuo innanzi agli occhi dello strazio che egli
faceva delle nostre popolazioni, che la conquista e una spartizione
iniqua gli avevano dato, pure io seppi frenare, in omaggio alla quiete
d'Europa, i miei sentimenti di italiano e di Re, e la giusta impazienza
dei miei popoli. Seppi conservare integro il diritto di cimentare
opportunamente la vita e le sorti della Nazione: integra la dignità
della Corona e del Parlamento, perchè l'Europa comprendesse che doveva
dal canto suo giustizia intiera all'Italia.

«L'Austria ingrossando improvvisamente sulla nostra frontiera, e
provocando con un atteggiamento ostile e minaccioso, è venuta a turbare
l'opera pacifica e riparatrice intesa a compiere l'ordinamento del
regno, e ad alleviare i gravissimi sacrifici imposti ai miei popoli
dalla sua presenza nemica sul territorio nazionale.

«All'ingiustificata provocazione ho risposto riprendendo le armi, che
già si riducevano alla proporzione della necessità dell'interna
sicurezza: e voi avete dato uno spettacolo meraviglioso e grato al mio
cuore, colla prontezza e con l'entusiasmo con che siete accorsi alla mia
voce nelle file gloriose dell'esercito e dei volontari.

«Nondimeno quando le potenze amiche tentarono di risolvere le difficoltà
suscitate dall'Austria in Germania ed in Italia per via di un Congresso,
io volli dare un ultimo segno dei miei sentimenti di conciliazione
all'Europa, e mi affrettai di aderirvi.

«L'Austria rifiutò, anche questa volta, i negoziati, e respinse ogni
accordo e diede al mondo una novella prova che, se confida nelle sue
forze, non confida ugualmente nella bontà della sua causa e nella
giustizia dei diritti che usurpa.

«Voi pure potete confidare nelle vostre forze, Italiani, guardando
orgogliosi il florido esercito e la formidabile marina, pei quali nè
cure nè sacrifizi furono risparmiati; ma potete anche confidare nella
santità del vostro diritto, di cui ormai è immancabile la sospirata
rivendicazione.

«Ci accompagna la giustizia della pubblica opinione, ci sostiene la
simpatia dell'Europa, la quale sa che l'Italia, indipendente e sicura
del suo territorio, diventerà pur essa una garanzia d'ordine e di pace,
e ritornerà efficace istrumento della civiltà universale.

          Italiani!

«Io do lo Stato a reggere al mio amatissimo cugino il principe Eugenio e
riprendo la spada di Goito, di Pastrengo, di Palestro e di S. Martino.

«Io sento in cuore la sicurezza che scioglierò pienamente questa volta
il voto fatto sulla tomba del mio magnanimo Genitore. Io voglio essere
ancora il primo soldato della indipendenza italiana.

«Viva l'Italia.

«Firenze, li 20 giugno 1866.

                                           «_Vittorio Emanuele_».

Il Re rivolgeva poscia il seguente proclama all'esercito:

          Ufficiali, sottufficiali e soldati!

L'Austria, armando sulla nostra frontiera, vi sfida a novella battaglia.
In nome mio, in nome della Nazione, vi chiamo alle armi. Questo grido di
guerra sarà per voi, come lo fu sempre, grido di gioia. Quale sia il
vostro dovere, non ve lo dico, perchè so che bene lo conoscete. Fidenti
nella giustizia della nostra causa, forti del nostro diritto sapremo
compiere con le armi la nostra unità.

    Ufficiali, sottufficiali e soldati!

Assumo oggi nuovamente il comando dell'esercito per adempiere al dovere
che a me ed a voi spetta di rendere libero il popolo della Venezia, che
da lungo tempo geme sotto ferreo giogo. Voi vincerete, ed il vostro nome
sarà benedetto dalle presenti e future generazioni.

Firenze, 21 giugno 1866.

                                             _Vittorio Emanuele_.

Disponeva poi che si istituissero due depositi a Como ed a Bari per la
formazione del corpo dei volontari e ne offriva il comando al generale
Garibaldi, che rispondeva così al Ministro della guerra:

                                         Caprera, 14 maggio 1866.

          Signor Ministro,

«Accetto con vera gratitudine le disposizioni emanate da S. M. in
riguardo al corpo dei volontari, riconoscente della fiducia in me
riposta coll'affidarmene il comando.

«Voglia essere interpetre presso Sua Maestà di questi miei sentimenti,
nella speranza di potere subito concorrere col glorioso nostro esercito
al compimento dei destini nazionali.

«Ringrazio la Signoria Sua della cortesia colla quale si è degnato
farmene partecipazione.

«Voglia credermi della Signoria Sua

                                                     Dev.mo

                                                «_G. Garibaldi_».

Si sapeva dunque della formazione di un corpo di volontari e tutta la
vecchia guardia aspettava di essere chiamata; non si sapeva però dal
Generale quale destinazione gli si sarebbe data. Si parlava che avrebbe
avuto incarico di sbarcare coi suoi volontari in Istria, sollevare
quelle popolazioni italianissime e piombare su Trieste. Ma prevalsero
altri concetti.

Quando tutto fu deciso egli chiamò a sè i suoi fidi, ed all'Elia così
scriveva:

          Mio caro Elia,

«Venite--Se vi fosse Burattini, che venga. Se vi fossero pure dei bravi
marinari volontari conduceteli a Milano e arrivati là avvisatemi.

                                                     Vostro

                                                «_G. Garibaldi_».

Subito Elia metteva assieme un buon numero di marinari volontari, ai
quali, oltre il Burattini, si unirono alcuni capitani della marina
mercantile che si offersero come marinari; e tutti partirono per Milano,
ove giunti Elia informava subito il Generale chiedendo ordini.

Il 16 di giugno il «Monitore Prussiano» pubblicava la dichiarazione di
guerra, mentre le truppe incominciavano le ostilità. Il 17 il telegrafo
ne dava notizia all'Italia e La Marmora fedele ai suoi impegni partiva
pel Quartiere generale, ed il 20 inviava la dichiarazione di guerra
all'Austria.

Se la flotta italiana fosse stata affidata al comando di un uomo come
Garibaldi, con la certezza di dominare con la stessa l'Adriatico,
tenendo obbligata la flotta nemica a stare riparata sotto i cannoni di
Pola, il miglior piano di campagna sarebbe stato quello d'impossessarsi,
con un energico colpo di mano di Trieste per farne base di operazione
dell'esercito, che sbarcato su quel punto avrebbe girato tutte le difese
accumulate per tanti anni sul territorio Veneto, trasportando di primo
slancio la guerra nel suolo nemico; disgraziatamente prevalse altro
criterio, e la flotta italiana fu data in mano a persona mancante di
energia e di quella capacità superiore, che richiedevasi in momento così
grave e decisivo per la nazione.

Per maggiore sventura, nella fissazione e nella esecuzione del piano di
campagna, si urtarono due pareri contrari.

La Marmora non ammetteva altra offesa possibile se non dal Mincio colla
base di Alessandria e Piacenza. Cialdini invece aveva capito essere
folle impresa l'attacco di fronte al quadrilatero; essere indispensabile
girarlo, facendo base a Bologna e dirigendo le operazioni di attacco su
Padova per Pontelagoscuro e Rovigo. L'attacco dal Mincio conduceva per
necessaria conseguenza agli assedi di Peschiera e di Verona che
bisognava assolutamente evitare.

L'aggressione invece da Bologna a Rovigo non presentava grandi
difficoltà. La marcia dal Po all'Adige, comeche brevissima era
tutt'altro che difficile, tanto più che gl'italiani potevano contare sul
simpatico concorso delle popolazioni.

Concentrate le maggiori forze italiane fra Badia e Rovigo, con la
sinistra, forte da poter reggere ad un'energica offesa proveniente da
Legnago facile sarebbe stata la riduzione dei quattro piccoli forti di
Rovigo col gran materiale di artiglieria rigata di cui si disponeva;
così con Rovigo in mano era assicurato il passo dell'Adige e l'arciduca
comandante le forze austriache veniva obbligato o a dar battaglia con
tutti gli svantaggi d'inferiorità numerica nei pressi di Padova, o
chiudersi in Verona, o retrocedere verso il Piave.

Così la campagna ci sarebbe iniziata nel modo il più brillante.

La Marmora rifiutò recisamente di operare nel Po; adottò invece un mezzo
termine che doveva infine condurre a cattivi risultati. Fu quindi
stabilito che i primi tre corpi di armata eseguirebbero una seria
dimostrazione sul Mincio onde attrarre da quel lato le forze
dell'arciduca, mentre il 4º Corpo, varcato il Po marcerebbe su Rovigo di
cui s'impadronirebbe, attendendo per inoltrarsi oltre l'Adige, di essere
raggiunto dal grosso dell'Esercito, che vi si porterebbe mediante una
marcia di fianco, utilizzando la ferrovia dell'Emilia. Se la
dimostrazione accennata non fosse riuscita e che l'arciduca avesse
opposti gravi ostacoli al passaggio del basso Po, era allora Cialdini
che sarebbe andato a raggiungere La Marmora sul Mincio.

Fissato dal La Marmora questo piano, nella mattina del 19 giugno, dal
comando supremo dell'Esercito fu ordinato che all'alba del domani il 1º
Corpo si avanzasse a prendere posizione sulle alture tra Pozzolengo e
Volta in modo da poter chiudere il passo ad ogni sortita da Peschiera
sulla destra del Mincio; che il 3º Corpo d'armata si avanzasse su Goito
legandosi a sinistra col 1º sotto Volta e a destra col 2º per Rivalta;
che il 2º Corpo si appressasse a Mantova, senza passare il confine, ma
in modo da potere al rompere delle ostilità, impadronirsi subito di
Curtatone e minacciare Borgoforte; che la divisione di cavalleria
muovesse nella notte per porsi tra Castiglione delle Stiviere, San
Cassiano, Guidizzolo e Medole.

La riserva generale d'artiglieria si collocasse attorno a Cremona.

Il fronte dell'armata del Mincio era per tal modo collocato su una
distesa di 42 chilometri.

Disegno del comando supremo dell'Esercito era il seguente: al mattino
del 23 impadronirsi dei passi del Mincio tra Monzambano e Goito con
truppe del 1º e 3º Corpo, porre piede sulla sponda sinistra e spingere
la cavalleria verso l'Adige; e, nel tempo stesso, colle truppe pel 2º
Corpo impossessarsi dei fortini avanzati di Curtatone e Montanara
dinanzi a Mantova, entrare nel Serraglio, tagliare le comunicazioni tra
quella fortezza e Borgoforte, e assalire questa ultima posizione dalle
due sponde del Po e costringere con un rapido fuoco di numerosa
artiglieria, il presidio alla resa o allo sgombro.

Nel mattino del 23 il passaggio del Mincio fu effettuato come era stato
ordinato senza contrasti da parte degli austriaci.

Il 1º Corpo passò il Mincio a Monzambano colla brigata Pisa e si ritirò
al di là ed a cavallo del fiume; la quinta divisione lo passò a
Borghetto ed occupò Valleggio; la 3ª lo valicò ai mulini di Volta ed
occupò l'altipiano di Pozzuolo; la 2ª restò nella sua posizione di
Pozzolengo osservando Peschiera; una forte riserva si situò a metà
strada tra Volta e Borghetto.

Il 3º Corpo valicò il fiume al ponte di Goito, alla presenza del Re.

Vi passarono la 7ª, 16ª e 9ª Divisione mentre l'8ª gettava un ponte
più in alto, a Ferri; le divisioni 16ª e 7ª si collocarono in prima
linea, fra Belvedere e Roverbella, le altre due rimasero in seconda
linea.

Il 2º Corpo non passò il Mincio; ma con la 6ª Divisione ed una brigata
della 4ª varcò la frontiera delle Grazie ed occupò Curtatone e
Montanara; l'altra brigata della 4ª Divisione fu posta sulla destra del
Po, osservando Borgoforte.

Le divisioni Longone e Angioletti rimasero nei pressi di Castelluccio.

Tutti questi movimenti, come si disse, non incontrarono alcuna
resistenza. L'assenza di forze austriache nella pianura avanti Verona,
indusse il generale La Marmora a ritenere che il nemico avesse
rinunziato a difendere il terreno fra l'Adige e il Mincio, e che si
sarebbe limitato a contrastare il passo del primo fiume. Perciò venne
nel concetto di gettarsi arditamente fra le piazze di Verona, Peschiera
e Mantova, per separarle una dall'altra, ed occupare una forte posizione
che, richiamando l'attenzione del nemico, favorisse il passaggio del 4º
Corpo d'Armata, concentrato fra Bologna e Ferrara. In conseguenza di
questo presupposto diede gli ordini perchè il 1º Corpo occupasse Castel
Nuovo, S. Giustino e Sorra. Il 3º, prolungando questa linea, avesse
occupato Somma-Campagna e Villafranca.

Ordinava infine che il 2º Corpo, passando il Mincio a Goito, avesse
occupato quel paese, Marmirolo e Roverbella, quale riserva generale.

Tutti questi movimenti dovevano farsi nelle prime ore antimeridiane del
giorno 24.

                                    *
                                   * *

Garibaldi aveva accettato con gran cuore, che Trento, fosse l'obbiettivo
delle sue operazioni; ma v'erano altre vie per giungervi oltre quella
all'ovest del Garda. Scalare le sue truppe a Bergamo, accennando a nord
per richiamare gli austriaci ai passi del Tonale e del Caffaro; poi
correre a gran passi al Po Cremonese, e, per l'Emilia, al basso Po,
dietro il corpo del generale Cialdini; entrare con questo nel Veneto,
sopravanzarlo, e per la Val Sugana lanciarsi su Trento. Questo era il
piano che egli aveva in mente. La Val Sugana era infatti la più facile
per la impresa del Trentino; ma tale disegno non combinava colle idee
del Comando Supremo ed a questo dovette sottomettersi.

Il generale il 23 giugno contava di avere con sè seimila uomini circa, e
con questi si metteva in marcia per la via che gli era stata tracciata,
mentre sapeva che il generale Kunn gli opponeva una forza superiore ai
18 mila uomini.

Elia aspettava da tre giorni a Milano la chiamata di Garibaldi, quando a
mezzo del tenente colonnello Francesco Cucchi dello Stato Maggiore,
riceveva l'ordine di portarsi con tutti i suoi a Salò.

Ivi arrivato Elia presentava al generale i volontari che lo
accompagnavano. Questi lo informò che suo intendimento era di affidare a
lui il comando della minuscola flottiglia del Lago di Garda; ma Elia gli
fece osservare che avendo già il maggiore Sgarallino Andrea di Livorno,
arrivato prima, presa la consegna ed il comando della flottiglia stessa,
per ordine del Capo di Stato Maggiore, era suo desiderio di
lasciarglielo; solo chiedeva il comando dell'unica barca cannoniera
pronta ed armata «Il Torione», se il generale avesse risolutamente
deciso di lasciarlo nella flottiglia. Il generale pregò Elia di rimanere
nella flottiglia e gli diede il comando desiderato.

Questa flottiglia si componeva di cinque barche cannoniere armate con un
cannone da 24 mm. a prua, difese da un parapetto di corazza e da 2 da 5
1/3 mm. nei fianchi; ma quattro di esse erano in riparazione e solo dopo
alcuni giorni furono pronte all'azione.

La flottiglia austriaca sul lago era composta delle cannoniere ad elica
«Speinthenfel» «Wildfang» «Scharfschiutez» «Raufbold» «Wespe» e «Nikoke»
e dei vapori a ruote «Francesco Giuseppe» e «Hess».

Il 23 il generale aveva ordinato ai volontari che aveva sottomano, di
marciare avanti e di occupare con audaci colpi di mano il Caffaro e
Montesuello; e i garibaldini non perdettero tempo.

Il colonnello Spinazzi, comandante del 2º reggimento, messosi subito in
marcia si spingeva fino ad Anfo; il maggiore Castellini faceva avanzare
il suo battaglione di bersaglieri in due colonne di due compagnie
ciascuna e da una compagnia del 2º reggimento, per la strada di Bagolino
verso Montesuello e vi riusciva mettendo in fuga il nemico che si
ritirava. Così i nostri si erano stabiliti sul Montesuello e sul
Caffaro, con drappelli di fianco a Bagolino da un lato ad Hano e Monte
Stino dall'altro, quando arrivava allo Spinazzi l'ordine di retrocedere
su Lonato e Desenzano; e ciò in seguito all'ordine che il generale
Garibaldi aveva ricevuto dal Comando Supremo, di recarsi a proteggere
l'eroica Brescia.

                                    *
                                   * *

Si credeva, secondo notizie avute, che a Villafranca fosservi due
squadroni di cavalleria nemica. S. A. R. volendo sorprenderli ordinava
al Capitano di Stato Maggiore Taverna di porsi alla testa dello
squadrone d'avanguardia e di attraversare di gran galoppo quella città,
per la strada diritta e larga che la taglia nel mezzo, e ai due
battaglioni di bersaglieri di seguirlo a passo di corsa. Intanto la
Divisione sostava a breve distanza.

L'avanscoperta fu eseguita con prontezza, ma fu trovata la città sgombra
di nemici.

Il conte Taverna spinse la ricognizione sulla strada di Verona e
Povegliano e vi scoperse le vedette nemiche; erano Ussari Wurtemberg
della brigata Radakowschi in marcia. Avviso ne fu dato al grosso della
Divisione che già aveva traversato Villafranca; questa spiegò subito la
brigata Parma in prima linea con due batterie a cavallo della strada
Regia e della ferrovia, tendenti a Verona. Era tempo perchè l'attacco
della cavalleria austriaca, si sviluppò immediato, energico e violento.

Gli squadroni Usseri si slanciarono a galoppo serrato contro lo
squadrone italiano inseguendolo fino sulle catene dei bersaglieri che
coprivano la brigata Parma; lì si arrestarono accolti da viva fucilata,
batterono in ritirata e si ridussero presso le due brigate comandate dal
Pulz e dal Radakowschi, le quali spiegati i propri cavalieri in
battaglia, gli Ussari Imperatore a diritta, gli Ulani di Trani a
sinistra, la batteria al centro, si lanciano contro Villafranca.

Gli Ulani preso il galoppo sopravanzarono gli Ussari; oltrepassato
Canova incontrarono le fitte catene dei bersaglieri. Caricare queste ed
i sostegni fu l'affare di un momento, ma al di là diedero di cozzo
contro gli otto quadrati della brigata Parma, appoggiati da una potente
artiglieria che vomitava mitraglia. Il principe Umberto aveva avuto
appena il tempo di gettarsi in un quadrato del 49º, comandato dal
maggiore Ulbrich. Lo spettacolo era imponente; da una parte una giovane
fanteria, cui non intimidivano gli _urrak_ dei cavalieri lanciati a
briglia sciolta, dall'altra una brillante cavalleria che si gettava
impavida contro quella muraglia di ferro e di fuoco. Ma i quadrati del
49º rimasero immobili come torri e la cavalleria austriaca vide
spezzarsi tutti i suoi sforzi contro la muraglia di ferro della brava
fanteria, superba di mostrare il suo sangue freddo e il suo eroismo al
figlio primogenito di Vittorio Emanuele il quale, con serenità d'animo
dava l'esempio del coraggio e della devozione al dovere.

Dopo inutili, ripetute cariche gli avanzi del reggimento Trani
retrocedettero laceri e malconci; quando il Radakowschi li riannodava
appena 200 risposero all'appello.

Al rumore delle cannonate la divisione Bixio era accorsa a spiegarsi
sulla sinistra del principe il generale ordinava al suo capo di stato
maggiore, tenente colonnello di San Marzano di porsi alla testa dei tre
squadroni di cavalleggeri di Saluzzo, muovere in ricognizione e portare
soccorso, occorrendo, a S. A. R. Il tenente colonnello di San Marzano si
slancia alla testa dei suoi bravi squadroni si avventa contro la
cavalleria nemica che tentava sfondare i quadrati della fanteria della
divisione del principe e concorre a decimarla; per questo fatto
brillante Di San Marzano veniva decorato della Croce di Ufficiale
dell'ordine militare di Savoia.

Nel frattempo l'attacco da parte degli austriaci era divenuto generale.
Fino alle 4 pomeridiane si combattè dando i nostri prova di indomabile
resistenza contro un nemico assai superiore in numero, perchè quasi la
metà delle nostre forze, al comando del Cialdini, era rimasta sulla
destra del Po colle armi al piede.

Alle 5 tutto il 7º corpo austriaco appoggiato da una brigata del 5º
corpo, dopo di essersi fatto padrone di Sommacampagna, assaliva le poche
truppe italiane per sloggiarle dalle alture di Belvedere, che
eroicamente difendevano. Ottomila dei nostri, sebbene spossati dalle
marcie e dai lunghi combattimenti, tenevano testa a forze tanto
soverchianti nemiche che ben presto sommarono a più di venticinquemila.
I nostri non cedevano, la lotta continuava sempre più accanita, furiosa,
con gravissime perdite da ambo le parti. Ma nuove forze subentravano e
il nemico ingrossava, premeva sempre più, e i nostri furono obbligati a
ripiegare.

Il 29º reggimento e il 18º bersaglieri assaltarono risolutamente la
Mongabia e il Monte Cricol.

Erano 20 compagnie sostenute dal fuoco di otto cannoni che andavano ad
assalire 25 compagnie austriache con otto pezzi, in fortissime
posizioni. Di contro alla parte orientale del Monte Cricol, il generale
Willarey colla 5ª compagnia del 30º si avanzava tenendo alto il
berretto e gridando _Viva il Re_, quando, colpito da tre proiettili
cadde fulminato. Ma quelle alture con tanto accanimento difese, furono
dai nostri valorosi conquistate; e le truppe della brigata austriaca
furono obbligate ad una ritirata scompigliata, con l'abbandono di due
cannoni e tre carri di munizioni rovesciati.

Il Casale di Mongabia veniva occupato dal maggiore Raiola-Pescarini con
tre compagnie del 29º reggimento.

Il generale Govone che era stato mandato dal Re sulle alture di monte
Torre con la brigata Alpi, vide quanto vantaggio poteva ricavare da
questa posizione, ove aveva raccolto tutta la sua artiglieria. Per primo
scopo si prefisse di conquistare Custoza. Fece piazzare tutte tre le
batterie coi tiri rivolti contro quel villaggio; ordinò che il 34º
bersaglieri (maggiore Pescetto) muovesse ad aiutare i granatieri che
combattevano per riprendere quella posizione.

L'effetto di quel potente fuoco d'artiglieria fu grande. Il 34º
bersaglieri superò con mirabile slancio l'erta scoscesa del poggio di
Custoza, di contro alla testa del Monte Torre, raggiunse i valorosi
della 3ª Divisione, e al suono delle trombe si slanciò insieme a
quelli, entro il villaggio, impegnando contro gli Austriaci lotta
accanita.

In quel momento arrivava dalla parte di Villafranca, inaspettato
rinforzo, la seconda batteria a cavallo comandata dal valoroso maggiore
Ponzio-Vaglia.

Giungendo sull'alto del poggio all'entrata sud-occidentale del
villaggio, la testa della batteria urtava in un forte drappello di
cavalleria Austriaca e ussari di Baviera; il maggiore Ponzio-Vaglia
riuniti intorno a sè i serventi dei pezzi, cui si aggiunsero gli
ufficiali della batteria, carica furiosamente la cavalleria austriaca,
la rompe, la mette in fuga, facendone alcuni prigionieri.

Infine gli austriaci sono obbligati a ritirarsi in rotta verso il
Belvedere.

Rimasti padroni di quella posizione, bersaglieri e granatieri
impegnarono il fuoco contro i nemici appostati in Val Busa, nel
cimitero, nella chiesa, nel palazzo Maffei e sul poggio soprastante.

Il maggiore Ponzio-Vaglia ordinava al capitano Perrone di condurre i
suoi cinque pezzi in aiuto dei combattenti nel villaggio di Custoza
contro il nemico, appostato fortemente a Belvedere.

Appena impadronitosi di Custoza il generale Govone mandava avviso al
generale della Rocca, cui diceva di inviare colà altre truppe per
fronteggiare quelle assai numerosa del nemico che sempre più ingrossava
e col quale il combattimento era seriamente impegnato.

Digraziatamente la 3ª divisione (Brignone) assalita da forze
preponderanti, era stata costretta ad abbandonare le importantissime
posizioni del Monte della Croce e di Monte Torre. L'annunzio fu doloroso
assai pel generale La Marmora il quale, vista l'importanza di esse,
ordinava al generale Cugia di affrettarsi a portare soccorso a quella
divisione, muovendo verso le alture ed ordinava al colonnello Ferrari,
comandante del 64º fanteria, di seguire senz'altro la mossa.

Intanto il generale Govone che aveva obbligato gli austriaci ad
abbandonare non solo Belvedere ma anche le posizioni di Monte Molimenti
e Cavalchina, ordinava alle sue brave truppe di marciare alla conquista
di quelle posizioni, che alle 2 1/4 pom. furono in mano dei nostri.

20 compagnie stavano ora su quelle alture dinanzi a Belvedere sino a
Bagolino. Urgeva apparecchiarsi a gagliarda difesa su quelle
importantissime posizioni e sopratutto coprirle di artiglieria; ma tempo
e mezzi mancavano.

Il generale austriaco Moroicic riceveva ordine dell'arciduca di muovere
le sue due brigate di riserva ed impadronirsi nuovamente di Custoza.
Erano passate le 3 pom. e le nostre truppe non avevano alcun sentore di
quella mossa che doveva dare il crollo alla battaglia. Alle 3 1/4
ricominciava il fuoco dell'artiglieria nemica più violento che mai.

Nell'udire il forte rumore della battaglia sulle alture di Custoza il
generale Bixio mandava il suo capo di stato maggiore colonnello di San
Marzano, a chiedere al comandante del corpo se poteva muoversi in
soccorso. Anche S. A. R. Umberto mandava a prendere ordini, e ricevevano
quello di rimaner fermi nelle loro posizioni. Infatti il generale della
Rocca interpretando gli ordini ricevuti dal La Marmora nel più stretto
senso, non si credette autorizzato ad un atto spontaneo di vigorosa
controffensiva.

Vedendo addensarsi rapida tanta massa d'armati attorno a Belvedere, il
generale Govone fa scendere dal Monte Torre il 27º bersaglieri e lo
spinge contro la sinistra del nemico; ordina al generale Bottacco di
fare avanzare il 36º reggimento sulla destra ad est di Custoza. Il
combattimento infuria; le nostre quattro batterie dal Monte Torre,
tirando a mitraglia, fanno strage dei nemici; ma il numero di questi è
stragrande e i vuoti si riempiono in un attimo. I nostri sono esausti di
forze, e vengono meno le munizioni; il nemico ingrossa e preme sempre
più; non è possibile resistere più a lungo, le nostre perdite sono
enormi; il maggior Fezzi cade ferito a morte, sono feriti gravemente i
tenenti Salini e Tornaghi, il capitano Alberi è ucciso, il capitano
Serratrice e il maggiore Lavezzeri feriti. Anche il capitano di stato
maggiore Biraghi è ferito gravemente. Gli Austriaci occupano l'altura
sovrastante a Valle Busa; i nostri, sempre combattendo, sono costretti a
scendere verso la chiesa e il cimitero; i due cannoni della batteria a
cavallo rimangono nelle mani del nemico.

Intanto il generale Moroicic aveva fatto piazzare sulle alture di
Belvedere e di Monte Molimenti le batterie delle due sue brigate e tre
altre della riserva e, d'accordo con quelle del 9º corpo batteva
furiosamente Custoza, monte Torre e il Monte della Croce, quindi
ordinava un attacco generale che divenne formidabile per la gran massa
degli assalitori.

I difensori di Custoza si sforzano di tener fronte al nemico col fuoco e
con cenni di contrattacco sotto la tempesta dei proiettili, tramezzo
alle case che ardono e minacciano rovina. Il colonnello Marchetti eccita
i suoi a resistere; la batteria a cavallo ha finito le munizioni; il
tenente Polloni ne protegge la ritirata. Granatieri, bersaglieri e
fanteria del 51º e del 35º combattono furiosamente; il generale Bottaco
dirige impavido il combattimento; ma ogni più lunga resistenza non è
possibile; troppo è grande la soverchiante forza nemica.

Frattanto il generale Govone ha avuto risposta da Villafranca che nessun
soccorso può essergli mandato; la sua artiglieria è all'ultimo colle
munizioni; il capitano Gatti, del suo seguito, è ucciso al suo fianco,
il capitano Nasi ferito gravemente.

Le sue truppe non possono più reggere il peso della battaglia divenuto
enorme. Non gli rimane un momento da perdere se vuole salvare la sua
Divisione dalla terribile conseguenza degli attacchi di fronte e di
fianco. Comanda la ritirata su Villafranca. Manda ufficiali a fare
riordinare dietro la casa Coranini i retrocedenti per avviarli in
colonna di marcia sulla strada; i colonnelli Cravetta e Di Salasco sono
ordinati sui fianchi della strada per agevolare e coprire la ritirata
dell'artiglieria e della fanteria.

Il movimento si eseguisce con tanto ordine, quanto è possibile in simili
casi, sotto il micidiale tiro delle artiglierie situate nelle alture; e
qualche centinaio di valorosi rimasti a contatto col nemico in Custoza e
nel bosco, assicurano, con un ultimo sforzo di difesa, la ritirata.

Così finisce verso le 6 pom. la battaglia di Custoza combattuta con
straordinario valore.

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                                   * *

Mentre questo avveniva a Custoza e nelle alture di Belvedere e di Monte
Croce, il comandante del 7º reggimento bersaglieri, maggiore Giolitti,
segnalava la comparsa di grosse masse di truppa nemica sulle alture di
là di Val di Staffolo. Il generale Cugia spediva avviso al Comandante
del 3º corpo della minaccia d'imminente attacco di forze preponderanti,
facendogli presentire l'impossibilità di mantenersi in quella posizione.
Il generale Della Rocca gli mandava ordini di ritirarsi in direzione di
Villafranca.

Il generale Della Rocca comprendendo che il momento finale era giunto,
dava le disposizioni per la ritirata verso il Mincio; la divisione Bixio
e la cavalleria di riserva doveano coprirla.

La fermezza del generale Bixio e delle sue truppe assicurarono la
ritirata del 3º Corpo di armata ed egli stesso si affrettò poi ad
occupare Quaderni, per impedire al nemico di penetrare tra Villafranca e
Valleggio.

Il combattimento del 24 giugno non fu affatto disonorevole per le truppe
italiane. Il campo di battaglia rimase in parte agli austriaci, in parte
a noi, e se noi ci ritirammo, si ritirarono essi pure.

Le nostre perdite furono sensibili, ma quelle del nemico furono
maggiori. La maggior parte dei nostri combattenti fecero prodigi di
valore, tanto è vero che gli austriaci, persuasi che l'armata italiana
non è inferiore ad alcun altra, si astenne dal cimentarsi a molestare e
ad impedirne la ritirata. Nove divisioni non avevano potuto prender
parte a quel combattimento; due rimaste per ordine superiore a
Villafranca; quella comandata da S. A. Reale il principe Umberto e
l'altra comandata dal generale Bixio; e sette divisioni con 176 cannoni
rimaste sul Po, sotto gli ordini del generale Cialdini.

La giornata di Custoza non ebbe la grande importanza che, gli si volle
attribuire; tanto è vero che il 17 luglio le truppe sotto agli ordini di
Cialdini passato il Po, costringevano la guarnigione di Borgoforte ad
abbandonare quella forte piazza per ritirarsi in Mantova.

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                                   * *

Per i volontari comandati da Garibaldi l'ordine di ritirarsi dalle
posizioni conquistate era stato doloroso, ma bisognava ubbidire.

Il generale senza esitare, con la sua abituale rapidità, ordinò alle sue
truppe di abbandonare i posti occupati e con tanto valore difesi, e li
disponeva fra Brescia e Lonato.

Nella notte del 25 il comandante della flottiglia ordinava ad Elia di
sbarcare tutto il materiale di guerra della sua cannoniera e di
avvertire di non lasciare a bordo palle esplodenti; poichè dovevasi dar
fuoco alla flottiglia e distruggerla.

Elia ubbidì quanto allo sbarco del materiale, che poteva essere stato
richiesto dal Generale come necessario alla difesa di Brescia, ma
credette di non poter egualmente permettere si abbruciasse la sua
cannoniera. Raccomandò ai marinari del «Torrione» di fare buona guardia
e, coll'autorità che gli dava il suo grado superiore, ordinò ai
comandanti delle altre cannoniere di non dare esecuzione ad alcun
ordine, che potesse compromettere la salvezza del naviglio loro
affidato. Fatto ciò egli si diresse alla residenza del Capo di Stato
maggiore e, trovato il generale Fabrizi ed il colonnello Guastalla,
chiese loro quali erano gli ordini per la flottiglia e saputili, domandò
carta bianca, ripromettendosi d'impedire che essa cadesse in mano agli
austriaci, senza che vi fosse bisogno d'incendiarla e di distruggerla.
Sua intenzione era di adoperare il sistema, che ebbe a riuscirgli così
bene a Marsala col «Lombardo» di aprire all'ultimo estremo i rubinetti
alle macchine per farle affondare. Avuta tale facoltà, mantenne una
attivissima sorveglianza per non essere sorpreso dal lato del lago,
mentre il colonnello Bruzzesi prendeva le sue precauzioni dal lato di
terra, e non essendo accaduto nulla di straordinario, la flottiglia fu
salvata con soddisfazione grandissima del generale Garibaldi, che alla
notizia avuta della sua distruzione era andato su tutte le furie.

Venuto il giorno dopo a prendere il comando di Salò il generale
Avezzana, questo con insistenza pregava Elia di accettare il comando
della flottiglia, e sebbene a malincuore, perchè gli doleva lo stato di
quasi inazione a cui era condannato, pur nondimeno dovette ubbidire,
perchè alle istanze del generale Avezzana vi si aggiunse il comando del
generale Garibaldi, che, venuto a bordo della cannoniera _Torrione_ gli
faceva elogio per la salvata flottiglia e gli ordinava di prenderne il
comando. L'Elia non poteva rifiutarsi e chiese ed ottenne per suo Capo
di Stato maggiore il capitano, amico suo carissimo, Alberto Mario.

Ebbe poi delle segrete ed importanti missioni di fiducia d'ordine del
generale Garibaldi e da lui personalmente. La prima affidatagli fu
quella di recarsi in incognito ad esplorare se erano vere alcune mosse
del nemico riferite al Capo di Stato Maggiore, e nel tempo stesso di
vedere se era fattibile impossessarsi di un vapore che gli Austriaci
avevano in costruzione a Desenzano, ciò che fu impossibile perchè il
vapore non era ancora interamente allestito: ecco la lettera con la
quale gli dava l'incarico.

          «Caro Colonnello,

«Ecco le due guide di tutta confidenza. Ho già detto loro qualche cosa.
Quando crederete voi direte il resto. La vettura sarà alla vostra porta
tra pochi minuti. Buon viaggio e felice ritorno con più buone notizie.
Il sotto Capo di Stato Maggiore. E. Guastalla».

Altre missioni di Garibaldi al Ministero con lettere e con istruzioni
riservate l'Elia condusse a termine con soddisfazione del generale.

Come si è già visto la battaglia del 24 non portò conseguenze gravi come
sulle prime dava a temere.

Il generalissimo austriaco non si sentì abbastanza forte da
arrischiarsi ad altri attacchi dopo la ben contrastata vittoria (se pur
vittoria poteva chiamarsi) e, salvo qualche piccola ricognizione, si
tenne nel quadrilatero.

                                    *
                                   * *

Il 1º luglio ricevuto il rinforzo di tre dei cinque reggimenti che si
stavano organizzando, il generale Garibaldi, lasciato buon presidio a
Brescia ed a Lonato, disponeva il movimento in avanti per riprendere,
con nuovo sangue dei suoi, le posizioni che gli era stato ordinato dì
abbandonare.

Il giorno 2 di luglio il colonnello Corte ebbe l'ordine di muovere verso
Rocca d'Anfo. La sera pernottava a Vestone ed alla mattina riprendeva la
marcia. Verso il mezzogiorno veniva avvertito che una compagnia di
bersaglieri, comandata dal capitano Evangelisti e sotto la direzione del
capitano di Stato Maggiore Bezzi aveva ricevuto ordine di girare attorno
alla Rocca e di piombare dalla cima dei monti sugli austriaci che
occupavano S. Antonio e le falde orientali di Monte Suello.

Arrivata la colonna in prossimità di S. Antonio venne attaccata dai
Cacciatori austriaci, appostati sulle falde del monte e distesi lungo
lo stradale. Ma non per questo i nostri rallentavano la marcia. Arrivati
sulle alture vi prendevano posizione e piazzati 4 cannoni aprivano
contro gli austriaci un fuoco così ben nutrito da obbligarli a ritirarsi
sul Monte Suello. Nel fatto mostrarono valore e sangue freddo il tenente
colonnello Bruzzesi e il maggiore Mosto; si comportò da valoroso il
sottotenente Coralizzi che veniva decorato al valore militare.

A mezzanotte dal 8 al 9 la brigata Corte si mise in marcia per i monti
del Tirolo; giunta sull'erta del Monte Poino vi fece l'alto e furono
prese disposizioni per il combattimento.

Il 3º reggimento fu mandato in ricognizione verso Storo, ove si sapeva
accampato un corpo austriaco forte di 4000 uomini.

Sull'albeggiare del giorno 9 una colonna di 2000 austriaci con
artiglieria si mosse contro i nostri attraverso la via che mena a Rocca
d'Anfo.

Queste mosse vennero segnalate a Garibaldi che montato tosto in carozza
arrivò fra le file dei volontari; egli stesso li dispose pel
combattimento mettendoli in avanzata, ben fiancheggiati e protetti dal
cannone; giunti i garibaldini a contatto col nemico il generale ordinava
senz'altro la carica alla baionetta che eseguita brillantemente
sbarragliava e travolgeva a precipitosa fuga, gli austriaci, inseguiti
dai nostri fin sotto ad Arzo.

Il giorno 10 gli austriaci vollero prendere la rivincita, ma anche
questa volta furono bravamente respinti e, costretti ad abbandonare Arzo
si ritirarono su Storo.

Si procedeva allora dal generale Garibaldi all'espugnazione del forte
d'Ampola.

La notte del 18 con ardimento rarissimo un battaglione del 9º
reggimento, comandato da Menotti Garibaldi, dopo avere marciato più ore
in silenzio e con ogni sorta di cautele occupava Monte Burelli e Monte
Giove. Colla occupazione di quelle alture il forte d'Ampola rimaneva
completamente circondato.

Alle 2 pomeridiane dello stesso giorno il forte si arrendeva senza
condizioni.

Anche in Val Camonica ebbe luogo un fatto d'armi molto onorevole pei
pochi volontari che vi presero parte.

Il maggiore Caldesi comandante del 1º battaglione del 4º reggimento,
aveva preso posizione nella stretta di Incudine sopra Edolo e vi si era
afforzato con opere di difesa campale, valendosi di due pezzi di
artiglieria del 44º battaglione di Guardia Nazionale Mobile della
legione Guicciardi forte di circa 450 uomini, d'un drappello di
doganieri e di alcuni carabinieri.

Il 1º luglio giungeva a Breno il luogotenente colonnello Cadolini cogli
altri tre battaglioni del 4º reggimento e il 2º battaglione bersaglieri;
e la mattina del 2 si recava ad Incudine; visitava le posizioni e dava
altre opportune disposizioni di difesa; ordinava un miglior collocamento
dell'artiglieria e la costruzione di un ponte nell'Oglio per poter
padroneggiare anche il versante sinistro della Valle, prescrivendo al
maggiore Caldesi di tenere quella posizione ad ogni costo, e ad ottenere
tale effetto gli annunziava l'invio del 2º battaglione bersaglieri.

Predisposto ogni cosa ripartiva per Edolo onde fare avanzare le altre
sue truppe. Ma camin facendo gli venne avviso che un corpo di 5 mila
austriaci irrompeva pel passo di Croce Domini su Breno. Arrivato ad
Edolo spediva ordine telegrafico a Breno perchè i tre battaglioni
occupassero subito Campolare nella Valle delle Valli di contro allo
sbocco di Croce Domini, e dopo di aver spedito il 2º battaglione
bersaglieri ad Incudine e dato ordine al Castellini che lo comandava di
porsi alla dipendenza di Caldesi, lasciava Edolo e alla mattina del 3
era a Campolare; visto che nessun nemico era calato da Croce Domini ed
avendo saputo che di là del monte eravi buon nerbo di nemici, decise di
lasciare a Campolare un battaglione, il 4º, e ricondusse gli altri due a
Breno.

Frattanto il maggiore Caldesi aveva collocato il 2º bersaglieri nel
Casale di Davena, a mezza via tra Incudine e Vezza, con ordine di
assicurare la ritirata alla sua compagnia che stava agli avamposti a
Vezza e, se il nemico si fosse avanzato con grosse forze, ritirarsi
tutti alla posizione di Incudine.

Nel corso della notte vi fu qualche allarme; si disse al Caldesi che 7
mila austriaci stavano per piombargli addosso, ed egli chiedeva per
telegrafo rinforzi al Cadolini mentre ordinava al Malagrida di
abbandonare il posto avanzato di Vezza e di ritirarsi assieme al
maggiore Castellini su Incudine.

Il Malagrida ubbidì, non così il Castellini che gli ordinava invece di
rioccupare la posizione abbandonata; senonchè nel frattempo gli
austriaci si erano avanzati, e trovato sgombro il villaggio di Vezza, lo
avevano occupato fortemente e piazzati in batteria i loro cannoni.
Quando il Malagrida, ubbidendo agli ordini del Castellini si presentava
avanti il villaggio, veniva accolto da vivo fuoco nemico; non si scosse
per questo il bravo ufficiale, ma ordinò ai suoi di distendersi in
catena e di muovere arditamente avanti; intanto sopraggiungevano i
rinforzi dei bersaglieri comandati dai capitani Adamoli e Frigerio; il
combattimento divenne allora accanitissimo; il nemico si addensava
sempre più e il Caldesi visto che la posizione era insostenibile mandava
ordini di ritirata. Ma il prode Castellini non volle darsi per vinto.
Comandata la carica alla baionetta si slanciò per primo; impetuoso fu
l'assalto, ma una grandine di fuoco di fucile e di mitraglia arrestava
la foga dei nostri bravi che venivano decimati. Il prode Castellini
cadeva colpito nel braccio, nel volto e nel petto; il bravo Frigerio
cadeva egli pure colpito per non più rialzarsi. Gli assalitori si
ritrassero alquanto per riprendere fiato; erano stanchi si, ma non
iscoraggiati; si appostarono rispondendo colpo a colpo; ma, ultimate le
munizioni, dovettero cedere e ritirarsi dietro ordine del capitano
Oliva, che per la morte del Castellini aveva assunto il comando. Anche
il maggiore Caldesi erasi ritirato da Incudine e si era fermato a
Cedegolo, dietro ordine del tenente colonnello Cadolini, ove venne
raggiunto dall'Oliva coi suoi bravi che nel combattimento impari,
avevano mostrato grande valore e fermezza.

Il 10 luglio il tenente colonnello Bruzzesi rafforzato dal 2º
battaglione del 9º reggimento e da una batteria del maggiore Dogliotti,
cacciava gli austriaci da Lodrone e si spingeva ad Arzo posizione
migliore.

Padroni del forte d'Ampola i garibaldini mossero in avanti verso la
gola, sulla sommità della quale si trova il villaggio di Tiarno di
sopra, mentre più in basso vi è l'altro che si noma Tiarno di sotto.

Avanti a quest'ultimo si apre la stretta valle alla cui sinistra si
trova Bezzecca, oltre la quale la valle si stringe ancor più,
chiudendosi da monti e dal villaggio di Pieve al di là del quale
comincia il Lago di Ledro.

La mattina del 20 due compagnie del 2º reggimento, tre del 7º, un
battaglione del 6º ed il 1º bersaglieri occupavano Tiarno di sopra;
poco dopo vi prendeva posizione pure il 9º comandato dal colonnello
Menotti Garibaldi. Il 5º reggimento si collocava a Tiarno di Sotto,
spingendo i suoi avamposti fino a Bezzecca.

Era necessario impedire al nemico che si trovava dietro i monti,
d'avanzare per la valle di Concei, giacchè superando Bezzecca avrebbe
tagliato fuori il 2º reggimento, respinto probabilmente gli altri alle
gole d'Ampola, e ponendosi nelle montagne fra questa e Lardaro, avrebbe
minacciato seriamente i fianchi delle due linee di operazione.

L'attacco del giorno seguente provò che tale appunto era il progetto
tattico del nemico.

Il generale Haug prevedendo questo disegno piantò il suo quartier
generale a Bezzecca, incaricando Pianciani di portare a Garibaldi il suo
rapporto.

Il generale Garibaldi arrivava in fretta e poneva il suo quartier
generale a Tiarno e subito ordinava che un battaglione del 5º occupasse
i villaggi della valle di Concei, e si collocasse nelle case onde meglio
respingere l'avanzarsi del nemico. Ordinava che un altro battaglione
prendesse buona posizione sul Tratt e sull'altura di faccia a Bezzecca
per chiudere lo sbocco verso Pieve; gli altri due battaglioni del 5º
pronti al far del giorno per guarnire i monti a dritta ed a sinistra
della valle di Concei: queste disposizioni, però, non furono eseguite
colla prontezza e coll'esattezza necessarie, per cui il battaglione
mandato sul monte di destra, trovata la posizione occupata dal nemico fu
sperso e molti restarono prigionieri.

La giornata del 21 cominciava così con triste preludio.

Gli austriaci con grosse forze comandate dallo stesso generale Kühn si
accingevano a furioso attacco.

Il generale Haug comprese subito che la sua diritta era insostenibile,
sebbene vi avesse fatto collocare dal Pianciani tutto quello che vi era
di disponibile: mandava quindi il Pianciani stesso ad informarne
Garibaldi e lo incaricava di ordinare a Menotti di portarsi col suo 9º
reggimento rapidamente sul monte di sinistra, e che il 2º reggimento
avesse avanzato dal Pieve circa un chilometro e mezzo in appoggio della
destra. Se questo movimento si fosse effettuato come era ordinato, il
nemico ne sarebbe rimasto accerchiato. Ma il 2º reggimento non si mosse
e l'esito mancò.

Si dovette però alla fulminea esecuzione della disposizione datagli, e
al coraggio insuperabile del colonnello Menotti Garibaldi, se la
vittoria finì per essere dei garibaldini.

Il colonnello Chiassi per porre riparo al tardato movimento del 5º ed
alla mancata mossa del 2º reggimento si avventò contro il nemico con
furia irresistibile; alla carica fulminea il nemico s'arresta, cede ed
accenna a ritirarsi in disordine, quando nel momento decisivo l'eroico
Chiassi è colpito a morte.

Al vedere caduto il loro comandante i nostri rallentano l'offesa,
ondeggiano, incominciano a dare indietro e a disordinarsi. In quel
momento giungeva sul posto il generale Garibaldi in carozza, ed
abbracciato col suo colpo d'occhio sicuro il campo di battaglia, mandava
avviso a Menotti di scendere dall'altura col suo 9º reggimento, per
approntarsi a disperato attacco.

In pari tempo ordinava che si raccogliessero gli avanzi del 5º
reggimento e con quante altre truppe può avere sotto mano, e coi
bersaglieri che avevano fatto prodigi di valore, dava le disposizioni
per una disperata e decisiva lotta affine di sloggiare gli austriaci.

Intanto questi non solo si erano resi padroni di Bezzecca, ma, sbucati
fuori dal villaggio, avevano coronate le alture della loro artiglieria e
si preparavano ad un formidabile attacco contro l'estrema linea
garibaldina.

Il pericolo era gravissimo, la strada di Tiarno era tempestata dal
nemico e Garibaldi stesso veniva fatto bersaglio ai loro colpi. Le palle
guizzavano, rimbalzavano e ravvolgevano in un nembo di polvere la sua
carrozza; uno dei cavalli era ferito a morte, una delle guide che la
scortava (Giannini) cadde morta, altre hanno feriti i cavalli; i suoi
aiutanti volevano strapparlo da quel posto mortale e salvare lui, se non
è possibile vincere. Ma Garibaldi aveva sul volto la calma di
Calatafimi! «Qui si vince o si muore» e comandava, incoraggiava, spediva
ordini, secondato dagli ufficiali del suo quartiere generale, sopratutto
da Canzio, dal Miceli, dallo Stagnetti, dal Damiani e dalle guide tra le
quali l'Amadei che in tutta quella giornata si era moltiplicato per
trovarsi sempre presente dove maggiore era il pericolo; i carabinieri
genovesi condotti dal Mosto, sempre primo nei replicati attacchi,
seguito dai suoi valorosi Burlando, Stallo, senza cessare di combattere,
facevano cerchio attorno al generale per coprirlo dalla furiosa pioggia
di proietti che tempestava la posizione.

Intanto il maggiore Dogliotti aveva mandato ordine che si portassero sul
posto la batteria di riserva e gli altri pezzi che si erano dovuti
ritirare; appena arrivati il generale ordina che al galoppo vadano a
piazzarsi su una posizione che esso stesso indica, ed il maggiore
eseguisce l'ordine; in un baleno i cannoni sono a posto ed aprono il
fuoco convergente su Bezzecca. Le dieci bocche dirette mirabilmente dal
Dogliotti produssero il loro terribile effetto. Il nemico sfolgorato
dentro Bezzecca, incalzato dal 9º reggimento guidato da Menotti
Garibaldi che fa miracoli di valore, dal 7º, dai resti del 5º e da
quanti altri eransi ivi raccolti per ordine del generale, incalzano
furiosamente il nemico e lo costringono a cedere, e a disperdersi. Per
tanto eroismo il colonnello Menotti Garibaldi e la bandiera del suo 9º
reggimento venivano decorati della medaglia d'oro al valore militare.

Ma nulla valeva finchè Bezzecca non era presa. Questo il Duce voleva e
quanti sono intorno a lui lo comprendono e più che altri, Menotti,
Canzio, Missori, Mosto, Damiani, Cariolato, Guerzoni, Bedischini,
Miceli, Stagnetti, Amadei, Politi, Tosi, Ficola, Stangolini, Proia,
Buratti, Dubois, Bonacci, Gattoni, Popovich, Nani, Lizzani, Giorgi,
Fallani, Gatti, Giammarioli, Luperi, Galletti, Restivo ed altri, che
formano una falange votata alla vittoria od alla morte; di questa
falange si pone alla testa Ricciotti Garibaldi che fa da prode le sue
prime armi; il bravo giovanetto degno figlio del padre, afferra la
bandiera del 9º reggimento comandato dall'eroico suo fratello Menotti, e
con questa in pugno, mentre i cannoni del Dogliotti mandano in fiamme
Bezzecca, a testa bassa, lui e tutti i valorosi che si erano stretti
attorno al generale, a passo di carica, si slanciano sul villaggio e con
lotta terribile, corpo a corpo rompono, sgominano gli austriaci, li
mettono in fuga precipitosa e li inseguono colla punta della baionetta
alle reni fin al di là di Lesumo.

Così la vittoria, con tanto accanimento contrastata fu violentemente
strappata su tutta la linea.

                                    *
                                   * *

Il 5 luglio, il generale portava il suo quartiere Generale da Rocca
d'Anfo a Bagolino.

Il 7 luglio i garibaldini respingevano una forte ricognizione della
brigata Thoun, che si era spinta fino a Lodrone, e tre giorni dopo
ributtavano brillantemente un secondo attacco di quella brigata, e sotto
gli occhi di Garibaldi, la mettevano in fuga.

Intanto la flottiglia del Lago di Garda non stava inoperosa.

La flottiglia austriaca, che poteva considerarsi padrona assoluta del
lago perchè molto poderosa, tenevasi tra Bardolino e Garda alla punta di
S. Vigilio sotto la protezione di quei forti. Elia con la sua cannoniera
«Torrione» si portava a molestarla sotto il tiro dei forti, prendendola
a bersaglio col suo cannone, ritirandosi quando vedeva che le navi
austriache abbandonavano le àncore per inseguirlo, tenendo avanti il
nemico diritta la prua corazzata, ordinando macchina indietro a poco a
poco, con la lusinga di poterle attirare sotto i forti di Salò.
Tentativi vani!

Il 15 di luglio si addivenne alla formazione regolare delle brigate,
come alla proposta del generale Garibaldi portata al Ministero dal
colonnello Elia.

Vennero formate così:

    lª Brigata 2º e  7º reggim. magg. gen. Haug
    2ª    »    4º e 10º    »      »        Pichi
    3ª    »    5º e  9º    »      »        Orsini
    4ª    »    1º e  3º colonn.  brigad.   Corte
    5ª    »    6º e  8º    »      »        Nicotera

Al comando di Salò il ten. gen. Avvezzana.

Capo di Stato maggiore Augusto Vacchi.

Fu ordinato che l'8º reggimento movesse da Vestone per raggiungere a
Condino il 6º col quale doveva formare brigata.

Nella stessa mattina del 15 il brigadiere Nicotera aveva occupato
Condino col 6º reggimento e l'8ª batteria del 5º reggimento
d'artiglieria (capitano Afan di Rivera). Nella giornata ricevette
l'ordine di portarsi a Cimego; per cui il luogotenente colonnello
Sprovieri muoveva a quella volta da Condino col 3º e 4º battaglione del
6º reggimento e una sezione dell'8ª batteria.

Il brigadiere Nicotera avevagli ordinato di porre un battaglione a
Cimego e coll'altro occupare le alture che signoreggiano il ponte sul
Chiese e farvi piazzare i cannoni.

Si aveva notizia che a Cimego non vi erano austriaci, ma passato appena
lo sbocco della valle Averta, verso le 10, la colonna Sprovieri fu ad un
tratto investita da fucilate dalle alture soprastanti che ferivano
alcuni senza che si potessero scoprire i feritori; fu continuata la
marcia e nella notte lo Sprovieri giungeva a Cimego ove riuniva il suo
piccolo corpo in ordine ristretto.

All'alba del 16 il brigadiere Nicotera mosse da Condino col rimanente
della colonna. Nella stessa ora gli austriaci con grandi forze movevano
ad assaltare le nostre posizioni avanzate da tre parti convergenti, da
Cologna, da Val di Daone, da Pieve per Tiarno e Monte Giove verso
Condino, coll'intendimento di attorniare i nostri e distruggerli.

Erano le ore 8 ant. quando cominciò il combattimento. Il brigadiere
Nicotera aveva ordinato al 4º battaglione di slanciarsi ad occupare le
alture di la del Chiese; prima però che il battaglione giungesse al
ponte, l'artiglieria nemica cominciò a fulminarlo e una grossa colonna
di austriaci si distendeva di corsa sulle alture di faccia al ponte ed
al villaggio di Cimego.

Il maggiore Lombardo comandante il 1º battaglione del 6º reggimento,
destinato alla riserva, visto il pericolo che correva il 4º, corre di
moto proprio al 3º battaglione che stava allo sbocco del villaggio e
gridando «avanti» trasse seco i volontari e primo si lanciò sul ponte
ove cadde fulminato. Una palla gli aveva traversato il cuore.

Il Nicotera volle ad ogni costo allontanare il nemico da quelle alture;
a questo scopo ordinava al 4º battaglione di scacciarnelo. Si mise alla
testa del battaglione il valoroso tenente colonnello Pais-Serra, il
quale ordinava si attraversasse il fiume a guado e con grande ardimento,
i bravi si slanciano sulle alture sotto il fuoco micidiale del nemico.

I garibaldini fecero sforzi eroici per snidare il nemico dall'elevata
posizione, ma dovettero cedere a forze tanto prevalenti e sempre
combattendo ritirarsi protetti dall'artiglieria.

Intanto altre masse austriache venivano ad assalire le alture di Narone,
per battere la nostra sinistra; il capitano Bennici sostenne con grande
valore il combattimento sulla vetta del Narone, ma visto il pericolo di
essere avviluppato da forze tanto superiori, dovette ritirarsi colla
sua compagnia volante e la 3ª compagnia bersaglieri. Il colonnello
Guastalla e il maggiore Lobbia dello Stato maggiore, che assistevano al
combattimento, visto il pericolo che correvano le compagnie distaccate
sulla sponda sinistra del Chiese ordinarono un cambiamento di fronte a
destra indietro sempre combattendo. Il generale Garibaldi accorso in
vettura mandava un battaglione del 9º reggimento ad occupare Condino ed
ordinava all'artiglieria di piazzarsi dinnanzi al villaggio a mezza
costa delle alture di Brione; il fuoco di 10 pezzi trattenne il centro e
la sinistra degli austriaci. Intanto i generali Garibaldi e Fabrizi
provvedevano alla riscossa, e con forze combinate e con grande valore,
cacciavano gli austriaci da quelle alture e li mettevano in fuga tale,
che più non si arrestarono.

Ormai Garibaldi non temeva più ostacoli, e con le sue mosse progrediva
sempre per raggiungere l'obbiettivo dell'azione affidatagli;
l'occupazione del Trentino; per cui serrava d'appresso Riva, portava il
suo quartier generale a Cologna e incominciava l'investimento di
Lardaro.

Padrone delle due valli principali, che dal Garda salivano a Trento,
era ormai libero di spiegare tutte le sue forze e di marciare in
battaglia contro un nemico, che aveva esperimentato il valore
garibaldino. Intanto Medici alla testa di una forte colonna di truppe
regolari, si era avanzato vittoriosamente sino a Levico ed a Perzine,
per cui la vittoria finale e la presa di Trento era ormai sicura.

Senonchè il mattino del 25 luglio, quando tutto era pronto pel
bombardamento di Lardaro giungeva l'annunzio della sospensione delle
ostilità, preludio della pace.

Il 10 di agosto Garibaldi riceveva dal generale La Marmora il seguente
telegramma:

«Considerazioni politiche esigono imperiosamente la conclusione
dell'armistizio pel quale si richiede, che tutte le nostre forze si
ritirino dal Tirolo.

«D'ordine del Re».

Quale scossa abbia provato in quel momento il cuore dell'Eroe e dei suoi
compagni si può indovinare. Il Trentino perduto, Trieste abbandonata! Ma
Garibaldi non tradì neppure con un segno la tempesta che aveva nel
cuore, e rispose egli stesso al La Marmora: «Obbedisco».

La campagna per la liberazione del Veneto era finita ed i garibaldini si
accingevano a ritornare alle loro case.

Anche la flottiglia del Lago di Garda si scioglieva. Essa, sebbene in
condizioni immensamente inferiore alle forze austriache del Lago, seppe
compiere il proprio dovere durante la campagna, e se avesse avuto alcuni
altri giorni di tempo e ricevuto dal Ministero i cannoni richiesti per
armare una zattera ormai a termine di costruzione, avrebbe certo messo
tutto l'impegno per vincere la flottiglia nemica e per rendersi padrona
del Lago.

Che non mancò al suo dovere lo dicono i due ordini del giorno seguenti
del generale Garibaldi e del generale Avezzana comandante divisionale di
Salò:

                           ORDINE DEL GIORNO

                      mandato al generale Avezzana

                     Comandante divisionale a Salò

          Generale,

«Porgete una parola di lode ben meritata in nome della Patria e del Re
ai prodi della nostra flottiglia; essi hanno ben meritato col loro
esempio; e sotto il comando di voi, valoroso veterano dell'indipendenza
della patria, vedremo presto il Garda libero dalla dominazione
straniera.

          Salò, 10 agosto.

                                                  _G. Garibaldi_.

Ecco l'ordine del giorno col quale il generale Avezzana, già Ministro
della Repubblica Romana nel 1849, dava commiato agli equipaggi della
flottiglia.

                            ORDINE DEL GIORNO

«Gli equipaggi dei volontari che rimasero fino ad oggi a bordo della
flottiglia italiana nel lago di Garda, hanno ben meritato della patria.
Coraggio nello sfidare il nemico superiore nel naviglio, in macchine da
guerra, superiore in uomini. Virtù ed abnegazione negli ufficiali che
servirono come semplici militi. Ordine, nettezza nelle Piro-Cannoniere,
che il generale Garibaldi affidò alle loro cure.

«Fino al 12 luglio esse furono tre dinanzi al nemico, poi quattro ed in
ultimo cinque. Lo affrontarono arditamente nelle sue acque sotto il
fuoco delle batterie di terra e gli procacciarono uccisioni e danni.
Qui, dove erano i pochi ma valorosi uomini, il nemico non osò mai
venire. Unico vanto lo avere bombardato la inoffensiva città di Gargnano
e rubato il «_Benaco_» a quindici miglia dalla flottiglia, che non
poteva difendere l'inerme piroscafo mercantile.

«Io ricorderò sempre con militare orgoglio lo avere avuto ai miei ordini
il personale degli equipaggi volontari in questa guerra del 1866, forse
l'ultima della mia vita.

«S'abbiano tutti gli ufficiali e militi le mie sentite azioni di grazia.

          Salò, 21 settembre 1866.

                                         Il luogotenente generale

                                              _G. Avezzana_»

All'ordine del giorno, il generale Avezzana faceva seguire questa
lettera, diretta ad Elia:

          Al Colonnello A. Elia

       Comandante la flottiglia sul Lago di Garda.

Chi scrive è rimasto sommamente soddisfatto del modo come la S. V. ha
disimpegnato il suo compito nel comando delle forze galleggianti sul
lago di Garda. Ed aggiunge in verità come V. S. sendo comandante la
cannoniera «_Torrione_» nella calamitosa notte del 26 giugno salvasse
risolutamente la sua nave e le altre da prossima rovina, opponendosi ad
ordini stati verbalmente impartiti da chi allora comandava la
flottiglia. E di poi, insignito da chi scrive e poi confermato dal
generale Garibaldi nel comando supremo, s'ebbe in codesto incarico
l'elogio palese del salvato naviglio.

Lo scrivente, nell'attestare siffatte verità, offre alla S. V. i
sentimenti della sua stima e devozione.


     Salò, li 24 settembre 1866.

                                         Il luogotenente generale

                                          comandante divisionale

                                               _G. Avezzana_

Infine il 28 settembre l'Elia faceva la consegna della flottiglia.

                                      Salò, li 28 settembre 1866.

Il sottoscritto, incaricato dal Ministero di Marina di ricevere la
flottiglia sul Lago di Garda affidata provvisoriamente al Corpo dei
Volontari italiani, dichiara di aver ricevuto il materiale galleggiante
della flottiglia dal colonnello dei Volontari sig. cav. Augusto Elia,
presente il generale Avezzana e che ha trovato le cannoniere in ordine
e pulizia.

                                                 Il comandante

                                             _Napoleone Canevaro_

Gli ufficiali suoi compagni d'armi nella flottiglia; vollero dare al
loro comandante il seguente attestato di affetto:

             Al colonnello Augusto Elia

            gli ufficiali della Marina Volontaria.

«Radunati oggi per stringerci tutti uniti la mano, permettete, o
colonnello, che prima di separarci da voi v'indirizziamo una parola di
addio.

«Non è la serva parola di chi adula o di chi esprime un affetto
bugiardo, ma è la libera espressione di quanti amareggiati dalle memorie
del passato, si confortano nella speranza di un migliore avvenire.

«Dimentichiamo intanto per carità di patria le umiliazioni sofferte
sugli insanguinati campi di battaglia e nelle ingemmate aule della
diplomazia, e che ci perdonino questo supremo sacrifizio i martiri
invendicati di Custoza, di Tiarno e di Lissa!

«E noi pure confinati da tre mesi in questa riva, dove l'Eroe del popolo
ci destinava a gloriosi avvenimenti, dimentichiamo l'ingrata inazione a
cui ci si volle costretti, sfruttando tanta parte di entusiasmo e di
generosi propositi.

«Colonnello! Se il sangue delle battaglie non ha battezzato la nostra
camicia, voi ed i vostri bravi compagni, sul cui petto brilla la
medaglia dei Mille, potrete francamente attestare, come inferiori di
numero, di forze e nel difetto di tutto, sapemmo cimentare più volte un
nemico, che pur troppo insegnava a chi ci governa come si appresta una
guerra, mai a noi come si combatte, e si va incontro alla morte.

«Gli avvenimenti del 1866, non saranno però d'inutile peso nella
bilancia dei nostri destini, perchè la democrazia rifulse di una luce
più bella sulle alture di Custoza, fra le moschetterie del Tirolo, e in
mezzo alle vampe della eroica Palestro!

«Questo è il nostro conforto, Colonnello, e quando tornati alle nostre
case deporremo l'incruenta camicia rossa, giuriamo di vestirla quel
giorno, in cui il popolo armato insanguinerà nuovamente le vette del
Tirolo, e le coste di Istria, perchè qualunque straniero sappia, che
quel tremendo confine è il confine dell'Italia, indipendente e libera!

          Salò, 21 settembre 1866.

_Mario Alberto, Burattini Carlo, Gagliardi Guglielmo, Bandini
Temistocle, Bradicich Giuseppe, Viggiani Pompeo, Pegoraro Giuseppe,
Martini Narciso, Pedani Tito, Stramazzoni Cesare, Brenno Bandini,
Pacetti Luigi, Silvestrini Pasquale, Schiaffino Prospero, Bandini
Costantino, Baracchini Andrea, Venzi Cesare, Barbieri Alessandro,
Ghiglioni Lorenzo, Bocci Marino, Berardi Colombo, Camin Gaetano, Romani
Giovanni, Negrini Mariano_.

                                    *
                                   * *

Intanto che questi fatti si svolgevano in terra un avvenimento dei più
dolorosi avveniva nel mare Adriatico.

I migliori ufficiali della marina da guerra invocavano come loro Duce
supremo il Galli della Mantica, uomo di grande capacità, e di
straordinaria energia, ritenuto una vera tempra d'acciaio, capace di
ogni eroismo. Fu invece preferito il conte Carlo Pellion di Persano,
che già poteva dirsi vecchio, perchè aveva oltrepassata l'età di 60
anni.

Contro il Persano l'Austria seppe opporre un terribile
avversario--Guglielmo Tegetthoff di quarant'anni appena di età; e fu
scelto proprio lui, sebbene fosse il più giovine degli ammiragli, perchè
lo si sapeva pieno di ardire e dì un coraggio quasi temerario.

La flotta italiana dopo il 24 giugno per la sua potenza era la
dominatrice del mare Adriatico; e quella austriaca si teneva rinchiusa
in Pola. Vi era tutto da tentare--tutto da sperare.

Fu decisa l'occupazione di Lissa, considerata la Gibilterra
dell'Adriatico; e il 18 luglio alle 11 antimeridiane la nostra flotta
prendeva posizione dirimpetto all'isola.

Una ricognizione fatta dal D'Amico, capo di stato maggiore del Persano,
coll'esploratore «Messaggero» riferiva che la guarnigione dell'Isola era
di 2500 uomini provveduta di tutto.

Deciso l'attacco, la flotta venne divisa in tre squadre; una comandata
dal vice ammiraglio Vacca doveva attaccare Comisa, difesa da due
batterie, e da una casamatta; l'altra sotto gli ordini del vice
ammiraglio Albini doveva eseguire uno sbarco nel porto di Manego difeso
da due batterie; la terza, comandata dal Persano doveva forzare il porto
di S. Giorgio difeso da quattro forti e da due batterie.

Alle 11 1/2 del 19 incominciò il fuoco e senza interruzione durò fino
alle 7 1/2 pomeridiane; alle 2 saltava in aria una polveriera nemica;
alle 3 1/2 ne scoppiava una seconda e andava all'aria la Torre del Forte
e la bandiera che vi era inalberata; alle 5 tutti i forti di S. Giorgio
erano demoliti ed i cannoni, ad eccezione di due situati nell'elevata
posizione del telegrafo, erano smontati e ridotti al silenzio;
l'intrepidezza, il valore degli equipaggi è impossibile descrivere,
sebbene a bordo non pochi fossero i feriti e parecchi i morti.

La presa di Lissa era assicurata; ma fu malauguratamente rimandata
all'indomani, perchè si ebbe notizia che l'Albini non aveva potuto
eseguire lo sbarco.

Alle ore 9 del giorno 20 l'avviso «Esploratore» segnalava la squadra
nemica in vista. L'ammiraglio Persano avrebbe dovuto senz'altro
assegnare a ciascuna delle navi sotto al suo comando il proprio posto di
combattimento, e dare ad esse gli ordini della parte che avrebbe dovuto
prendere per ribattere vittoriosamente l'attacco; invece l'ammiraglio
Persano alle ore 9 1/2 abbandonava la nave di comando «Re d'Italia» per
imbarcare sulla corazzata «Affondatore» accompagnato dal capo di stato
maggiore e da due suoi aiutanti di bandiera.

L'onorevole deputato Pier Carlo Boggio che era nella nave ammiraglia «Re
d'Italia» quale amatore e come storiografo, all'invito che gli fece il
Persano, si rifiutò di seguirlo perchè ebbe subito la percezione che
coll'abbandono della nave ammiraglia nel supremo momento del
combattimento, si commetteva non solo un gravissimo errore, ma un vero
atto colpevole da essere paragonato alla fuga davanti al nemico.

Intanto la squadra austriaca arrivava a grande velocità in linea su due
file, ma formata in formidabile cuneo, col proposito di spazzare,
rompere ed affondare tutte quelle navi che avrebbe incontrato sulla sua
via; in testa a tutte era la nave ammiraglia «Carlo Max».

Il primo e maggiore impeto fu portato dal nemico sulla R. nave
ammiraglia «Re d'Italia»--e si capisce!--L'ammiraglio Tegetthoff
riteneva che su quella nave stesse il comandante in capo della flotta
italiana, e le muoveva arditamente contro. Era un duello tra le due navi
di comando--e quello dei due che ne fosse riuscito vincitore avrebbe
deciso della vittoria della sua squadra!

Il «Re d'Italia» assalito da poppa, nei fianchi, da prua ebbe spezzato
subito il timone per cui rimase senza governo; nella critica e fatale
posizione, il comandante Foa di Bruno, uomo dei più valorosi, gli
ufficiali sotto ai suoi ordini, gli equipaggi, i cannonieri tutti al
loro posto impavidi, rispondevano agli assalitori con bordate, con tiri
di cannone, con le carabine--quando--la nave ammiraglia austriaca «Max»
le fu sopra a tutta forza di macchina e l'investiva con urto tremendo;
con orribile scroscio lo sperone ferrato squarciatole il fianco, le
apriva un'enorme breccia sotto la linea d'acqua--e il «Re d'Italia» la
bella nave ammiraglia colla bandiera a riva spiegata al vento, sempre
eroicamente combattendo s'inclinò--e fra le grida di viva l'Italia da
parte del suo equipaggio, e col capo reverentemente scoperto di quello
austriaco--sprofondava nell'abisso del mare trascinando nei vortici 700
eroi; primi fra tutti, l'Emilio Foa di Bruno comandante in prima, il
deputato Pier Carlo Boggio, il marchese di Malaspina comandante in
seconda, il cav. Del Santo sotto capo di stato maggiore, i tenenti
Gualterio Enrico, Casanova Giuseppe, Bossano Alfredo, Bozzetto Michele
ed Isola Carlo sottotenenti, Olivieri Giuseppe, Palermo Salvatore,
Orsini Torello, il conte Fazioli, guardie marine, Verde cav. Luigi
medico di bordo; ed il pittore Ippolito Ciaffi. Pochissimi furono i
salvati e fra questi il bravo tenente Candiani.

Affondata la creduta nave ammiraglia le corazzate austriache assalgono
le navi Italiane «Ancona» la «Palestro» la «San Martino» ed altre: il
«Kaiser» si slanciava contro il «Re di Portogallo» ma ne esciva
malconcio assai, messo fuori di combattimento ed in fuga, mercé
l'abilità e la bravura del comandante Riboty. Nella mischia la
«Palestro» venne colpita da granate nella parte non corazzata
cagionandole forti avarie.

Sviluppatosi l'incendio il bravo comandante Cappellini fa di tutto per
domarlo; ma inutili sforzi! Visto che ogni salvezza della corazzata è
ormai impossibile due piroscafi dell'armata italiana «l'Indipendente» ed
il «Governolo» sfidando ogni più grave rischio si accostano alla
Palestro offrendo salvezza.

L'eroico comandante--chiama a raccolta i compagni--fa ad essi nota
l'inevitabile catastrofe--quindi dice: «Chi vuole salvarsi si salvi»
Unanime un grido risponde «faremo quello che il comandante sarà per
fare» al che il Cappellini risponde «io non abbandono il mio posto» e
allora gli eroi tutti a rispondere «vogliamo seguire la tua sorte».

Udita questa commovente decisione il comandante ordina sia alzato il
gran pavese. I marinai salgono a riva sugli alberi, sui pennoni,
intuonano i canti della Nazione.--Un orrendo scoppio--un ultimo, immenso
grido si eleva al cielo «Viva l'Italia viva il Re» e in una nube di
fiamme sono tutti avvolti--e i martiri della patria sprofondano nei
vortici del mare.

Nel combattimento tutti fecero il loro dovere, gli eroismi di Foa di
Bruno e del Cappellini sono immortali; va anche segnalato il valore dei
Riboty, degli Acton, dei Del Carretto, dei Del Santo, e l'abnegazione il
patriottismo, le virtù militari di tutti gli ufficiali della flotta e
degli equipaggi.

Ma a che giova il valore, e a che vale l'eroismo se manca il duce che
sappia condurre alla pugna ed alla vittoria?

Il Persano commise due errori gravissimi: il primo di avere abbandonato
la nave ammiraglia pochi momenti prima del combattimento. Egli avrebbe
dovuto scegliere fin dall'inizio della campagna come nave ammiraglia
l'«Affondatore» se la credeva atta a meglio servirlo nel suo piano di
battaglia; il secondo è, che egli non seppe adottare un ordine di
battaglia rispondente a quello col quale la parte nemica veniva ad
investirlo. Colla sua squadra il Persano doveva ordinarsi in due linee
ed in forma d'imbuto; lasciare che le navi nemiche entrassero
nell'imbuto e quindi assalirle prima a colpi di cannone, a bordate e poi
investendole a colpi di sperone.

L'«Affondatore» doveva tenersi sopravento onde potere dominare, dirigere
l'azione; ed impegnato il combattimento valersi della velocità della sua
nave e delle sue qualità offensive, correre addosso al «Max» nave
ammiraglia austriaca, investirla a tutta forza col tagliente suo sprone
e colarla a fondo. Così avrebbe certamente manovrato Galli della
Mantica. Invece come fu utilizzata questa nave, la più potente del
tempo?

L'Affondatore (comandante Martini), mentre le nostre navi «Re d'Italia»
«Re di Portogallo» «Ancona» «Palestro» e le altre si trovavano alle
prese col nemico e facevano con tanto eroismo il loro dovere, traversata
la linea delle corazzate italiane volgeva la prua contro il lato destro
del «Kaiser» manovrando per investirlo col suo formidabile rostro. Già
il luogotenente Chinca dalla tolda della nave manda il grido «pancia a
terra» affinchè il potente urto _imminente_ non faccia trabalzare gli
uomini dell'equipaggio; già l'ultima ora è suonata per quel bel tipo
delle antiche armate navali, quando ad un tratto, l'«Affondatore» per
ordine imperioso dell'ammiraglio Persano comandante le forze navali
italiane, piega bruscamente a destra e si allontana dal Kaiser e dal
combattimento. Quante lacrime di vergogna e di dolore si saranno versate
da quei bravi che formavano l'equipaggio della potente nave! Quanti di
quei bravi si saranno morse le dita!

                                    *
                                   * *

L'orgoglio italiano nell'anno 1866 ebbe a patire ben dolorose delusioni.

L'infelice giornata di Custoza che non fu priva di gloria per i nostri
combattenti; la terribile catastrofe di Lissa; recavano profondo dolore
nel cuore della nazione. E, per di più la Venezia, uno degli obbiettivi
del patriottismo italiano, per sfogo di dispetto e di orgoglio
dell'imperatore d'Austria, era data allo imperatore Napoleone dalle cui
mani doveva riceverla il Re d'Italia!

Nella notte del 4 al 5 luglio il Re Vittorio Emanuele aveva ricevuto il
seguente telegramma:

          A S. M. il Re d'Italia

                                                 Parigi, 5 luglio

«Sire: L'imperatore d'Austria entrando nelle idee espresse nella mia
lettera al sig. Drouyn De Lhuys, mi cede la Venezia, dichiarandosi
pronto ad accettare una mediazione per ristabilire la pace.

L'esercito italiano ha avuto occasione di mostrare il suo valore. Un
maggiore spargimento di sangue è dunque inutile e l'Italia può
raggiungere onorevolmente lo scopo cui aspira mediante un accomodamento
con me, su cui sarà facile intenderci. Scrivo a S. M. il Re di Prussia
per fargli conoscere questo stato di cose e proporgli per la Germania
come lo faccio a V. M. per l'Italia, la conclusione d'un armistizio come
preliminare alle trattative di pace.

                                                     _Napoleone_»

Questo gravissimo annunzio, pochi giorni dopo una battaglia perduta,
sebbene valorosamente combattuta, nel momento di ripigliare le offese
con tante speranze e tanto bisogno di un grande successo d'armi, giunse
al Re, all'esercito, all'Italia oltre ogni dire sgradito.

Ricevere la Venezia come un dono dalle mani dell'imperatore dei francesi
feriva nel più vivo l'amor patrio degli italiani, non solo, ma avrebbe
potuto dar motivo a dubbi ingiuriosi sulla fede dell'Italia verso la
Prussia sua alleata.

D'altro canto ricusando, e continuando la guerra a dispetto
dell'imperatore dei francesi, v'era la possibilità di vederci venir
contro la Francia armata nel veneto o altrove! Pure tra la rovina alla
quale una tal guerra ci avrebbe condotti e il disonore, nè al quartier
generale nè al Re, nè al ministero poteva rimaner dubbia la scelta.

Il Re quindi rispondeva, ringraziando l'Imperatore dei Francesi
dell'interesse che prendeva per l'Italia; ma che trattandosi di affare
tanto grave doveva consultare il suo governo e il suo alleato al quale
era stretto da un trattato.

Intanto il generale Cialdini domandava se poteva invadere senza perdita
di tempo il territorio veneto e gittarsi nella provincia di Rovigo.

Il generale La Marmora rispondeva al Cialdini invitandolo ad operare,
giacchè egli diceva «per me il peggio sarebbe ricevere la Venezia senza
avervi messo piede».

E il generale Cialdini confermava che il 7 di sera avrebbe gettati i
ponti e passato il Po.

Per questi fatti l'imperatore Napoleone era adiratissimo, e ci fu poco
che la Città regina dell'Adriatico non vedesse sventolare sul campanile
di S. Marco e sui forti della sua laguna la bandiera napoleonica ed a
suo presidio le truppe francesi.

Per scrupolo di lealtà il barone Ricasoli d'accordo con S. M. il Re e
col generale La Marmora si opponeva alla firma dell'armistizio senza
averne prima ottenuto l'assenso del Re di Prussia alleato in quella
campagna, e l'imperatore Napoleone aveva già ordinato che due navi da
guerra con truppe da sbarco «La Provence» e «L'Eclaireur» partissero per
Venezia con ordini suggellati.

Ubaldino Peruzzi, visto che al conte Nigra nostro ambasciatore a Parigi
non era riuscito di parare il grave colpo, consigliò a Ricasoli di
mandare a Parigi il Diamilla Muller conosciuto fin da giovinetto da
Luigi Napoleone quando era principe, e che aveva elevate amicizie a
Parigi fra le quali quelle di Alcide Grandguillot direttore del giornale
officioso «Costitutional» e del generale De Fleury, perchè vedesse di
scongiurare questo affronto all'Italia. Questi accettò la delicata,
quanto difficile missione e seppe riuscire a risparmiare alla patria una
nuova umiliazione e danni non lievi.

La retrocessione dal Veneto si effettuò senza scosse e senza riserve, e
la conclusione della pace pose termine ad ogni complicazione.

                                    *
                                   * *

Unita la Venezia all'Italia, Garibaldi pensava a sciogliere il suo voto
a Roma. A tal fine raccomandava agli amici di non indugiarsi, e li
incitava a fare i preparativi necessari.

A Firenze erasi costituito un comitato centrale che aveva per capi
Cairoli, Crispi, Fabrizi, Guastalla ed altri, tutti animati dal vivo
desiderio di dare all'Italia la sua Capitale naturale--Roma.

                                    *
                                   * *




                             =CAPITOLO XXV.=

                      =Campagna dell'Agro-Romano
              Montelibretti--Roma--Monterotondo--Mentana.=


Dopo le guerre del 1859-1860 le condizioni morali dei liberali romani
avevano subito una forte scossa.

I più non accettavano senza discussione la condotta passiva, rassegnata,
che dal 1853 veniva loro raccomandata.

L'emigrazione resa più numerosa per i giovani che da Roma erano corsi ad
arruolarsi sotto la bandiera dell'unità nazionale, faceva apertamente
intendere essere giunto il momento per Roma di cambiare attitudine, e
suo dovere di pronunciarsi energicamente per la sua liberazione dal
giogo papale.

La vittoria degli alleati sui campi Lombardi--la disfatta dell'esercito
ponteficio nelle Marche--la marcia trionfale di Garibaldi nel regno di
Napoli--avevano a tal punto entusiasmato la gioventù liberale romana da
volere senz'altro che si uscisse dall'inerzia, nella quale l'aveva fatta
addormentare il Comitato nazionale.

Ma questo Comitato nazionale romano faceva ogni sua possa per rattenere
la brava gioventù dicendo: «La liberazione di Roma è questione
difficile--solo la diplomazia può riuscirvi, quindi necessità assoluta
di non crearle ostacoli e rimanere tranquilli lasciandone la cura al
governo di Torino».

Il partito democratico di Roma, abbenchè stremato, non era del tutto
spento. Esistevano ancora non pochi avanzi del 48 e 49 che alla azione
del tempo ed alle seduzioni avevano resistito conservando integra la
loro fede e i loro principi.

Questi patrioti, insofferenti a tanta sottomissione, s'intesero coi più
animosi e migliori della emigrazione e coi capi del partito d'azione;
ruppero gl'indugi e organizzarono dei nuclei indipendenti dal Comitato
nazionale pronti all'azione; disgraziatamente, però, mancava un'unica
direzione.

Il fatto poi di Aspromonte fu lo stimolo ad un azione concorde, e
stabilita la fusione dei vari nuclei si costituì un Comitato d'Azione
Romano col seguente programma:

«Fare propaganda incessante ed efficace onde indurre il popolo a
scuotersi ed a sollevarsi, non fosse altro per dare pretesto al Governo
di Torino di portare con maggiore utilità sul tappeto diplomatico la
questione romana.

«Raggranellare gli elementi d'azione esistenti in città, organizzarli e
prepararli per un dato momento alla riscossa.--Provvedere d'armi la
città.--Stabilire mezzi regolari e sicuri al confine per lo scambio
della corrispondenza.--Organizzare un servizio di corrispondenza coi
giornali italiani ed esteri».

L'impresa era ardua--trattavasi di lottare col prete, coi francesi, col
comitato nazionale! Bisognava agire con arditezza e ad un tempo con
prudenza poichè le tre polizie, pontificia, francese e quella del
comitato nazionale, erano intente a spiare e a sventare le mosse del
nuovo centro d'azione.

Contro tutte queste difficoltà lottavano i direttori del partito
d'Azione Romano--ed il programma tracciatosi ebbe in parte il suo
svolgimento. Un giornale clandestino dal titolo _Roma o morte_ fu
istituito e in mezzo a mille ostacoli e peripezie non cessò dalla
patriotica sua propaganda, combattendo per tre anni con accanimento le
turpitudini del governo dei preti e la condotta del Comitato nazionale
che a quello assicurava l'esistenza, consigliando al popolo la inazione.

In questo giornale oltre a patrioti romani, collaboravano Mazzini, De
Boni, Asproni, Alberto Mario, Pianciani, Scifoni ed altri. Era direttore
il dottore Giuseppe Pastorelli.

Si procedette dal Comitato d'azione all'organizzazione delle forze con
forma e carattere proprio. La corrispondenza al di là dei confini fu
organizzata con elementi d'indiscutibile sicurezza. Le armi erano state
raccolte in luogo da potere essere, a momento opportuno, introdotte in
città coll'aiuto di provati patrioti quali il Cucchi, il Guerzoni,
l'Adamoli ed altri.

Certo è dunque che il lavoro lento sì, ma costante del Comitato d'azione
romano valse a scuotere dall'inerzia la gioventù ed a preparare gli
elementi che nella città dovevano prendere parte ad un fatto che doveva
affrettare la liberazione di Roma.

                                    *
                                   * *

L'11 febbraio 1867, il ministro Ricasoli, disapprovato nella perpetua
questione del diritto di riunione, aveva sciolto la Camera.

Convocata la nuova, questa non apparendo diversa da quella disciolta, il
barone Ricasoli senza attendere alcun voto che lo giudicasse, rassegnava
il potere, che veniva raccolto da Urbano Rattazzi.

Si sapeva del nuovo presidente del Consiglio le opinioni su Roma. Egli
aveva censurato la convenzione di settembre, e s'era risolutamente
opposto alla convenzione Lagrand Dumonceau.

Era pur noto che egli non intendeva fare alcuna concessione alla Chiesa
se non quando fosse cessato il potere temporale dell'autorità
ecclesiastica ed il governo italiano fosse insediato in Roma.

L'entrata al potere del Rattazzi fece nascere nel partito liberale
italiano la speranza che con lui si sarebbe andati a Roma; e il partito
d'azione si mise subito all'opera per accelerare l'evento.

                                    *
                                   * *

Da parte sua il generale Garibaldi inviava al Comitato insurrezionale di
Terni il capitano Galliano e il tenente Perelli col mandato di armare
quanti giovani fuorusciti romani avessero potuto raccogliere, e con
questi, fatta insurrezione nello Stato Pontificio, gettarvi la prima
favilla dell'incendio. I rappresentanti del partito d'azione nel Ternano
conte Massarucci e Frattini, caldi patrioti e vecchi cospiratori,
consentivano di dar mano all'impresa; e il 19 giugno il Galliano ed il
Perelli raccolti ed armati centoquattro giovani arditi, tragittata la
Nera marciavano per la Sabina. Se nonchè giunti nel punto di sconfinare
nei pressi di Ponte Catino e Castelnuovo, una compagnia di granatieri,
che si teneva ivi imboscata, circuì la colonna e le intimava la resa.

Questo fatto non influì in ciascun modo a raffreddare l'opera di
Garibaldi, chè anzi servì a spronarla. Difatti Garibaldi mandava Cucchi
Francesco a Roma per annodare in sua mano le fila della rivoluzione;
mandava suo figlio Menotti a sondare il terreno e a stringere patti col
Nicotera e con altri nel mezzogiorno; incaricava Acerbi della raccolta
dei giovani e delle armi alla frontiera Umbro-Toscana e lo mandava in
suo nome a scandagliare le intenzioni del Rattazzi: da quanto ne fu
trapelato parve che il Rattazzi non dissentisse dall'idea del generale
ed era pronto a coadiuvarlo. Solo dimostrava la necessità che il
generale, per acquietare le rimostranze del governo francese e stornare
i sospetti del governo pontificio, _lasciasse per qualche tempo il
continente e si recasse a Caprera_.

Intanto nella prima quindicina di agosto il generale aveva dati i suoi
ordini e distribuite le parti come alla vigilia di un entrata in
campagna; Menotti doveva sconfinare da Terni coll'obbiettivo
Monterotondo; Acerbi da Orvieto obbiettivo Viterbo; Nicotera e Salomone
da Aquila e Pontecorvo obbiettivo Velletri.

Già il 13 luglio 1867 i comitati riuniti avevano annunziata la loro
fusione col seguente manifesto:

          Romani!

«Il voto comune, il voto di tutti quelli a cui batte il cuore per
l'onore e la libertà della patria, si è realizzato.

«Non più dissensi, non più divisioni; tutte le frazioni del partito
liberale si sono data la mano, hanno unite le forze per abbattere per
sempre questo resto del governo papale e dare Roma all'Italia.

«Il Comitato Nazionale Romano ed il Centro d'insurrezione fanno quindi
luogo ad una Giunta Nazionale Romana la quale assume la suprema
direzione delle cose.

«Rallegriamoci di questa santa concordia, e diamo opera a fecondarla con
unità di fede e di disciplina, con unità di propositi e di sacrificii.
Il fascio romano è ora veramente formato: facciamo che non si sciolga
mai più e che presto ci dia la vittoria.

          Romani!

«I cittadini rispettabili, che fanno parte della Giunta a cui
rassegneremo l'ufficio, sono degni dell'alta missione; ma a nulla
riuscirebbero senza il vostro concorso.

«Secondateli adunque, fidenti ed animosi e l'impresa non fallirà.

«Vogliamolo tutti, e ben presto venticinque milioni di fratelli
saluteranno Roma Capitale d'Italia».

                                    _Il Comitato Nazionale Romano

                                      Il Centro d'Insurrezione._

In quel tempo, invitato Garibaldi ad intervenire al Congresso Socialista
Internazionale della pace, che doveva tenersi a Ginevra, vi andò
accompagnato da Cairoli, da Alberto Mario, da Ceneri, da Riboli, e da
altri amici, e dopo un suo discorso, concretava la sua opinione colle
seguenti affermazioni:

          1º Tutte le Nazioni sono sorelle.

          2º La guerra fra di loro è impossibile.

          3º Tutte le querele che sorgeranno tra le Nazioni, dovranno
essere giudicate da un Congresso.

          4º I membri del Congresso saranno nominati dalle società
democratiche dei popoli.

          5º Ciascun popolo avrà diritto di voto al Congresso, qualunque
sia il numero dei suoi membri.

          6º Il papato, essendo la più nociva delle sette, è dichiarato
decaduto.

          7º La religione di Dio è adottata dal Congresso e ciascuno dei
suoi membri si obbliga di propagarla. Intendo per religione di Dio la
religione della verità e della ragione.

          8º Supplire il sacerdozio dell'ignoranza, col sacerdozio della
scienza e dell'intelligenza.

«La Democrazia sola può rimediare al flagello della guerra.

«Lo schiavo solo ha il diritto di far la guerra al tiranno; è il solo
caso in cui la guerra è permessa».

A questo colpo inatteso, che urtava contro le idee predominanti nel
Congresso, successe un inferno. Garibaldi non attese neppure la
votazione, abbandonò il Congresso, rientrò in Italia, e fermatosi un
poco a Belgirate, fece ritorno a Firenze.

Intanto le sue istruzioni per la concentrazione delle colonne invadenti
il territorio romano erano date e stava per partire egli pure pel luogo
dell'azione, quando il 23 settembre in Sinalunga venne arrestato; doveva
essere tradotto ad Alessandria. A Pistoia, mentre si era per un momento
fermato nel viaggio ebbe tempo di consegnare al Del Vecchio il seguente
biglietto da pubblicarsi:

                                                     24 settembre

«I romani hanno il diritto degli schiavi, insorgere contro i tiranni.

«Gli italiani hanno il dovere di aiutarli e spero lo faranno a dispetto
della prigionia di cinquanta Garibaldi.

«Avanti adunque nelle vostre belle risoluzioni, Romani e Italiani. Il
mondo intero vi guarda, e voi, compiuta l'opera, marcerete colla fronte
alta e direte alle Nazioni: Noi abbiamo sbarazzata la via alla
fratellanza umana, dal suo più abominevole nemico.

                                                   _G. Garibaldi_

Il 27 imbarcato nella Rª nave l'«Esploratore» veniva portato a Caprera
dove doveva essere sorvegliato a vista da navi da guerra e dalle loro
imbarcazioni.

Intanto che il governo sequestrava Garibaldi, i suoi amici discutevano
sul modo di raggiungere lo scopo; se l'accordo nel fine era
generale--_la liberazione di Roma_--vi era discordia sui mezzi di
esecuzione: Crispi, Fabrizi, Cucchi, Cairoli, Guastalla, Miceli, La
Porta, Oliva, Guerzoni, Adamoli, Damiani, tutta quasi la frazione
politica-militare del partito garibaldino opinava che il segnale della
riscossa dovesse partire da Roma; Menotti, Canzio, Acerbi e qualche
altro, tenendosi più ligi alle istruzioni del generale, volevano che le
mosse dovessero essere parallele; il Cucchi, che più di tutti la
caldeggiava, dava per sicura l'iniziativa romana.

Mentre avvenivano queste trattative fra i capi del movimento; ad un
tratto, all'improvviso per tutti, un circa duecento giovani capitanati
dal trentino Luigi Fontana dei Mille, passavano il confine nel
Viterbese, si buttavano sopra Acquapendente e dopo una zuffa accanita
facevano prigionieri una quarantina di gendarmi pontifici e
s'impossessavano del paese.

All'annunzio dell'inopinato assalto di Acquapendente Menotti ed Acerbi
credettero non essere più questione di discutere--essere impegnato il
loro onore ad accorrere in soccorso degli arditi patrioti--e quindi
Acerbi diede ordine alle sue genti di sconfinare.

Il 3 ottobre Menotti Garibaldi rotti gli indugi con pochi compagni e col
capitano Tringalli varcava nascostamente il confine. Si diresse a Poggio
Catino ove fu accolto con amore fraterno in casa del conte Galeazzo
Ugolini. Ma non volle fermarvisi e tosto si mise in moto. A S. Valentino
il Sindaco Nardi con venti giovanotti ingrossava il drappello che a
Poggio Mirteto accoglieva altri trenta animosi; a Montemaggiore trovava
il capitano Fontana con cinquanta circa volenterosi e vi pernottava.
Sull'albeggiare la colonna si dirigeva a Montelibretti.

Menotti con circa 80 uomini precedeva, gli altri col Tringali e
coll'Ugolini seguivano alla distanza di mezzo chilometro. Giunto Menotti
nella macchia di Manocchio si trovò assalito da buona schiera di
gendarmi e di zuavi pontifici che lo attendevano in imboscata.

I nostri sebbene sorpresi non si perdettero d'animo; guidati dal
valoroso Menotti Garibaldi i bravi volontari si lanciarono sull'inimico;
questo dopo breve resistenza preso da sgomento si dava a fuga
precipitosa.

Il giorno 6 accampavano i nostri a Carmignano di fronte a Nerola
occupata dal colonnello De Charette; quivi la colonna fu raggiunta dal
maggiore Salomone che conduceva circa 150 volontari; dal maggiore
Valentini di Aquila con altri 100 volontari circa; giungevano pure altri
60 baldi giovani guidati da Lodovico Petrini e dal conte Ippolito
Vicentini di Rieti; 100 circa da Montopoli sotto gli ordini dei fratelli
Rondoni e dell'emigrato romano Ovidi Ercole; arrivava infine il maggiore
Fazzari che conduceva oltre 300 volontari da lui formati in un bello e
valente battaglione.

Sotto gli ordini di Menotti erano ormai 900 circa volontari. Intanto il
collonnello de Charette informato che la colonna che gli stava di fronte
erasi molto ingrossata, abbandonava Nerola per Montelibretti.

La mattina dell'8 ottobre, Menotti fece muovere la colonna ed alla sera
occupava Nerola; ivi attendeva all'organizzazione della sua truppa ed a
provvederla dell'armamento che giungeva da Terni. La mattina del 13
ordinava la marcia su Montelibretti e la colonna vi giungeva verso le
due pomeridiane. Si erano avute informazioni che il nemico erasi
allontanato, per cui i garibaldini credendosi sicuri avevano formato i
fasci d'armi e ognuno per conto suo cercava di provvedere ai propri
bisogni ed a ristorarsi del lungo cammino.

D'improvviso una scarica di fucilate avverte i volontari che il nemico
è alle porte del paese. Si corse senza ritardo alle armi. Il Fazzari
montato a cavallo scorreva le vie animando ed incitando quanti
incontrava a formarsi in colonna. Messo assieme un gruppo di circa 50
uomini esce animoso dalla porta e precipita contro il nemico che a passo
di carica veniva ad investire il paese.

Era un battaglione di zuavi pontifici, i quali visto Fazzari a cavallo
lo accolgono con una scarica a bruciapelo che gli uccide il cavallo e lo
ferisce alla gamba; il cavaliere precipita di sella ma non si dà per
vinto; ha in pugno il suo revolver, lo scarica addosso a chi ha la
disgrazia di avvicinarglisi e sparati tutti i colpi finisce per
scaraventare il suo revolver stesso contro i nemici che lo
accerchiavano. Questo eroismo incute rispetto agli ufficiali che
comandavano i zuavi, i quali invece di finirlo lo lasciavano in custodia
di tre dei loro, mentre la massa continuava ad avanzare mantenendo fuoco
vivissimo contro i nostri che, sebbene in pochi, tenevano testa.

Intanto Menotti aveva riunito intorno a sè il grosso dei volontari e a
passo di carica investe i nemici che fanno resistenza ma infine il
valore dei nostri li vince e dei zuavi pochi poterono salvarsi, i più
erano rimasti sul terreno morti e feriti.

Nel combattimento molto si distinsero, senza dire del Menotti e del
Fazzari, il capitano Tringalli ed i tenenti conte Ugolini Galeazzo e
Nani Raffaele, e il sottotenente Campagnoli Aldebrando della colonna
Salomone.

Il 13 di ottobre Nicotera esso pure sconfinava con ottocento uomini a
Vallecorsa e l'indomani s'avviava a Falvaterra.

Si aspettava che Roma desse qualche segno di vita e Cucchi, Guerzoni,
Adamoli, Bossi, Celle, Costa si erano stretti in lega coi membri del
Comitato di Azione; ma tutti sentivano che la sollevazione intempestiva
nella provincia aveva resa impossibile una sorpresa nella Capitale.

                                    *
                                   * *

Mentre questo avveniva in Sabina, Canzio e Vigiani pensavano di trarre
Garibaldi dalla prigionia di Caprera. Noleggiata una paranzella
salparono da Livorno il 14 ottobre, cautamente accostarono alla
Maddalena ed a mezzo della Signora Collin, fatto pervenire un biglietto
al Generale, proseguivano pel porticello di Brandinchi per
aspettarvelo. La notte del 16 ottobre il Generale avventuratosi sopra un
guscio di noce, faceva il tragitto da Caprera al punto di ritrovo, e
deludendo la vigilanza dei R. Equipaggi, prendeva imbarco nella
paranzella, sbarcava a Livorno, ed in sul mezzogiorno del 20 arrivava a
Firenze con grande sorpresa del Governo e gioia degli amici.

Il 21 ottobre 1867 veniva diramato il seguente manifesto:

          Romani all'armi!

«Per la nostra libertà, per il nostro diritto, per l'unità della patria
Italiana, per l'onore del Nome Romano.

                               _All'armi!_

«Il nostro grido di guerra sia:

«Morte al papato temporale! Viva Roma Capitale d'Italia. Rispettiamo
tutte le credenze religiose, ma liberiamoci una volta e per sempre da
una tirannia, che ci separa violentemente dalla famiglia italiana e
tenta perpetuare l'inganno, che Roma sia esclusa dal diritto di
nazionalità ed appartenga a tutto il mondo, fuorchè all'Italia.

«Da molti giorni i nostri fratelli hanno levato il vessillo della santa
rivolta e bagnata del loro sangue la via sacra di Roma.

«Non tolleriamo più che siano soli e rispondiamo al loro eroico appello
con la campana del Campidoglio.

«Il nostro dovere, la solidarietà della causa comune, le tradizioni di
Roma ce lo impongono.

                               _All'armi!_

«Chiunque può impugnare il fucile accorra, facciano di ogni casa un
fortezza, di ogni ferro un'arma.

«I vecchi, le donne, i fanciulli elevino le barricate, i giovani le
difendano.

«Viva l'Italia!

«Viva Roma!»

                                    *
                                   * *

Durante la traversata della paranzella da Brandinchi a Livorno Garibaldi
redigeva il seguente manifesto:

                                       Da bordo, 18 ottobre 1867.

          _«Redimere l'Italia e poi morire»._

          Cari compagni,

«Eccomi ancora con voi, prodi sostenitori dell'onore italiano. Con voi,
per compire un dovere, per aiutarvi nella più santa e gloriosa impresa
del nostro risorgimento.

«L'Italia s'è persuasa, che non può vivere senza il suo corpo, senza il
cuore, senza la sua Roma, che alcuni servili ledendo un diritto e il
decoro nazionale, vogliono sacrificare ai capricci d'uno spregevole
tiranno.

«Dunque avanti, e costanza soprattutto! Io non vi chieggo coraggio,
valore, perchè vi conosco. Vi chieggo costanza. Gli Americani durarono
quattordici anni nella lotta gloriosa, che li fece la più potente, la
più libera nazione del mondo: a noi concordi bastano pochi mesi per
lavare l'Italia dal sudiciume che l'infesta, voglia o non voglia un
semplice bastardume ed i suoi padroni.

                                                «_G. Garibaldi_».

Il 22 partì per Terni. Ivi giunto sapendo che il Governo aveva dato
ordine di arrestarlo, in sull'albeggiare del 23, sconfinava a Passo
Corese e dava ordine a Menotti, comandante del centro, di riunire tutte
le colonne che si trovavano già pronte e di sconfinare senza ritardo.
Intanto altre colonne erano in formazione a Terni. E nella notte del 24
Garibaldi telegrafava al Comitato di Firenze: «Occupo Passo Corese e
Monte Maggiore con le forze riunite di Menotti». Nel giorno stesso
ordinò si investisse Monte Rotondo, che voleva ad ogni costo occupare,
ancorchè non avesse alcun pezzo di artiglieria.

La notizia che Garibaldi era entrato nel territorio pontificio, fece
accorrere volontari da tutte le parti; anche Ancona eccitata alla guerra
da un patriottico proclama non mancò di fare il suo dovere.

Messi assieme pochi fondi, e raccolte delle armi, partiva una colonna di
cui veniva affidato il comando ad Elia. Prima però, che questa colonna
composta di più di mille ducento volontari fosse armata, si dovette
perdere molto tempo a Terni. Infine rotto ogni indugio e sebbene non
poche armi mancassero per l'armamento completo, Elia ordinava la
partenza e raggiungeva il generale Garibaldi e suo figlio a Monte
Rotondo, ove già si combatteva.

La difesa di Monte Rotondo fu accanita. L'attacco incominciato all'alba
era durato tutta la giornata; stava per calare la notte ed il fuoco
continuava accanito da parte dei papalini; già molti dei nostri erano
feriti, fra i quali, Mosto, Martinelli, Uziel; morti il Giovagnoli,
l'Andreucci ed altri. «Bisogna finirla» grida Garibaldi--ed ordina di
dar fuoco alla porta; verso le otto di sera la porta andava in fiamme e
fattavi una apertura i garibaldini vi si precipitano dentro, gli
antiboini si rifuggiano nel Castello ed all'albeggiare riprendevano le
fucilate; ma visto che i volontari, penetrati nelle scuderie del
principe Piombino, che era coi garibaldini a combattere per la
liberazione di Roma, si preparavano a dare fuoco al Castello,
incendiando il fienile, verso le 9 di mattino si arrendevano, lasciando
in nostre mani due cannoni con un centinaio di cariche, circa 300 fucili
e poche munizioni.

Nella presa di Monterotondo si comportarono da valorosi, rimanendo
feriti, Antonio Lazzari, Emilio Pignocchi, Guerrino Galeazzi, Giovanni
Dottavi, Massimiliano Gianforlini, Gennaro Montevecchio, Vincenzo
Spadolini, Campagnoli Aldebrando, tutti di Ancona.

Ecco come il generale partecipava la presa di Monterotondo:

    Caro Fabrizi

«L'impresa di Monterotondo è certamente una delle più gloriose per
questi poveri prodi volontari.

«In tutte le campagne in cui ebbi l'onore di comandarli non li vidi mai
sì travagliati dai disagi, dalla nudità e dalla fame.

«Eppure questi valorosi giovani, stanchi ed affamati, hanno compito in
questa notte un sanguinoso e difficile assalto, come non avrebbero fatto
meglio i primi soldati del mondo. Sono le 4 e siamo padroni di
Monterotondo, meno il palazzo in cui si sono rifugiati i zuavi,
antiboini e svizzeri.

«Abbiamo in mano molti trofei della vittoria, cavalli, armi e
prigionieri.

«Monterotondo, 26 ottobre 4 ant.

                                                 _G. Garibaldi_».

                            ORDINE DEL GIORNO

«Anche in questa campagna di Roma i valorosi volontari hanno compito il
loro glorioso Calatafimi; temporali, nudità, fame quasi da non credersi
sostenibili, non furono capaci di scuotere il brillante loro contegno.

«Essi assaltarono una città murata, colle porte barricate e cannoni per
difenderla, guernita dagli esperti tiratori che i preti regalano agli
italiani da tanti secoli, con uno slancio di cui l'Italia può andare
superba!

«Dio benedica questi generosi.

«Monterotondo, 26 ottobre.

                                                 _G. Garibaldi_».

          _Al Comitato Centrale di Roma:_

          Cari Amici

«Dopo l'assalto e la presa di Monterotondo ci siamo spinti sino a sei
miglia da Roma, ove ci troviamo ora.

«Dei nemici non abbiamo notizie. Se la spedizione francese è vera, spero
vedere ogni italiano fare il suo dovere.

«Casina S. Colomba, 27 ottobre.

                                                 _G. Garibaldi_».

Il 24 ottobre Acerbi assaliva Viterbo, ma nonostante il valore spiegato
dai suoi, nel quale primeggiò il bravo Napoleone Parboni che l'Acerbi
promoveva maggiore, fu necessità desistere dall'attacco.

Il giorno 26 i ponteficii abbandonavano Viterbo e l'Acerbi se ne
impadroniva senza colpo ferire. Nella giornata del 24 si distinse anche
il capitano Greco, siciliano.

Il Nicotera che aveva per obiettivo Velletri ebbe un serio e micidiale
combattimento a Monte San Giovanni, ove cadeva l'eroico Di Benedetto con
ben ventidue valorosi compagni; il 28 il Nicotera prendeva la sua
rivincita a Frosinone, ove fugava il nemico cagionandogli forti perdite
ed il 30 occupava Velletri.

                                    *
                                   * *

Appena si seppe in Roma che bande di garibaldini erano entrate nel
territorio del papa, il governo non ebbe più ritegno. Chiuse alcune
delle porte della città; le altre fortemente custodite; sorvegliati gli
alberghi e le case; cacciati i forestieri sospetti; infine rigori e
vessazioni di ogni sorta; difficile quindi più che mai preparare una
sommossa, senza che la polizia non ne venisse a cognizione.

Cucchi Francesco era stato incaricato, con amplissima credenziale di
Garibaldi, d'intendersi col Comitato d'insurrezione e coi membri della
Giunta Nazionale per promuovere e dirigere il movimento di Roma.

A coadiuvare il colonnello Cucchi erano entrati in Roma, il maggiore
Guerzoni il maggiore Adamoli, il colonnello Bossi, il Cella, i quali
sfidando ogni pericolo lavoravano indefessamente perchè scoppiasse la
scintilla rivoluzionaria ma, nonostante i prodigi d'operosità e d'ardire
del Cucchi e dei suoi compagni, i preparativi per l'audace impresa non
si erano potuti completare; e, quel che peggio, le armi, senza le quali
i congiurati romani si protestavano impotenti a qualunque tentativo, non
erasi ancora trovato modo di farle entrare in Roma.

Ma da quelli di Firenze si scriveva al Cucchi «una schioppettata, una
sola schioppettata entro Roma e basta»; e la schioppettata fu tirata.

Disegno dei cospiratori era d'assalire il Campidoglio, impadronirsene ed
asserragliarvisi. Un drappello di congiurati guidati dal Cucchi e dal
Costa Nino era incaricato di questa faccenda. Il colonnello Bossi con
altra squadra doveva sorprendere il corpo di guardia di piazza Colonna;
Guerzoni con cento uomini forzare Porta S. Paolo e distribuire agli
insorgenti le armi depositate nella Villa Matteini. Giuseppe Monti con
altri doveva minare e fare saltare la Caserma Serristori, e Zoffetti e
altri cannonieri inchiodare le artigliere del Castel Sant'Angelo. I
fratelli Cairoli dovevano scendere il Tevere fino a Ripetta, e portare
armi che dovevano prendere a Terni. Senonchè, tutte queste imprese
audaci abortirono, perchè il Governatore di Roma venutone a cognizione,
aveva prese le misure preventive; solo la Caserma Serristori andò in
parte all'aria, ma senza scopo, perchè vuota di soldati ponteficii. I
fratelli Cairoli con settanta valorosissimi compagni, arrivati
all'altezza di Ponte Molle, saputo che i preparativi di sommossa erano
falliti, furono costretti a tenersi nascosti durante la notte fra i
canneti, ed a cercarsi poi un migliore rifugio appena fatta l'alba.
Credevano d'averlo trovato a Villa Glori sui monti Parioli; ma scoperti
ed assaliti da truppe cinque o sei volte superiori, dopo eroica
resistenza, caduto Giovanni Cairoli, ferito mortalmente Enrico mentre
cercava d'assistere il fratello moribondo, la più bella schiera d'eroi,
che avesse mai fatto sagrifizio di sè per la patria veniva decimata e
dispersa.

Fallito il moto insurrezionale della notte del 22 ottobre, in Trastevere
buon numero di arditi popolani si apparecchiavano alla riscossa.

Giulio Aiani patriota e giovane pieno di ardimento, proprietario di un
lanificio in via della Lungaretta, aveva dato convegno a quanti erano
giovani liberali, forti e coraggiosi in Trastevere, e per quanto potè,
raccolse nel suo stabilimento fucili, revolver e munizioni.

In quella casa erasi istituito un laboratorio ove si fabbricavano
cartuccie al cui bisogno erano intente alcune giovinette del popolo,
addette come lavoranti nel lanificio.

Prossima allo stabilimento eravi l'abitazione di Francesco Arquati,
altro vero patriota, molto popolare nel rione di Trastevere. La moglie
di lui e le figlie anche esse attendevano alla preparazione delle
munizioni, mentre il figlio maggiore dell'Arquati, Pasquale, insieme a
Giulio Aiani, percorrevano quel popoloso quartiere per la propaganda
alla rivolta, eccitando ad un'ardito movimento i più animosi di quei
popolani.

In fatti il 25 ottobre l'opera ferveva nel lanificio Aiani, divenuto
focolare di quel manipolo di patrioti, decisi a morire per la libertà di
Roma. Fra questi eravi pure Cesare Sterbini, parente del triumviro della
repubblica romana nel 1849; quando alle 2 1/4 uno dei giovani che stava
di vedetta su una terrazza, dava l'avviso dell'approssimarsi di un
corpo di zuavi accompagnati da forte stuolo di gendarmi; fu chiusa e
barricata la porta di strada e tutti corsero ad armarsi risoluti
all'estrema difesa.

Gli zuavi si slanciano per abbattere coi calci dei fucili la porta della
casa, ma dall'alto si tirano delle bombe nelle loro file, e sono
ricevuti da fucilata così viva, da costringere la truppa papalina ad
abbandonare l'assalto ed a ripararsi nelle vicine vie, ove appiattata,
iniziava un vivo fuoco di fucileria contro i patrioti romani.

Al rumore delle fucilate Giulio Aiani che si trovava in casa Arquati
corre verso l'uscio per uscirne, ma la casa è in un baleno circondata
dagli zuavi e dai gendarmi, che, forzata la porta, si slanciano per le
scale; l'Aiani col revolver in pugno si precipita sugli invasori, ma
assalito da ogni parte dopo una lotta terribile, sopraffatto dal numero,
viene legato e tratto in prigione.

Intanto il combattimento contro la casa Aiani si fa sempre più vivo.
Paolo Gioacchini, uomo di 50 anni, capo del lanificio, coi di lui figli
Giuseppe e Giovanni incoraggiano alla resistenza e nessuno pensa di
arrendersi. Infine il comandante degli zuavi, irritato nel vedere che
un pugno d'uomini teneva testa a più di trecento soldati, fa suonare la
carica; gli zuavi si lanciano all'assalto della porta, ma per la seconda
volta vengono respinti, e molti sono i morti e i feriti. Da due ore si
combatteva, quando si vide sopraggiungere altre truppe in rinforzo e la
fucilata si faceva più viva.

I tre Gioacchini e Pietro Luzzi lanciano bombe e tirano fucilate dalla
terrazza, vengono feriti uno dei Gioacchini ed un giovane trombettiere
disertato dalle truppe pontificie. Si combatteva da quattro ore quando
agli zuavi riesce di sfondare la porta; la casa è invasa dalla truppa
inferocita per la lunga resistenza e fa macello di quanti incontra;
Angelo Marinelli, vecchio settantenne, gridava ai giovani di porsi in
salvo pei tetti, mentre egli teneva testa agli invasori atterrandone
quanti gli si facevano vicini a colpi di accetta, finchè crivellato da
ferite cadde per non più rialzarsi; intanto ad alcuni dei difensori era
riuscito di mettersi in salvo pei tetti delle case vicine, dove poscia
vennero arrestati.

Quelli che non poterono salvarsi non cessavano da combattere sulle
scale, sugli abbaini, a corpo a corpo colle daghe, coi pugnali, coi
denti, dominante in mezzo a tutti l'eroica donna Giuditta-Tavani-Arquati,
che incuora, comanda e combatte, terribile nell'ira nel vedere avanti a
se il cadavere del marito e quello del giovinetto figlio, entrambi
trucidati; alla fine soccombeva essa pure trafitta da replicati colpi.

Il nome dell'eroica donna e dei prodi caduti con lei dovranno essere
ricordati con ammirazione dalle generazioni future e dall'Italia.

Caddero trafitti il padre e i figli Gioacchini, Cesare Bettarelli,
Giovanni Rizzo, Enrico Ferrochi, Rodolfo Donnaggio, Francesco Mauro,
Augusto Domenicali.

Oltre a questi morirono in prigione in seguito alle riportate ferite
Salvatore Raffaeli e Serafino Marconi.

Furono condannati alla pena di morte Giulio Aiani e Pietro Luzzi; ad
altre pene Cesare Sterbini, Romano Mariotti, Gaetano Goretti, Giuseppe
Leonardi, Pio Crescenzi, Giuseppe Sabatucci, Giovanni Sabatucci, Luigi
Domenicali, Ulisse Martinoli, Oreste Martinoli, Costantino Mazza, Luigi
Pallocchini, Mariano Magnani, Pietro Calcina, Giacomo Marconi, Paolo
Carpanetti, Germano Ceccarelli, Oreste Tedeschi, Lodovico Talucci,
Perzio Giuseppe, Del Cassio.

Riuscirono a fuggire alle ricerche della polizia Cesare Benvenuti e
Paolo Barabella.

                                    *
                                   * *

La presa di Monterotondo produsse grande sgomento in tutto il territorio
pontificio ed ebbe per conseguenza la ritirata di tutte le truppe
papaline al di là dei ponti di Tevere e del Teverone.

Garibaldi non aveva pace se non faceva un colpo di mano su Roma sperando
che gli amici nella piazza gli avrebbero facilitata la riuscita e non
volle perdere tempo.

Lasciato un battaglione a Monterotondo sotto gli ordini del colonnello
Carbonelli, e speditone un altro col colonnello Pianciani a Tivoli, il
generale, ordinato ad Acerbi ed a Nicotera di raggiungerlo, muoveva
diffilato con tutte le sue forze su Roma.

Il giorno 29 Garibaldi portava il suo quartiere generale a Castel
Giubileo spingendo i suoi avamposti oltre a Villa Spada e al Casino dei
Pazzi. I pontifici si erano ben premuniti; la porta del Popolo, la
Salaria, la Pia e tutte le ville attigue, Torlonia, Patrizi, Lodovisi e
Monte Mario erano guernite da pezzi coperti ed occupate da numerose
truppe. Garibaldi vide l'impossibilità di un attacco venturoso; passò
tutta la giornata a studiare la posizione, e sperando sempre in una
insurrezione entro Roma, ordinò che nella notte si accendessero fuochi
in tutta la linea del campo.

Ma a Roma l'insurrezione non appena tentata era stata repressa e spenta.
Garibaldi con alcuni Carabinieri genovesi sotto gli ordini di Stallo e
di Burlando e con alcune guide aveva voluto tentare una ricognizione su
ponte Nomentano; incontrata una pattuglia di papalini questa aveva presa
la fuga. Dopo una permanenza di un'ora in quel posto, due colonne di
zuavi e di antiboini sbucarono, una dal ponte Nomentano, l'altra dal
ponte Mamolo tirando contro i nostri. Ma il Generale non volle, che si
rispondesse, e siccome egli non aveva voluto fare, che una ricognizione,
e lo scopo era raggiunto, nel mezzo della notte ordinò la ritirata su
Monterotondo. Egli aveva avuto un messaggio, col quale lo si informava
che i francesi sbarcati a Civitavecchia erano in marcia forzata per
Roma, e perciò si voleva preparare a riceverli.

Arrivati a Monterotondo mandava il seguente contrordine:

          «Al generale Nicotera.

«Per i due messi vostri, che vidi questa mattina vi inviai ordine di
occupare Tivoli, e lo stesso ordine vi confermo ora.

«--Qui tutto va bene.

«--Interventi o non interventi, bisognerà compiere l'unificazione della
patria.

«A Tivoli troverete Pianciani con un battaglione.

«Scrivetemi subito.

«Monterotondo 31 ottobre.

                                                  _G. Garibaldi_.

Col ritorno a Monterotondo una gran parte di volontari disertarono le
loro file per ritornare alle loro case, tantochè alla sera del 2
novembre all'appello neppure la metà delle forze si trovò presente.

                                    *
                                   * *

Garibaldi, commosso per l'eroica morte di Enrico Cairoli e dei suoi
prodi, scriveva il seguente ordine del giorno.

          «Volontari italiani!

«La Grecia ebbe i suoi Leonida, Roma antica i suoi Fabi, e l'Italia
moderna i suoi Cairoli, colla differenza che con Leonida e Fabio gli
eroi furono trecento: con Enrico Cairoli essi furono settanta, decisi di
vincere o morire per la libertà italiana.

«Nella notte del 22 al 23 del passato mese, 70 prodi comandati da Enrico
e Giovanni fratelli Cairoli, ardirono, pel Tevere, gettarsi fin sotto le
mura di Roma, col magnanimo pensiero di portare soccorso d'armi e di
braccia al popolo romano combattente.

«A ponte Molle non vedendo i segnali convenuti, sostarono. Giovanni
Cairoli spedito in ricognizione riferiva cessata la pugna in Roma.
«Ritirarsi o morire». Quei generosi preferirono la morte.

«Si asseragliarono in S. Giuliano, e quivi, uno contro quattro, armati
di soli revolvers, questi prodi, operando miracoli di valore, di gloria
imperitura coprirono un'altra volta il nome italiano.

«Attaccati da due compagnie di zuavi e antiboini, intrepidamente ne
sostennero l'urto. La pugna fu accanita e sanguinosa; ma davanti a quel
pugno di valorosi i mercenari del papa ripiegarono. Molti i caduti dei
nostri, fra i quali i Cairoli e l'Enrico morto.

          «Volontari».

«Tutte le volte che vi troverete a fronte dei mercenari pontifici
ricordatevi degli eroi di San Giuliano.

Monterotondo 2 novembre.

                                                  _G. Garibaldi_.

Ordine del giorno al maggiore Eugenio Andruzzi.

«Il maggiore Andruzzi ha il comando dei distaccamenti composti dei
_Volanti_, i quali non devono oltrepassare i 50 uomini cadauno nè essere
meno di 30.

«Egli opererà con queste forze sulla destra del Tevere disturbando il
nemico in ogni modo e dando al quartier generale ogni notizia di
considerazione.

«Esso procurerà di sorprendere i distaccamenti, esploratori, gendarmi e
spie, e di non essere sorpreso giammai.

«Perciò le sue marcie saranno più di notte che di giorno.

«Distruggerà vie ferrate, i fili elettrici che possono servire al
nemico.

«Dovrà farsi amiche le popolazioni e fregiare di bei fatti e con
condotta irreprensibile la nobile missione di servire questa santissima
causa.

Monterotondo 2 novembre.

                                                  _G. Garibaldi_.

Il 2 novembre con un ordine del giorno veniva stabilito l'ordine di
marcia per la via di Tivoli. Si doveva partire da Monterotondo nelle
prime ore del mattino del 3; invece, per non si sa qual contrattempo,
s'incominciò la marcia verso le ore 12.

Si erano dal Generale ordinati corpi di esploratori, di avanguardia e
fiancheggiatori.

Le posizioni di Palombara, Sant'Angelo, Monticelli erano state occupate
da tre battaglioni comandati dal colonnello Paggi, si era quindi
tranquilli contro ogni sorpresa; ma non fu così.

Appena oltrepassata Mentana l'avanguardia veniva attaccata dai soldati
pontifici.

Da un bosco che si trova a destra della strada che da Mentana va a
Tivoli, era incominciato il primo attacco contro un piccolo reparto dei
nostri che precedeva la colonna in marcia. Menotti accorse con tre o
quattro ufficiali del suo stato maggiore e il suo capo guida Augusto
Lorenzini, per riconoscere il nemico, ma non si potè accertate che di
una cosa, e cioè che il bosco era fortemente occupato--si sperò che
fosse una ricognizione di non grande importanza e Menotti ordinava a
Stallo di avanzare col suo battaglione, d'occupare i punti più elevati a
destra e sinistra della strada, spingendo le catene per sloggiare il
nemico. Intanto sopraggiungevano i battaglioni di Burlando, di Missori,
di Mayer che cogli uomini di Stallo si spiegarono a destra per sostenere
l'urto delle forze papaline, mentre Menotti pensava alla difesa del
centro e della sinistra.

Ben presto si potè constatare che si aveva di fronte tutto intero
l'esercito pontificio e Garibaldi spiegava immediatamente le sue forze
indicando a ciascuna colonna la posizione da occupare e ordinando un
simultaneo contrattacco che fu spinto con bravura e sostenuto
gagliardamente contro forze assai superiori per oltre due ore. Ma verso
le 3 pom. soprafatti da nuove forze, contrastando palmo a palmo il
terreno, i garibaldini furono costretti di abbandonare i pagliai ed
indietreggiare fin sotto le case di Mentana.

In quel punto i tiri rapidi e ben aggiustati dei nostri, appostati nelle
case che avevano occupato per ordine del generale, e quello dei due
cannoni che Garibaldi stesso aveva fatto piazzare in eccellente
posizione, arrestano la foga del nemico.

La presenza del generale Garibaldi accompagnato da Fabrizi, da Menotti,
da Canzio, da Mario, da Guerzoni e da altri, infonde nuovo ardire nei
nostri; il generale ordina la carica alla baionetta--un urrà di gioia
saluta il comando--e la carica fu generale, splendida pel risultato. Il
nemico abbandona le posizioni, i nostri riacquistano le loro e si
procede all'assalto di Villa Santucci, certi ormai della vittoria.

Ma vinti i papalini, altro nemico sconosciuto, fin allora rimasto
invisibile, giungeva in quel punto, fresco di combattimento a
rimpiazzare i vinti, venendo a fulminare di fianco con fuoco di fila mai
interrotto i trafelati garibaldini.

Grandi masse nere si avanzavano intente ad impadronirsi dei dossi delle
colline di sinistra coll'obiettivo evidente di tagliare la ritirata su
Monterotondo. I bravi garibaldini sparavano le loro ultime cartucce; ma
era fuoco sprecato, perchè le nostre palle non arrivavano neppure alla
metà della lunga linea percorsa dal nuovo nemico.

La resistenza era ormai impossibile--e Garibaldi visto il pericolo di
essere in breve avviluppati, ordinava la ritirata su Monterotondo, che
fu eseguita sotto il continuo grandinare delle palle dei soldati
dell'imperatore dei francesi.

Giunto a Monterotondo Garibaldi pensò di organizzare la difesa
asserragliandone l'entrata. Ma mancavano del tutto le munizioni avendo i
bravi garibaldini consumata fin l'ultima cartuccia; quale difesa era
possibile?

I prodi difensori del governo teocratico portarono a Roma, trofeo di
vittoria, i due cannoni di Monterotondo, non nostri ma del Papa: e fu
una mistificazione!

Portarono è vero dei prigionieri--ma anche questi con frode perchè
violarono _i patti_ della capitolazione segnata col comandante del
Castello, i quali sancivano che tutti i garibaldini che si trovavano nel
Castello e nelle case di Mentana dovevano essere compresi nella
capitolazione e lasciati liberi di ritornare alle loro case.

Per dare un'idea di come si svolse una parte dell'azione, ecco il
rapporto del colonnello Elia al generale Fabrizi:


               _Rapporto del Comandante la 6ª Colonna
            al capo di Stato Maggiore del Comando Generale_
                      Generale _Nicola Fabrizzi_.

                                     Ancona, li 12 novembre 1867.

          Generale,


«Rispondo all'invito diretto dalla S. V. a tutti i comandanti di Colonne
che si trovarono presenti al combattimento di Mentana, inviandole questo
rapporto sulla parte avuta nel combattimento suddetto, dalla 6ª colonna
da me comandata.

Alle ore 11 1/2 a. m. del 3 corrente mossi da Monterotondo alla testa
della Colonna seguendo l'ordine di marcia prescrittami dal Comando
Generale con ordine del giorno della sera precedente.

«Le mie forze, molto diradate dopo il ritorno a Monterotondo, si
componevano del 18º Battaglione, ridotto a 195 uomini, comandato dal
maggiore Perlach Pietro, del 19º comandato dal maggiore Cesare Ghedini
forte di 200 uomini, del 20º battaglione comandato da Cesare Bernieri
forte di 340 uomini, rimasto a Monterotondo agli ordini del Comandante
di quella piazza colonnello Carbonelli.

«Giunto al paese di Mentana verso la 1 p. m. dovetti fare alto essendomi
impedita la marcia dai volontari della 3ª colonna, che ci precedeva,
comandata dal colonnello Valzania, i quali con un'ordinata contromarcia
a sinistra passando avanti il nostro fronte si portavano a prendere
posizione sulle colline a sinistra del paese. Da qualche ferito, che si
vide passare, avemmo conoscenza che ci trovavamo in faccia al nemico e
che ai posti avanzati eransi incominciate le fucilate. In quel punto mi
venne ordine dal generale Garibaldi, trasmessomi dal suo aiutante
capitano Coccapieller, di fare occupare da parte dei miei le case a
sinistra di Mentana. Trasmisi l'ordine ai maggiori Perlach e Ghedini ed
i nostri vi penetrarono risoluti a respingere ogni attacco del nemico.
Vista eseguita tale operazione mi portai presso Garibaldi per ulteriori
istruzioni. Egli trovavasi a metà del paese circondato dai vecchi
compagni e dai suoi aiutanti, dando ordini pel combattimento. Vedutomi,
mi diede ordine di raccogliere le rimanenti mie forze e di spingermi con
esse al di là delle case, che formano il lato sinistro del paese di
Mentana, se vi si giunge da Monterotondo; ordinai ai miei, che non erano
nelle case, di seguirmi in avanzata verso la parte più presa di mira dal
nemico. Avevo con me i maggiori Perlach e Ghedini, l'aiutante maggiore
Tironi, l'aiutante in seconda Barattini Filippo, l'ufficiale d'ordinanza
Falaschini Pietro, il capitano Berti Antonio, il tenente Augusto
Marinelli, il mio capo di stato maggiore capitano Boldrini, il capitano
Canini dei Mille, il tenente Occhialini ed i sottufficiali Longhi,
Zagaglia, Beretta, Melappioni, Berti, Pezzali, Leone Bucciarelli,
Saltara, Beducci, Mariotti, Marinelli Luigi, Ferraioli ed i caporali
Luigi Padiglioni, Cesare Burattini e l'aiutante del 18º battaglione
sottotenente Luigi Carnevali. Si erano pure uniti a me i capitani Grassi
e Ballanti.

Altri volontari comandati da Salomone[1] e da Frigesy, fra i quali i
bravi Buratti e Giammarioli rafforzavano la posizione, fatta segno alle
palle nemiche.

    [1] Il 3º battaglione della colonna Salomone comandato dal
    maggiore Ravelli prese strenua parte al combattimento a fianco dei
    miei; del battaglione facevano parte alcuni anconitani fra i quali
    il furiere Aldobrando Campagnoli che a Montelibretti si condusse con
    tanto valore da venire proposto per la promozione ad ufficiale,
    Riccardo Cancellieri ed il Federici nativo di Rimini. A Mentana il
    Campagnoli combattendo a corpo a corpo, venne ferito da colpo di
    baionetta e fatto prigioniero dai francesi.

Ordinai ai bravi che avevo con me, di spiegarsi in catena e rasentando
le siepi, fiancheggianti la strada che taglia quei campi e conduce alla
villa Santucci, spingersi in avanti nell'intento di sloggiare il nemico
dalla villa occupata. I garibaldini rispondevano da bravi al fuoco
nemico e gli ufficiali ne li incoraggiavano; eravamo fulminati
dall'artiglieria e dal fuoco vivissimo delle carabine; più di un
volontario era caduto al mio fianco e già feriti il mio aiutante in
primo Tironi, il capitano Antonio Berti che bravamente rimasero al loro
posto. La faccenda si faceva sempre più seria; mandai l'aiutante in
seconda Burattini, onde riunisse quanti dei nostri potesse e li portasse
con sè al fuoco, ma ritornò solo. Si era da ogni parte impegnati e non
conveniva fare scendere i garibaldini che occupavano le case; privi di
rinforzi ed incalzati dagli Zuavi pontifici fin sotto le case di
Mentana, riuniti intorno a me quanti più ne potei, ufficiali e soldati,
ordinai una carica alla baionetta; coadiuvati dai nostri, che dalle case
tiravano addosso agli assalitori e dal tiro dei cannoni che il Generale
aveva fatto piazzare in buon posto, i miei, incoraggiati dagli ufficiali
primi ad esporsi, si slanciano contro i papalini e sotto gli occhi di
Garibaldi, di Fabrizi, di Menotti, di Ricciotti, di Canzio, di Mario e
di altri bravi giunti sul posto in quel punto, mettono in fuga,
incalzandoli colla punta della baionetta, gli assalitori. Fu un attacco
brillantissimo, tanto che Canzio, che mi era venuto vicino, si
congratulò con me pel risultato. Si credette per un momento alla
vittoria.

«Ciò avveniva verso le 4 pom.; ma passato poco tempo ci vedemmo più
fortemente attaccati in altro punto.

«Il generale Fabrizi, venerando patriota, esperto ed ardito soldato, si
era trovato esso pure in quella pericolosa posizione, incoraggiando col
suo esempio e sangue freddo al combattimento i nostri, i quali sfiniti
da una lotta che durava da quattr'ore incessante, e qualche volta a
corpo a corpo, bruciavano sul nemico in fuga le ultime cartuccie.
Attorno a Fabrizi stavano gli eroi di cento altri combattimenti,
Missori, Guerzoni, Tanara, Bezzi; tutti studiavano le mosse del nemico,
che credevano in ritirata; questo invece, cambiata tattica e direzione
all'attacco, spingeva forti colonne sulle alture della nostra posizione
di sinistra, difesa da Valzania, allo scopo di tagliarci la ritirata su
Monterotondo.

«La natura dei tiri, la regolarità e rapidità dei medesimi, il fischio
delle palle, tutto aveva cambiato. Non erano più le truppe papaline che
si battevano contro i pochi ed estenuati garibaldini, privi ormai di
munizioni; stavano di fronte ad essi i primi soldati del mondo che
facevano le prime prove dei loro Chassepot sui petti dei patrioti
italiani.

«La colonna Valzania stette salda finchè ebbe cartuccie da sparare
contro il formidabile assalto; ma poi, sopraffatta da forze imponenti e
ridottasi senza munizioni, dovette ripiegare. Abbandonata la posizione
di sinistra fu giuocoforza ai nostri di battere con la maggiore celerità
possibile in ritirata, per non essere tagliati fuori da Monterotondo.

«Non furono però in tempo di farlo i molti, che trovavansi, per ordine
avuto dal Generale, ad occupare le case ed il Castello di Mentana, i
quali rimasero prigionieri e fra questi molti del 18º e 19º battaglione
appartenenti alla mia colonna.

«Il 20º battaglione, pure facente parte della 6ª colonna, rimasto a
Monterotondo, fece anch'esso il suo dovere. Il bravo capitano Litta, che
lo comandava in assenza del maggiore Bernieri, visto che a Mentana erasi
impegnata con calore l'azione, allo scopo di garantire ai nostri la
ritirata in caso di rovescio, portò la maggior parte delle sue forze ad
occupare il convento dei Cappuccini situato in buona posizione sulla
strada che va a Mentana, da dove potè arrestare la foga dei francesi,
che si avanzavano seguendo i nostri, i quali poterono ritirarsi con
ordine. Giovò non poco l'azione risoluta del capitano Raffaello
Giovagnoli, che si trovava al Romitorio, da dove respingeva i ripetuti
attacchi del nemico. Egli volle tentare un ultima controcarica alla
testa di un centinaio di valorosi, che fecero prodigi. Molti di quei
bravi caddero attorno al Giovagnoli colpiti dalle palle dei Chassepot
dell'imperatore di Francia; fra quelli che più si distinsero per
valore, primeggiò il sottotenente Luigi Coralizzi, che riportava grave
ferita alla testa da farlo ritenere per morto.

«Tutti fecero il proprio dovere. Gli ufficiali molto si distinsero per
ardire e sangue freddo, nel condurre i volontari al combattimento.

«Non mi è permesso di dare preciso ragguaglio dei feriti e dei morti
appartenenti alla mia colonna, stantechè, come già dissi, essendo una
buona parte dei volontari rimasti entro le case occupate per ordine del
generale Garibaldi, fu ad essi chiusa la ritirata su Monterotondo e
caddero quindi prigionieri dei francesi. E potendo avvenire, che per la
inesattezza delle notizie, io ommetta di comprendere fra i primi alcuni
di quelli che sono ora prigionieri in Roma, mi è forza astenermi dal
compilare la nota richiestami dalla S. V. Onorevolissima; però mi
riserbo inviarla non appena per via di documenti e di esatte
informazioni, sarò giunto a conoscere con sicurezza il vero stato delle
cose.

«Frattanto le invio un primo elenco dei feriti e dei morti, che non mi
fu difficile di compilare, essendo quasi tutti caduti a me vicini,
mentre difendevano la importante posizione affidataci dal generale
Garibaldi. Morti, il capitano Grassi di Jesi, i tenenti Vianini Pietro
di Alessandria, Mazzoni Giuseppe di Bologna, i furieri Giorgini
Francesco di Sinigallia, Pezzoli Augusto di Bologna, i caporali del
Frate Valentino di Fabriano, Cappuccini Pietro di Ancona, Luzzi
Baldassare di Osimo, Toscani Domenico di Filottrano, Petravecchia Nicolò
di Matelica. Feriti i capitani: Tironi Augusto aiutante maggiore, Berti
Antonio di Ancona, Canini Cesare dei Mille, Ballanti Gaspare di
Corinaldo, Zagaglia Carlo di Jesi; i tenenti Occhialini Serafino,
Falaschini Pietro di Ancona, Montanari Giovanni di Bagnacavallo,
Campagnoli Aldebrando di Ancona; i furieri Elia Leopoldo di Ancona,
Berti Raffaele di Ancona, Pezzoli Augusto di Bologna, Gatti Filippo di
Jesi, i sergenti Marchetti Virgilio di Ancona, Fida Camillo di Fabriano,
Bernani Cesare di Fabriano; i soldati Marsili Luigi di Osimo, Sileoni
Tita di Osimo, Nigretti Federico di Bagnacavallo.

                                     Il comandante la 6ª colonna

                                            Col. _A. Elia_.

Dopo il sanguinoso combattimento e la ritirata, il generale fu per lungo
tempo deciso a continuare la resistenza in Monterotondo. Non voleva
sentire parlare di ritirata «La nostra bandiera é _Roma o Morte_. Non
siamo andati a Roma dobbiamo morire qui!» diceva. Ma i comandanti di
colonna, credettero loro dovere d'insistere nell'interesse della patria,
e vollero che l'Elia assumesse l'incarico del tentativo ad essi fallito.

Fu con fatica che Elia poté persuadere il generale, che la vita sua e
dei suoi doveva essere conservata all'Italia. Il generale scosso domandò
se Fabrizi, Menotti e Ricciotti erano rientrati, ed avendo Elia risposto
affermativamente, questi gli diede l'incarico di ordinare la ritirata su
Passo-Corese. La ritirata fu eseguita senz'essere punto molestata e si
passò la notte sul territorio ancora tenuto dal papa per virtù
dell'intervento dei soldati dell'imperatore dei francesi.

Quando al mattino il generale entrava nel territorio italiano, il primo
che gli si presentò fu il colonnello Caravà, già suo ufficiale, allora
comandante del 4º granatieri di guardia al confine, il quale durante la
campagna si era fraternamente interessato, in tutti i modi possibili,
permessigli dalla disciplina, de' nostri sbandati e dei nostri feriti.
Garibaldi gli porse la mano e gli disse:

«Colonnello, siamo stati battuti, ma potete assicurare i nostri fratelli
dell'esercito che l'onore delle armi italiane è salvo».

Eloquente epigrafe di quella campagna, che, nel 1899 ebbe il battesimo
di riconoscimento, allorchè per volontà del parlamento fu riconosciuta
campagna nazionale.

Dippoi si fece la consegna delle armi da parte dei soldati volontari
alle truppe italiane.

Quando i compagni presero congedo dal generale che saliva sul treno per
Firenze tutti erano commossi; Elia gli disse:--«Non tarderà altra
occasione--ricordatevi di me generale!». Ed Egli tenendogli la mano fra
le sue, rispondeva:--«Mi ricorderò di voi, come della mia sciabola».

       *       *       *       *       *

Mentana può considerarsi come uno di quei casi fatali, che affrettano i
destini di una Nazione; come un olocausto inevitabile, necessario!
Questo glorioso combattimento, anche una volta dimostrò che gl'italiani
si battevano: 4000 garibaldini, male armati, quasi senza munizioni,
affamati tennero gagliardamente testa a 5000 papalini ed a 4000
francesi, armati di Chassepot, tenendoli a rispettosa distanza per mezza
giornata e facendo pagar cara la loro vittoria.




                            =CAPITOLO XXVI.=

                 =Il 1870--Digione--Entrata in Roma.=


Sul principio del 1870, scoppiavano una dietro l'altra, le notizie
dell'anno terribile; l'antico duello tra Francia e Germania ripreso; il
primo esercito francese distrutto a Worth e a Gravelotte; il secondo
annientato a Sedan; l'imperatore stesso fatto prigioniero; l'impero
caduto e in Francia la repubblica proclamata; gli eserciti di Germania
sotto le mura di Parigi.

La Francia, troppo grande per darsi vinta, faceva sforzi eroici per
rialzarsi.

Mentre il governo italiano spinto dall'unanime sentimento del partito
liberale si apprestava alla conquista di Roma, Garibaldi offriva la sua
spada alla repubblica francese. Ma al governo della difesa nazionale non
giunse gradita l'offerta, e l'avrebbe respinta se il generale Bordone,
amico di Garibaldi, non si fosse assunto l'incarico e la responsabilità
di scrivergli che sarebbe stato accolto a braccia aperte dal popolo
francese.

Saputo che il generale voleva andare in Francia, Elia, che con molti
altri era pronto ad accompagnarlo, gli scriveva che esso e i compagni
aspettavano una sua chiamata, desiderosi di seguirlo; contemporaneamente
scriveva all'amico Canzio che così rispondevagli:

                                       Genova, 28 settembre 1870.

          Mio carissimo Elia,

«Il generale è prigioniero a Caprera e Menotti a Catanzaro, e in Francia
non ci vogliono.

«Codesti novelli Bruti, che oggi reggono la cosa pubblica in Francia,
vogliono diplomatizzare e non pensano a prepararsi a lotta suprema, che
abbia per obbiettivo, la cacciata dell'invasione straniera.

«M'ingannerò, ma essi non servono, come dovrebbero, la Francia e la
causa repubblicana.

«Alla generosa e patriottica offerta del generale non risposero ancora;
allo slancio dei volontari contrappongono ordini rigorosissimi ai
consoli e ai confini donde siamo rimandati.

«Domani avrò lettera dal generale e ordini suoi, che immediatamente ti
comunicherò; per ora io ti consiglio a non muoverti.

«Saluto gli amici.

                                                    «Aff.mo tuo

                                                   «_S. Canzio_».

E così Elia e gli amici, che sarebbero andati con lui, non si mossero.

Coloro che seguirono il generale Garibaldi tennero alto anche una volta
il valore italiano fugando a Digione le schiere degli invasori,
vendicando in modo così generoso il fratricidio della repubblica Romana
ed il fatto di Mentana.

Nobile sangue italiano fu versato sul suolo francese ed è titolo di
gloria il rammentare, che l'unico trofeo che si conserva in Francia di
quella guerra disastrosa, è la bandiera del 61º reggimento prussiano
strappata sotto un grandinare di palle dai garibaldini, comandati da
Ricciotti Garibaldi.

Ecco quello che Garibaldi dice nel suo libro: «Memorie Autobiografiche»
_della Campagna di Francia._ «Il governo della difesa nazionale,
composto di tre onesti individui meritevoli della fiducia del paese, mi
accolse perchè imposto dagli avvenimenti, ma con freddezza;
coll'intenzione manifesta di volersi servire del mio povero nome, ma non
altro; privandomi dei mezzi necessari a che la cooperazione mia potesse
riuscire utile.

«Gambetta, Cremieux, Glain-Bizoin individualmente furono con me gentili;
ma il primo, più di tutti, da cui avrei dovuto aspettarmi un concorso
energico, mi lasciò in abbandono durante un tempo prezioso.

«Nei primi di settembre 1870 fu proclamato il governo provvisorio in
Francia, ed io il 6 di quel mese offrii i miei servizi a quel governo; e
quel governo stette un mese senza rispondermi; tempo prezioso in cui si
sarebbe potuto far molto, e che fu intieramente perduto.

«Solo ai primi di ottobre seppi che sarei stato accolto in Francia, ed
il generale Bordone, a cui solo si deve la mia accettazione, venne a
cercarmi in Caprera col piroscafo la _Ville de Paris_, capitano Condray,
sul quale giunsi a Marsiglia il 7 ottobre.

«Esquiros, prefetto dell'illustre città e la popolazione entusiasmata mi
accolsero festosamente; un telegramma del governo di Tours mi chiamava
immediatamente presso di sè.

«A Tours perdetti vari giorni per l'indecisione del governo, e mi trovai
sul punto di dovermene tornare a casa, perchè compresi che ero poco
gradito; l'incarico che si voleva darmi, quello di organizzare alcune
centinaia di volontari italiani che si trovano a Chambery ed a
Marsiglia, lo dimostrava.

«Dopo controversie coi signori del governo, mi recai a Dôle per
raccogliervi quegli elementi d'ogni nazionalità che dovevano servire di
nucleo al futuro esercito dei Vosges.

«I Prussiani marciavano su Parigi dopo Sédan, e naturalmente sul loro
fianco sinistro, ove s'addensavano le nuovo reclute della Francia, essi
dovevano tenere dei fiancheggiatori, e questi più volte comparvero sino
nei dintorni di Dôle, ove tenevo pochi uomini in via d'organizzazione,
poco equipaggiati, e, quel che è peggio, per molto tempo male armati; il
nostro contegno, comunque, fu energico, prendendo posizione a Mont
Rolland prima, e poi nella Foret de la Serre, dimodochè Dôle rimase
inviolata per tutto il tempo che noi vi soggiornammo.

«Da Dôle ebbi ordine in novembre di portarmi colla mia gente nel Morvan,
minacciato dal nemico, assieme all'importante stabilimento metallurgico
del Creuzot.

«Io scelsi Auton per porvi il mio quartier generale; l'arrivo degli
Italiani di Janara e di Ravelli, di alcuni Spagnoli, Greci, Polacchi, e
di alcuni battaglioni di mobili cominciò a rialzare l'effettivo del
nostro piccolo esercito, perchè avemmo alcuni pezzi da montagna, due
batterie di campagna e alcune guide a cavallo; la maggior parte
d'italiani.

«Si organizzarono tre brigate; la prima comandata dal generale Bossack;
la seconda dal colonnello Delpeck che poi passò sotto gli ordini del
colonnello Lobbia, e la terza comandata da Menotti; la quarta brigata
sotto il comando di Ricciotti, si componeva da principio di sole
compagnie di franchi tiratori, operanti in colonne volanti, e
sull'ultimo della campagna venne accresciuta con alcuni battaglioni di
mobilizzati. Capo di Stato Maggiore dell'Esercito fu il generale
Bordone, che in occasione di mia infermità supplì me stesso in ogni
circostanza; Capo del mio quartier generale fu il colonnello Canzio,
sinchè prese il comando della quinta brigata alla quale aggiunsi la
prima, dopo la morte del generale Bossack; comandante dell'artiglieria
fu il colonnello Olivier.

«I due nostri squadroni di guide furono comandati dal Forlatti; il
dottore Timoteo Riboli fu capo dell'Ambulanza; comandante di piazza
presso il quartier generale il tenente colonnello Demag; capo del genio
il colonnello Gauklair.

«Con tale organizzazione alquanto improvvisata, movemmo verso la metà di
novembre per Arnay-le-Duc e la Valle dell'Ouche che scende a Dijon, ove
si trovava l'esercito prussiano di Werder che minacciava la vallata del
Rodano, e che teneva i suoi avamposti verso Dôle, Nuits, Soubernon,
taglieggiando con delle scorrerie tutti i paesi circonvicini.

«Il sedicente esercito dei Vosges, forte di circa ottomila uomini,
marciava dunque contro l'esercito vittorioso di Werder di circa
ventimila uomini con molta artiglieria e cavalleria.

«I nostri tiratori impegnarono subito varie scaramuccie di non grande
rilievo, eccettuata la brillante impresa di Ricciotti su Châtillon sur
Seine, e quella d'Ordinarie. Nella prima, i franchi tiratori della
quarta brigata eseguirono una magnifica sorpresa, la quale è narrata
nell'ordine del giorno seguente:


                           ORDINE DEL GIORNO

«I franchi tiratori dei Vosges, i cacciatori dell'Isêre, i cacciatori
delle Alpi (Savoiardi), il battaglione del Doubs, ed i cacciatori
dell'Hâvre che sotto la direzione di Ricciotti Garibaldi han presa parte
all'affare di Châtillon, hanno ben meritato della Repubblica.

«In numero di quattrocento essi assalirono circa mille uomini, li
sconfissero, fecero loro centosessantasette prigionieri, fra cui tredici
ufficiali, presero ottantadue cavalli sellati, quattro vetture d'armi e
munizioni e il carro della posta. I nostri ebbero sei morti e dodici
feriti, assai più i nemici. Raccomando i prigionieri alla generosità
francese.

«Arnay-le-Duc, 21 novembre 1870.

                                                 _G. Garibaldi_».

«Eravamo alla metà di novembre e nulla si era ancora da noi operato
d'importante; qualche cosa conveniva fare.

«Misurarsi in un attacco di giorno contro l'esercito di Werder che
occupava Dijon, sarebbe stata una stoltezza, si poteva fare un tentativo
di notte. Di notte la diversità delle armi spariva, giacchè anche in
Francia c'eran toccati i soliti ferracci, e questi nelle tenebre
potevano sembrare fucili ad ago, con cui erano armati i nemici; oltre
che io avevo per massima che non si deve sparare in un attacco di notte,
massime da militi nuovi.

«La mattima del 26 novembre, essendo io montato a cavallo a Lantenay per
riconoscere quell'altipiano, mi trovavo con lo Stato Maggiore su quelle
alture, quando una colonna di più migliaia di prussiani con le tre armi,
uscita da Dijon, avanzavasi per la strada maestra verso noi.

«Ordinai a tutte le forze che si trovavano nel villaggio di Lantenay di
salire sull'altipiano, e le collocai di mano in mano che arrivavano nei
loro posti di battaglia, a destra e sinistra della strada per cui
giungevano, lasciando sulla stessa strada alcuni battaglioni in colonna
come riserva, e per una carica decisiva, in caso che il nemico si
spingesse sino alle nostre linee. La maggior parte della terza brigata,
che formava il nerbo delle nostre forze, occupava la sinistra schierata
sull'orlo del bosco, con le sue linee di tiratori in fronte sul ciglione
della collina che dominava il bosco stesso. Le riserve nella strada
appartenevano esse pure alla terza brigata.

I carabinieri genovesi erano collocati all'estrema sinistra, e la nostra
artiglieria composta di una batteria di campagna, da 4 rigata e di due
batterie da montagna, si era collocata alla sinistra dei genovesi in
posizione dominante tutte le altre.

«Sulla nostra destra eranvi i franchi tiratori di Lhost che furono poi
rinforzati da quei di Ricciotti. La poca cavalleria composta di trenta
cacciatori e di alcune guide, s'era collocata in fronte del centro
nostro in una depressione del terreno. Si aveva una forza di cinquemila
uomini in tutto.

«Nel combattimento di Lantenay, 26 novembre 1870, non prese parte nè la
prima nè la seconda brigata. La prima, perchè nel giorno anteriore,
verso Fleury in conseguenza di quel combattimento, erasi ritirata su
Pont de Pany. La seconda era in marcia ed arrivò il 27 a Lantenay.

«Il reggimento Ravelli della terza brigata, composto d'italiani, era
pure assente, trovandosi verso l'Ouche.

«Occupato Paque dal nemico, io feci avanzare due pezzi della nostra
artiglieria sostenuti da alcune linee di tiratori, che cacciarono con
pochi tiri il nemico dal villaggio.

«Mentre ciò succedeva, i Prussiani avevano fatto gran mostra delle loro
forze schierandole sulle dominanti alture di Prenois. Mentre il loro
battaglione si ritirava con precipitazione da Paques, appena sostenuti
da alcuni pezzi, non fecero avanzare la superba linea che stava in
riserva--«Dunque essi non sono in gran forza!» ecco il ragionamento che
io mi feci subito--«Non vengono? ebbene andiamo noi a trovarli».--Mi
decisi quindi di attaccarli, e marciammo risolutamente contro il nemico,
colla stessa ordinanza di battaglia con cui lo avevamo aspettato nelle
posizioni nostre.

«I nostri franchi tiratori di destra caricarono la sinistra nemica
bravamente, minacciando di avvolgerla. La terza brigata avanzava in
ordine perfetto, colle sue linee di bersaglieri al fronte, seguita da
colonne di battaglioni così serrate da destare invidia ai soldati i più
agguerriti.

«Io andavo superbo di comandare tale gente contemplando la
bell'ordinanza su di un campo di battaglia vero, e tanta intrepidezza da
parte dei miei giovani fratelli d'armi.

«Le artiglierie nemiche collocate sulle alture di Prenois, fulminavano
le nostre linee, come sanno fare i pezzi prussiani; eppure non si
scorgeva nei centri la minima esitazione; nessuna ondulazione nelle
linee, ammirabile il loro contegno; l'energia, la fermezza e la fredda
bravura delle truppe repubblicane, scossero l'impassibile intrepidezza
dei vincitori di Sédan; e quando essi videro che non si temevano le loro
granate, ma si avanzava coraggiosamente e celeramente alla carica,
cominciarono la loro ritirata su Dijon. Due sole nostre compagnie che
avevano fiancheggiato il villaggio sulla destra in sostegno della nostra
cavalleria, caricarono insieme un battaglione di riserva prussiana, che
con due pezzi d'artiglieria era rimasto indietro, per proteggere la
ritirata, cagionandogli forti perdite. Si distinsero in quella carica il
colonnello Canzio ed il comandante Boudet, che entrambi ebbero morti i
cavalli.

«Lo spirito dei miei militi era stupendo; eravamo stati sì felici nella
giornata che io presi la risoluzione di tentare un colpo disperato, che
riuscendo avrebbe potuto rialzare le sorti della sventurata repubblica e
forse obbligare il nemico ad abbandonare l'assedio di Parigi, vedendosi
minacciato sulle principali sue linee di comunicazione. Ma quali mezzi
aveva posti in mia mano il governo della difesa? Io rabbrividisco
pensandovi! Era troppo presumere, sperando una vittoria! Però in una
notte piovosa della fine di novembre pensai di fare un tentativo,
confidando che in caso di non riuscita avremmo avuto tempo sufficiente
per ritirarci: decisi l'attacco. L'inaspettata aggressione produsse in
Dijon una qualche confusione; ma, sia detto in onore della Germania, i
numerosi corpi ivi stanziati, scaglionaronsi prontamente nelle forti
posizioni di Talant, Fontaine, Hauteville, Daix e ci ricevettero con una
grandine tale di fucilate, come non vidi mai l'eguale.

«I miei giovani militi tennero testa e compirono quanto si poteva
compiere in tale circostanza. I posti esterni dei prussiani furono
assaliti uno dopo l'altro, conquistati e distrutti malgrado una fiera
difesa.

«La mattina i nostri cadaveri si trovavano ammonticchiati sui cadaveri
dei nemici, la maggior parte di questi forati da bajonette, giacchè
l'ordine era di non sparare.

«Giunti, sotto Talant, il fuoco nemico era troppo formidabile per
poterlo superare e si dovette ripiegare a destra ed a sinistra della
strada maestra, per scansare i tiri diretti che la solcavano
orribilmente e facevano strage.

«Il nostro assalto alle posizioni di Dijon cominciò verso le sette
pomeridiane; era molto buio e tempo piovoso. Sino alle 10 ebbi molta
fiducia di riuscire; ma scorsa quell'ora i capi della mia avanguardia mi
fecero sapere essere inutile persistere nell'assalto, essendo spaventosa
la resistenza del nemico ed impossibile fare avanzare la nostra gente.
Con reluttanza mi dovetti conformare alle asserzioni dei miei fidi e
dovetti ordinare la ritirata che per essere di notte potè effettuarsi
senza perdite. Il nemico non si mosse dalle sue posizioni e noi non
fummo disturbati.

«Luogo di concentramento di tutti i corpi in ritirata del sedicente
esercito dei Vosges su Autun.

«Il 1º decembre il nemico, imbaldanzito dalla nostra ritirata, venne di
sorpresa ad attaccarci ad Autun. Collocate le loro artiglierie sulle
alture di Saint Martin cominciarono a fulminarci--Era verso il
mezzogiorno.

«Feci collocare i nostri diciotto pezzi in posizione dominante quella
nemica e questi serviti con ardore e bravura dai nostri giovani
artiglieri, tempestarono di projetti l'avversario e lo obbligarono dopo
più ore di combattimento, a portare indietro i propri pezzi.

«Alcune compagnie di franco tiratori ed alcuni battaglioni di mobili
lanciati sul fianco sinistro dei Prussiani, completarono la giornata, ed
il nemico fu obbligato a ritirarsi.

«A Autun servimmo di cortina e protezione ai due movimenti di fianco che
si operarono da Chagny a Orleans dal generale Crousat, e dal grande
esercito della Loira, comandato dal generale Bourbaky verso l'est. In
conseguenza del movimento del generale Bourbaky, i prussiani
abbandonarono Dijon, e noi l'occupammo con alcune compagnie di franchi
tiratori e dipoi con tutte le nostre forze».

Prima di abbandonare Autun il generale consegnava a suo figlio Ricciotti
il seguente:

                            ORDINE DEL GIORNO

«Partendo da Autun devi pigliare la direzione di Sémur e di Montbard per
turbare le comunicazioni del nemico, il quale occupa Troyes e Auxerre, e
di quello che occupa Dijon.

«Potendo arrivare a Montbard, Châtillon, Chaurmont, Neufcháteau, sulla
gran linea delle comunicazioni dell'inimico, la quale va da Strasburgo a
Parigi, l'operazione diventerà molto più ardua e più importante.

«All'uopo di compiere con successo tale missione ci vogliono militi _ad
hoc_, cioè uomini forti ed agili; quanti nol fossero debbono rimanere ad
Autun nei depositi, ove serviranno di nocciolo per l'istruzione dei
nuovi franchi tiratori.

«Sorpassati gli avamposti del nostro esercito verso il nord, i tuoi
movimenti hanno sempre ad effettuarsi di notte.

«Che l'aurora ti trovi sempre imboscato preferibilmente nei lembi dei
boschi, sempre pronto a sorprendere gli esploratori nemici, i loro
corrieri, o le loro vettovaglie, e sempre a portata dei boschi e delle
montagne, per assicurarti la ritirata.

«Non essendo punto possibile il trar carri e muli con munizioni di
riserva, ciascun milite deve curare diligentemente le proprie cartuccie,
epperò sparare di rado e bene.

«Ti raccomando severissimamente un buon contegno cogli abitanti, i quali
devono amare e stimare i militi della repubblica. Amati dagli abitanti
si avranno facilmente buone guide, il che non deve mai mancarti, come
pure esatte informazioni delle posizioni del nemico, delle sue forze,
ecc.

«Giunto sulle linee di comunicazioni di lui, urge distruggervi le vie
ferrate e i telegrafi.

«Venendoti fatto di distruggere quella da Strasburgo a Parigi, sarebbe
un vero colpo di mano.

«Mi riprometto da te ogni notizia che possa interessarmi, sia mediante
telegrafo, sia in qual'altro modo che ti sarà possibile.

«Ottocento uomini sono troppi per tenerli tutti uniti; bisogna dunque
suddividerli, e non adoperarli uniti, che quando si tratti di un fatto
serio.

«Epperò tu devi a tal'uopo munirti di buone carte dei luoghi e dei
dipartimenti che occupi, le quali tu domanderai alle autorità
municipali.

«Incalzato, o inseguito da forze superiori, spartirai i tuoi in tanti
piccoli distaccamenti, i quali inganneranno il nemico, pigliando
direzioni diverse, e ai quali tu indicherai un punto di
ricongiungimento.

«Autun, 11 novembre.

                                                  _G. Garibaldi_»

 Questo dispaccio è di una grandissima importanza storica, giacchè si è
tentato di accusare Garibaldi di non avere prestato il suo concorso
all'armata dell'est comandata dal generale Bourbaky, mentre le mosse
eseguite da Garibaldi, sostenute da combattimenti, provano il contrario.

I fatti furono i seguenti:

Il generale Bourbaky, comandante l'armata dell'est (quello che passò in
Svizzera con 120,000 soldati francesi) si era mosso per accorrere in
aiuto di Belfort, piazza fortificata fra il Doubs e l'Oignon nei Vosgi;
mossa ardita che avrebbe invertite le sorti della Francia, se questa
manovra fosse riuscita.

La stampa francese volle censurare il generale Garibaldi nientemeno di
tradimento, per avere permesso, secondo essa, al corpo del generale
Manteuffel di intercettare la linea d'operazione.

Importa notare: che la marcia del generale Menteuffel avvenne nei giorni
21, 22 e 23 gennaio 1871, giorni di sanguinosi combattimenti per
l'esercito dei Vosgi forte di 20.000 combattenti italiani, spagnoli e
francesi, trattenuti dalla forze imponenti del generale Kettler.

Il giorno 24 fu impiegato a riordinare le truppe alquanto scompaginate
dai combattimenti. Il giorno 25 di primo mattino il colonnello Baghina
partiva con gli ordini ricevuti alla testa di 12 compagnie ed un mezzo
squadrone di cavalleria alla volta di Auxosnne, e la sera del 26, il
Monte-Roland, chiave di Dôle cadeva in potere delle truppe comandate dal
Baghina, per il qual fatto la via di ritirata a sud-ovest era aperta
all'armata del Bourbaky.

Questo avveniva per le disposizioni strategiche e previdenti di
Garibaldi, mentre la divisione comandata dal Crenier villeggiava
inoffensiva tra Gray, Vesoul e Montebouzon, senza utilità alcuna per la
Francia.

                                    *
                                   * *

E il generale Garibaldi continua così:

«Il movimento del generale Bourbaky ben ideato era d'impossibile
esecuzione, perchè le condizioni di quel grande esercito erano
assolutamente disastrose.

«Venti giorni di più di organizzazione o di riposo, passata la terribile
stagione della neve e dei ghiacci di gennaio, quel numeroso e giovane
esercito avrebbe potuto ravvivare le speranze della Francia esausta e
prostrata: invece esso fu sprecato e distrutto in modo orribile.

«Il movimento di Manteuffel parallelo a quello di Bourbaky, per
ingrossare le forze di Werder e degli assedianti di Belfort, mi era
noto: e io avrei fatto tutto il possibile per arrestarlo nella sua
marcia di fianco. Mi vi provai, ed ero uscito da Dijon col nerbo delle
mie poche forze per attaccare il nemico a Is-Sur-Till, lasciando al
comando della città il generale Pellisier; ma le forti colonne che mi
stavano di fronte mi persuasero a ripigliare le primitive posizioni:
nondimeno due delle mie quattro brigate, la seconda e la quarta,
operavano sulle comunicazioni del nemico, congiuntamente a tutte le
compagnie dei miei franchi tiratori.

«Deciso di difendere Dijon, la mia prima cura fu di continuare le opere
di fortificazione che erano state incominciate dai Prussiani.

«Le posizioni di Talant e Fontaine che dominano la strada principale che
va a Parigi, furono le prime ad essere coronate da opere volanti e vi si
collocarono a Talant due batterie di campagna da 12 e due da 4, a
Fontaine una batteria di 4 di campagna ed una di montagna dello stesso
calibro. Altre batterie da 12 si collocarono in altre opere innalzate a
Montemuzard Monthappè, Bellair, e in altre posizioni nella cinta di
Dijon, per tener lontani i fuochi del nemico in caso di attacco, che io
mi aspettavo da un giorno all'altro.

«Difatti il 21 gennaio il nemico ci attaccò dalla parte di ponente.

«Con forti posizioni, coperte da muri e ripe, con linee di tiratori a
destra e a sinistra della strada maestra, e con trentasei pezzi di
artiglieria collocati sulle formidabili posizioni di Talant e Fontaine,
la nostra difesa riuscì brillantissima. La formidabile colonna che ci
venne dalla parte di Parigi poteva ben chiamarsi una colonna di acciaio!
Furono appena bastanti a fermarla i nostri trentasei pezzi infilanti la
strada e varie migliaia dei nostri migliori tiratori, distesi dietro i
ripari. L'attacco fu veramente formidabile; io vidi in quel giorno
soldati nemici, come mai avevo veduti migliori. La colonna che marciava
sulle nostre posizioni dal centro, era ammirabile di valore e di sangue
freddo. Essa ci giungeva sopra, compatta come un nembo a passo non
accelerato, ma uniforme, con un ordine ed una pacatezza spaventevoli.

«Questa colonna, battuta da tutte le nostre artiglierie in infilata e da
tutte le linee di fanteria in avanti di Talant e Fontaine lateralmente
alla strada, lasciò il campo coperto di cadaveri, e per varie volte
riordinandosi nelle depressioni del terreno, essa ripigliava l'attacco,
collo stesso ordine e pacatezza ammirevole.

«Che famosi soldati!

«Molto valore mostrarono pure i nostri in quella memoranda giornata e
furono veramente degni dei nemici che ci assalivano.

«La battaglia durò dalla mattina sino al tramonto, con quanto
accanimento fosse possibile da una parte e dall'altra e senza vantaggio
marcato di nessuno. Al tramonto noi eravamo padroni delle nostre
posizioni ed il nemico stava nelle sue.

«Il 22 l'attacco si ripetè con eguale accanimento; la valanga dei
prussiani era sì grande che fummo minacciati d'esserne sepolti.

«Verso la metà della giornata, ci minacciarono di un attacco su
Fontaine, e v'inviarono alcuni battaglioni, fingendo un assalto, ma
subito dopo comparvero a settentrione sullo stradale di Langres in due
colonne, e con altre forti colonne di fiancheggiatori da Levante verso
Montmuzard, a Saint-Apollinaire.

«L'attacco sulla via di Langres fu formidabile, degno del terribile
esercito che ci stava di fronte; quasi tutti i nostri corpi piegavano,
meno la quarta brigata che si sostenne fortemente in una fabbrica di
nero animale, munita di un chiuso, ove si eran praticate delle feritoie.
Alcune centinaia di militi della terza brigata in formazione, già
decimata nel combattimento del 21, sostennero pure l'urto in uno
stabilimento contiguo più indietro e si riunirono poi alla quarta.
Questi corpi rimasero per un pezzo avviluppati dal nemico, per la
ritirata della nostra ala destra.

«Avendo il nemico collocate le sue artiglierie sulla prima collina che
domina Pouily e Dijon a tramontana e tirando con quella maestria a cui
ci avevano assuefatto i prussiani, smontarono in poco tempo tutti i
nostri pezzi del centro collocati sullo stradale e lateralmente,
rispondendo con qualche tiro da parte nostra i due pezzi di Montmuzard,
e due del Montechappè ed altri due che si collocarono su di una strada
obliqua allo stradale sulla destra, quando si vide l'impossibilità di
tenerli nella prima posizione, fulminata dalle artiglierie nemiche.

«Verso il tramonto la nostra situazione era delle più critiche; i
prussiani padroni del campo, minacciavano di assaltare la città. Ai
nostri corpi che si ritiravano si procurava di assegnare posizioni più
indietro presso la cinta, con buoni recinti alcuni dei quali muniti di
feritoie; ma invano: questi presi da panico non pensavano che mettersi
in salvo, spargendo l'allarme in città e lo spavento dovunque.

«La nostra estrema sinistra, formata per la maggior parte della terza
brigata, e situata a Talaut e Fontaine, alla vista della ritirata del
centro, aveva spinto i suoi franchi tiratori sulla destra nemica, e
marciava risolutamente per sostenerlo; sull'imbrunire alcuni corpi di
mobilizzati sulla nostra destra, spiegandosi energicamente su Pouilly,
obiettivo principale del campo di battaglia, ricacciarono il nemico dal
terreno conquistato, e lo respinsero sino al di là del Castello. In tal
modo la quarta brigata, cui si doveva l'onore della pugna, venne
sbarazzata dal nembo nemico che l'aveva avvolta da un pezzo; anzi, onore
maggiore, nel respingere i reiterati assalti del 61º reggimento
prussiano, e combattendo corpo a corpo, essa pervenne a togliergli la
bandiera che, eroicamente difesa e sepolta sotto un monte di cadaveri,
fu con altrettanto ardimento conquistata dai nostri, che la vollero
trofeo del valore italiano.

«Io mi sono trovato presente a pugne ben micidiali, ma certamente, poche
volte ho veduto sì gran numero di cadaveri ammonticchiati su piccolo
spazio, come ne vidi in quella posizione a tramontana, occupata dalla
quarta brigata e da parte della quinta.

«Nelle prime ore della notte il nemico era in piena ritirata, e per vari
giorni ci lasciò tranquilli a Dijon avendo sgombrato pure i villaggi
circostanti che furono occupati da noi.

«Le notizie dell'armistizio, e poscia della capitolazione di Parigi, e
finalmente l'emigrazione dell'esercito di Bourbaky in Svizzera,
cambiarono la faccia delle cose.

«Il nemico, libero dall'assedio di Parigi e dell'esercito dell'Est
passato in Svizzera, cominciava ad ammassare su di noi forze imponenti,
e, malgrado tutte le opere di difesa da noi eseguite, esso avrebbe
finito per ischiacciarci ed attorniarci, come aveva fatto a Metz, a
Sedan, ed a Parigi.

«Per ordine del governo di Bordeaux dovevasi trattare coi Prussiani per
l'armistizio, ed il generale Bordone capo del mio stato maggiore, si
recò più volte al campo nemico; ma il risultato della sua missione fu,
che per noi non vi era armistizio.

«Dal 23 gennaio al 1º febbraio ci tenemmo come meglio si potè nella
capitale della Borgogna in tutte le nostre posizioni. Il nemico aveva
capito che per scuoterci occorrevano grandi forze, e ne accumulava
molte, tanto che alla fine di gennaio, le sue colonne occupavano con
grandi masse il nostro fronte, e cominciavano a stendersi per
avviluppare i nostri fianchi. L'esercito di Manteuffel, libero di quello
dell'est di Bourbaky, scendeva verso la vallata del Rodano, e minacciava
la nostra linea di ritirata.

«Il 31 gennaio si cominciò a combattere verso la nostra sinistra dal
mattino, e si continuò sino a notte avanzata. Il nemico ci tastava su
vari punti, prendendo posizioni al di fuori di Dijon per un attacco
generale. Alcuni corpi prussiani mostravansi nella valle della Saone,
minacciando di prenderci a rovescio per la nostra destra.

«Non v'era tempo da perdere. Noi eravamo l'ultimo boccone, che
avidamente solleticava il grande esercito vincitore della Francia, e
voleva farci pagare cara la temerità di avergli contrastato per un
momento la vittoria.

«Ordinai la ritirata in tre colonne: la prima brigata comandata da
Canzio, a cui s'era aggregata la quinta, doveva scendere parallelamente
alla strada ferrata di Lione, proteggendo l'artiglieria pesante e il
nostro materiale che marciavano in vagoni. La terza brigata con Menotti
s'incamminò per la vallata dell'Ouche verso Autun. La quarta preso la
via di Saint-Jean di Losne, per la sponda destra della Saone verso
Verdun. Il quartiere generale partì in via ferrata dopo avere fissato a
Chagny il punto centrale della riunione dell'esercito; i vari altri
corpi e compagnie di franchi tiratori distaccati dalle brigate, furono
pure dirette al punto di convegno.

«Tutto fu eseguito col migliore ordine possibile, grazie all'attività
del capo di stato maggiore, del comandante generale d'artiglieria
colonnello Olivier, e dei comandanti dei corpi, senza essere molestati
dal nemico.

«Da Chagny il quartier generale passò a Chalons sur Saone, poi a
Courcelles».

Dopo la vittoria di Lantenay e la ritirata di Dijon, il generale
Garibaldi emanò il seguente proclama:

          Ai prodi dell'Esercito dei Vosgi.

«Voi avete certamente la coscienza d'avere compiuto il vostro dovere.
Dopo d'aver valorosamente combattuto un nemico superiore di forze per
due giorni, voi non abbandonaste il vostro posto d'onore ad onta delle
fatiche, delle privazioni e dei rigori di una stagione orribilmente
piovosa e fredda.

«Il vostro coraggioso esempio servirà alle giovani milizie che hanno
abbandonato il loro posto per inesperienza, e insegnerà loro d'ora
innanzi a tenersi più compatte e più costanti, nella missione onorevole
che la Francia repubblicana ha loro affidata.

«La grande repubblica Americana combattè quattordici anni contro i suoi
oppressori e sul principio della lotta le sue milizie non erano più
agguerrite delle nostre.

«Nel 1789 i quattordici eserciti che presero le armi in Francia, erano
nuovi alle pugne, e fino a Fleurus, Walmy e Iammapas essi pure furono
respinti dagli stessi eserciti che noi combattiamo, e tuttavia finirono
per riuscire vittoriosi in tutta Europa.

«Onore a voi dunque, miei prodi di Commarin, che, servendo la santa
causa della repubblica, sapeste mostrare ai vostri giovani compagni la
via del dovere e della vittoria.

          Commarin, 29 novembre.

                                                  _G. Garibaldi_»

                                    *
                                   * *

E dopo ciò, documento storico importantissimo, ecco l'ultime
disposizioni che il generale Garibaldi impartiva al Baghina--prova dì
quella serenità di spirito e di quella fierezza di carattere che non
ebbero i comandanti francesi.

          _Commendateur Baghina_


                                                          Auxonne


«Restez sur les positions a fin de constater occupation et de me
reinseigner exactament sur sa situation. Conseigne sévère aux
avantpostes, aucune communications sous quelque preteste que ce soit
avec ennemi.

«Ligne de demarcation bien determinée par les villages De Peintre,
Chevigny, Rainaus, Biarne, S. Vivon, on vous pouvez piacer vos
détachement.

Dijon 30 Janvier

                                                  _G. Garibaldi._

                                    *
                                   * *

La capitolazione di Parigi essendo un fatto compiuto, e l'armistizio
trasformato in preliminari di pace, dopo d'essere stato il generale
eletto deputato all'assemblea di Bordeaux, egli decise 1'8 febbraio di
recarsi in quella città coll'unico intento di portare il suo voto alla
repubblica, lasciando Menotti provvisoriamente al comando dell'esercito.

«Tutti sanno come fui accolto dalla maggioranza dei deputati,
all'assemblea; certo quindi di non potere far più nulla per quel grande
e sventurato paese che ero venuto a servire nella sciagura, mi decisi di
recarmi a Marsiglia e di là a Caprera, ove giunsi il 16 febbraio 1871.»

                                    *
                                   * *

La caduta dell'impero francese ci apriva la via di Roma; gli animi
ritornavano all'antica speranza di dare la sua capitale alla nazione:
Ma il governo titubava; ecco alcune lettere che danno luce a quel fatto
storico della più grande importanza per l'Italia:

          _Carissimo amico Elia_

                                                           Ancona

«È urgente per l'esistenza e l'avvenire d'Italia che si trasporti la
capitale a Roma, senza dilazione.

«Riunite _meeting ed agitate_ per questo l'opinione pubblica colla
parola e colla penna.

«Il governo è ben disposto, ma indeciso.

«Siano nostri amici personali, o nò, fate capire ai democratici di costà
ed ai semplici nazionali, che oggi non c'è un minuto da perdere in
faccia alla situazione europea. Bisogna spingere il governo a Roma e
subito. Si gridi Roma capitale d'Italia immediata, dalle Alpi ai due
mari.

                                                      Vostro
                                                  _L. Frapolli_».

Ed in Ancona, città altamente patriottica, si ebbero _meeting e
agitazione_, concordi tutti i partiti.

                                       Firenze, 4 settembre 1870.

          _Amico col. Elia_,

                                                          Ancona.

«Giovedì sera, tutte le vette dell'appennino, da Tenda ad Aspromonte,
devono essere illuminate da fuochi.

«Pensate all'esecuzione per la parte vostra sui punti circostanti
prominenti. Ceneri e Saffi pensano per in su. Parlatene con Pichi. Verso
Chieti abbiamo i nostri. Pensate per Sinigaglia.

«Viva Roma.

                                                      Vostro

                                                  _L. Frapolli_».

                                       Firenze, 5 settembre 1870.

          _Amico_,

«Le truppe italiane sono partite per Roma; fra ore Roma sarà la capitale
effettiva d'Italia.

«Moltiplicate i fuochi per giovedì sera. Saranno fuochi di gioia.

                                                      Vostro

                                                  _L. Frapolli_».

                                        Firenze, 7 settembre 1870

          _Amico!_

«A Roma si va. Se c'è qualche ritardo è di ore e per ostacoli materiali.
Non vi lasciate sviare dalle notizie dei malevoli. Fate riunioni,
dimostrazioni, fuochi dovunque. Se domani sera saremo in Roma sarà
gioia. Se no incitamento! A Roma si va, l'Europa è concorde. Viva
l'Italia!

                                                       Vostro

                                                  _L. Frapolli_».

E a Roma si andò per la breccia di Porta Pia e il sacro voto dei
liberali italiani omai era compiuto.

                                    *
                                   * *

Il 7 settembre 1870 il Ministro degli Affari Esteri spediva una
circolare con la quale si rendevano noti i pericoli che minacciavano la
patria e la chiesa, concludendo con queste parole:

«S. M. il Re, custode e depositario dell'integrità e dell'inviolabilità
del suolo nazionale, interessato come sovrano di una nazione cattolica a
non abbandonare alla mercè di qualche sorpresa il capo della chiesa,
prende, come è suo dovere, con fiducia in faccia della cattolicità e
dell'Europa, la responsabilità del mantenimento dell'ordine nella
penisola e della tutela della Santa Sede.--Il governo di S. M. non può
aspettare a risolversi, avvenimenti che conducano all'effusione del
sangue tra i romani e le forze straniere.--Noi occuperemo pertanto,
allorquando le nostre informazioni lo dimostrino opportuno, i punti
necessari per la sicurezza comune, lasciando alle popolazioni la cura
della loro propria amministrazione».

Fu quindi ordinato che fossero pronte le truppe destinate
all'occupazione di Roma, sotto il comando del generale Cadorna.

Dato l'ordine, le truppe italiane dopo di avere occupato Viterbo,
Civita-Castellana, Frosinone, Civitavecchia e le terre dell'Agro, il
giorno 17 settembre il 4º corpo d'armata si mosse su Roma; da altre
parti muovevano le divisioni Bixio e Angioletti, e tutte queste truppe
furono disposte intorno alla città in modo da accerchiarla.

Nella mattina del 20 settembre fu ordinato l'attacco. La Porta Pia
veniva sfondata a colpi di artiglieria, e accanto ad essa, aperta una
breccia nella cinta delle mura. Ottenuto questo risultato, fu ordinata
la sospensione dei fuochi d'artiglieria e le truppe furono mandate
all'assalto. I battaglioni dei bersaglieri e di fanteria si avventano a
passo di carica sulla barricata della porta [Illustration: GIUSEPPE
MAZZINI] e dentro l'apertura della breccia, non arrestati dalla
mitraglia e dal fuoco di fucileria dei mercenari pontifici che facevasi
sempre più vivo ed intenso. Mentre questo avveniva a Porta Pia, il
generale Bixio, dopo essersi impadronito di villa Panfili e del Casino
dei quattro venti, aveva affrontato e sperso il nemico a Porta S.
Pancrazio.

L'ingresso delle truppe italiane fu accolto con segni di vivissima gioia
e di entusiasmo da parte del popolo di Roma.

Il giorno 2 di ottobre si procedeva al plebiscito che riusciva
imponente, poichè i voti affermativi sommarono a 135,291 mentre i
negativi furono 1507 soltanto.

                                    *
                                   * *

Non erano trascorsi due mesi da questo avvenimento felice per la nazione
italiana, che la Casa di Savoia riceveva un grandissimo attestato della
fiducia che godeva in Europa.

Le Cortes di Madrid assicurate del consenso di Vittorio Emanuele e del
principe reale, proclamavano Amedeo duca d'Aosta Re di Spagna.

Il 3 di dicembre giungeva a Firenze la deputazione che portava al nuovo
Re la fausta notizia.

Al palazzo Pitti erano presenti al ricevimento i grandi dignitari dello
Stato, i ministri della Corona e la rappresentanza delle due Camere del
Parlamento Nazionale.

Al discorso del signor Ruiz Zorilla il Re rispose con brevi parole,
accordando all'amato figlio il consenso di accettare il glorioso trono a
cui lo chiamava il voto del popolo spagnolo.

Il Duca d'Aosta, con voce commossa significava la sua accettazione, e
l'atto solenne, che proclamava Amedeo Re di Spagna, veniva rogato; e
poco appresso egli si recava alla capitale del suo regno, animato da
sentimenti liberali e d'amore pel popolo che lo aveva prescelto a suo
Re.

Ma ben presto si manifestarono nelle provincie spagnole ed anche nella
stessa capitale segni di non dubbia ribellione.

Il 18 luglio del 1872 si attentava alla vita del giovane Re ed a quella
della regina ed i due sposi furono miracolosamente salvi.

Mentre assieme alla regina attraversava in carozza una delle più
popolose vie di Madrid, vennero tirate addosso ai reali parecchie
fucilate.

Non si sgomentò per questo il figlio di Vittorio Emanuele e continuò
nella incominciata impresa di ricondurre la pace, imprimendo un regime
liberale, fra quelle popolazioni.

Ma i torbidi crebbero talmente di gravità che Amedeo di Savoia, vedendo
di non poter governare senza venir meno alla costituzione, piuttosto che
mancare al suo giuramento o far versare in una lotta civile sangue
spagnolo, decise di rinunziare spontaneamente alla corona.

E così fece: e il dì 11 febbraio 1873 ritornava, non più Re di Spagna,
ma principe di Savoia acclamato in seno alla patria sua.




                           =CAPITOLO XXVII.=

                          =Morte di Mazzini.=


Il 10 di marzo 1872 moriva a Pisa, quasi profugo nella sua patria che
amò tanto, dopo quasi mezzo secolo di lotte titaniche e di ineffabili
amarezze, Giuseppe Mazzini.

Fin dal 1835 egli aveva incominciata la sua vita di agitatore col nobile
scopo di vedere l'Italia libera tutta, libera per sempre, pronto a dare
il suo concorso a chiunque avesse assunta la santa impresa del riscatto
nazionale. A tale effetto istituì la grande associazione della
_Giovine_ _Italia_, a riscontro della Società dei Carbonari ridotta
all'impotenza per difetto di capi.

Nel finire del 1831 pubblicava la famosa lettera a Carlo Alberto.

In essa, istigava il Re di Piemonte ad iniziare l'impresa
dell'emancipazione nazionale, dipingendogli lo stato dell'Italia, gli
ideali e le speranze del popolo italiano; suggerendo al Re quello che
doveva fare per la nazione.

Coi suoi scritti tenne vivo l'amore della patria. Col lavoro indefesso
di 17 anni, dal 31 al 48, col suo apostolato di fede e d'amore, si
acquistò la simpatia non solo degli Italiani ma dell'Europa, che vide in
lui, l'incarnazione dei tempi nuovi e l'apostolo della redenzione.

Quando Pio IX salì al Pontificato, Mazzini levava un'altra volta la voce
ricordando al Papa le sventure d'Italia ed invocando il suo intervento
per farle cessare.

Caduto in Francia il Regno di Luigi Filippo nel febbraio del 1848,
radunati quanti più potè esuli che si trovavano a Parigi; fondava
l'Associazione nazionale italiana a scopo unitario.

L'Italia si svegliava colla gloriosa rivoluzione di Palermo, Messina e
Catania e colle 5 giornate di Milano, seguite dall'eroica Brescia, dai
moti dell'Italia centrale e dall'intimazione di guerra all'Austria da
parte di Carlo Alberto.

Nella guerra del 48 seguì la legione dei volontari capitanati da
Garibaldi, finchè sfinito di forza dovette rifugiarsi a Lugano.

Alla notizia dolorosa della rotta di Novara l'assemblea Romana elesse un
triumvirato che pensasse alla difesa della proclamata repubblica e
Mazzini fu eletto triumviro con Saffi e Armellini.

Contro Roma si erano unite Austria, Spagna, Francia e il Re di Napoli,
ma la gloria di distruggere la repubblica Romana, che seppe difendersi
con tanta gloria, doveva spettare tutta alla repubblica francese.

Mazzini credette sempre essere indispensabile all'Italia l'unione di
tutti i suoi figli per diventare e conservarsi libera, gloriosa e
potente; e quando nel 59 fu intimata dal Re Vittorio Emanuele la guerra
contro l'Austria, egli dichiarava che si univa al concetto di Garibaldi,
perchè anteponeva ad ogni cosa, l'unità della patria; il che era la base
dei suoi principi.

Nel campo liberale Mazzini era considerato lo spirito della
rivoluzione, Garibaldi la forza. Senza Garibaldi l'unità d'Italia forse
non si sarebbe fatta; ma senza Mazzini, che fece iniziare i moti di
Sicilia, Garibaldi non avrebbe accettata l'impresa dei Mille e non
sarebbe sbarcato a Marsala.

La morte di Mazzini lasciò un vuoto profondo nel cuore degl'Italiani;
poichè molti riconobbero troppo tardi qual'uomo egli era; quale
l'opera spesa disinteressatamente per la patria redenzione; le lotte
alteramente sostenute fra la santa ribellione e la ancor più santa
abnegazione--l'impulso dato in ogni tempo alla causa nazionale. Con
Mazzini si spense il cuore animante alla rivoluzione, il grande mezzo
che portò l'Italia da Torino a Roma--e alla sua memoria la venerazione
che gli si tributò è inferiore a quanto egli meritasse, a quanto, senza
pompa e senza lenocini, gli tributa dal cuore il risorto popolo
italiano.




                           =CAPITOLO XXVIII.=

                    =Morte di Vittorio Emanuele II.=


Il Re Vittorio Emanuele II nel 31 dicembre del 1870 entrava per la prima
volta in Roma per recarvi generoso soccorso; il Tevere uscito dal suo
letto, apportava desolazione e ruina.

Nel 2 luglio del 1871, accolto prima in Campidoglio dal plauso, dalle
benedizioni e dall'esultanza di 30 milioni d'Italiani, prendeva
gloriosamente possesso del Quirinale, nuova sua Reggia, pronunciando le
memorabili parole «_ci siamo e ci resteremo_».

Roma italiana, dopo la sua proclamazione a capitale del risorto paese,
accolse nel Quirinale parecchi sovrani e principi esteri venuti a
visitare il Re Vittorio Emanuele, riconoscendo con tale atto il nuovo
regime costituzionale: l'imperatore Don Pedro del Brasile, il re ed il
principe di Danimarca, il principe Federico Carlo di Prussia, l'arciduca
Nepomuceno d'Austria, il re e la regina di Grecia, il principe di
Galles, il duca di Edimburgo ed altri. Tutti ebbero a lodarsi delle
festose accoglienze, e l'ammirazione d'ognuno fu grande e completa per
le particolari doti di pensiero e di cuore del nuovo Re d'Italia.

Nel 1873 Re Vittorio visitò Vienna e Berlino, accolto con entusiasmo che
sembrò delirio--egli ovunque personificava il popolo italiano risorto a
vita novella, ed il Re galantuomo sapeva rappresentare un popolo che
aveva diviso e divideva le sue aspirazioni.

Nel febbraio 1874 giunse in Italia la notizia della morte di Nino Bixio,
il soldato intrepido, temerario, di animo bollente e dell'inerzia
sdegnoso. L'ardore di operosità che lo divorava l'aveva spinto, quando
non era più richiesta l'opera delle armi, a correre in lontane regioni
per schiudere nuova via al commercio italiano, ed in selvaggie ed
inospitali contrade la morte crudele, che egli aveva tante volte
affrontata sul campo di battaglia, lo fece sua vittima.

Morendo egli pensò alla patria, alla sua famiglia che raccomandò al Re.
E non fu vana la raccomandazione.

In data 14 febbraio 1874 il Re indirizzava da Napoli--ove pervennegli la
notizia--il seguente telegramma al Ministro Minghetti:

«Ricevetti ieri il rapporto che Ella mi manda [Illustration: RE UMBERTO
I] sulla morte del povero Bixio. La prego di fare per parte del Governo
quello che si potrà per la famiglia. Io pure son disposto aiutare.
Faccia il piacere di dirmi, dopo che Governo e ordine mauriziano avranno
fatto la loro parte, con qual pensione creda che io possa contribuire».

Il 5 aprile 1875 l'imperatore Francesco Giuseppe restituiva a Venezia la
visita fattagli da Re Vittorio a Vienna, e sull'ottobre l'imperatore
Gugliemo di Germania giunse a Milano ospite del Re, accolto con un
entusiasmo veramente commovente.

Intanto Re Vittorio dava impulso al riordinamento della vita pubblica
italiana, prendendo viva parte al rinnovamento della vita nazionale,
conscio e compreso dei suoi doveri di cittadino e di Re. E come alto
fosse in lui questo sentimento lo dimostrano le parole da lui profferite
nel discorso della Corona il 20 novembre 1876:

«Da 6 anni celebriamo in Roma la festa dell'unità nazionale. Dalla
integrata unità avemmo frutti di gloria e prova di sapienza civile.
Molto si è fatto, molto rimane a fare. Rimane l'opera che vuole maggiore
pazienza e lavoro e maggiore concordia d'intento; quello di consolidare
tutto l'edificio governativo, e dove occorre, correggerlo. A questo non
si può riuscire che con una gara sincera di operosità e di costanza. Io
vi addito la via e sono certo che anche in queste battaglie pel riscatto
civile, la mia voce troverà risposta di nobili sacrifizi e di gloriose
vittorie».

Il primo gennaio 1878, Vittorio Emanuele ricevette, senza dare il benchè
minimo sospetto di sofferenza, le deputazioni del Parlamento, i grandi
dignitari dello Stato e molte altre rappresentanze, ed a tutti ricambiò
con volto lieto gli auguri pel nuovo anno.

Alla sera si recò al teatro Apollo; nel tornare a casa si lagnò d'un
gran caldo e fece abbassare i cristalli della carrozza. Giunto nelle sue
stanze volle che il primo cameriere aprisse le finestre; si fece portare
dell'acqua ghiacciata ed accese un sigaro, si mise a fumare sul
davanzale della finestra.

Il giorno 2 andò a Castel Porziano per iscuotersi «come egli disse» e ne
ritornò verso il mezzogiorno, chè il malessere andava crescendo.

Il giorno 3 ricevette al Quirinale il presidente del Consiglio dei
Ministri per la firma dei decreti.

--«Vede, Depretis», gli disse: «contrariamente alle mie abitudini ho
fatto accendere il fuoco, perchè sento un grande freddo--. La scorsa
notte l'ho passata male».

--«Bisogna curarsi, Maestà!

--«Mi curo; mi astengo dall'andare a caccia; del resto se di notte non
mi sento bene, di giorno la va meglio».

Ciò detto si diede a firmare.

Aveva letto un decreto che collocava in aspettativa per motivi di salute
un impiegato. Rivolto a Depretis, gli disse sorridente:

--«Anche io avrei bisogno di un po' d'aspettativa per l'eguale ragione.

--«Maestà--gli rispose il Ministro alquanto turbato, ma seguendo lo
scherzo del Sovrano--per i Re i motivi di salute non sono sufficienti
per avere l'aspettativa».

Il Re tacque e continuò a firmare.

Il 4 di mattino, il Re aveva dato le disposizioni di partenza per
Torino, ma la debolezza lo costrinse a cedere al male e a rimettersi a
letto; fece chiamare il medico. Il Saglione, comprese subito che la
cosa era grave, ma non diede a capir nulla al Re; soltanto domandò ed
ottenne che fosse consultato un altro medico. Si telegrafò al Professore
Bruno in Torino e fu chiamato l'on. Baccelli.

La mattina del 5 vi fu aumento di febbre prodotto dalla polmonite. Al
tocco, arrivato il Dottore Bruno, si tenne consulto. I tre dottori si
trovarono d'accordo nella diagnosi della malattia ed ordinarono una dose
di chinino come disinfettante e una buona emissione di sangue, mediante
salasso. Il Re era recisamente avverso a farsi aprire la vena: ma il
professore Baccelli disse risolutamente:

--«Maestà, la nostra responsabilità innanzi a Voi e al paese, è troppo
grande, perchè noi si faccia uso di tutti i nostri diritti. Vostra
Maestà sarà Re finchè vuole; ma in questo momento i re siamo noi e
Vostra Maestà è nostro suddito».

Vittorio Emanuele sorrise, sporse il braccio e si prestò al salasso;
dopo del quale si sentì un po' meglio.

Il quinto giorno della malattia si sperava in una crisi benefica. Da
Firenze venne chiamato il professore Cipriani, da Pisa il professore
Landi, ma la crisi benefica non venne!

Nella mattina del giorno 9 i medici avvertirono un forte peggioramento.
Gli ufficiali di servizio furono mandati ad avvisare i principi reali, i
ministri e i grandi dignitari della Corte.

Il professore Bruno ebbe incarico di chiedere al Re, se era disposto a
ricevere i conforti della religione.

Il Re calmo, si volse al medico e gli disse:

--«Ma dunque la malattia è ben grave?

Il dottore riprese che si trattava di una precauzione--e il Re replicò,
«Facciano pure».

Il Re prese il viatico con grande serenità di spirito e disse:

--«Io speravo di morire sul campo di battaglia: ma pazienza!--Muoio
almeno in questa Roma, in mezzo al mio popolo».

Dopo il Viatico passarono avanti al Re, affranti dal dolore, i ministri
e i dignitari e il Re li salutò tutti.

Al figlio suo disse queste testuali parole:

--«Mio Umberto--caro figlio mio--ti raccomando fortezza, amore alla
patria e alla libertà».

Il principe che era inginocchiato accanto al letto, assieme alla
principessa Margherita piangente, giurava al padre suo che non avrebbe
dimenticati i suoi ultimi comandi e i suoi doveri.

Verso le 11 Vittorio Emanuele--il Grande Re--il Padre della
Patria--entrava in agonia, che durò pochi minuti. Quando il prof. Bruno
disse: «Il primo Re d'Italia è morto» fu uno scoppio unanime di pianto.

E così il dì 9 gennaio 1878 in Roma, nel palazzo del Quirinale cessava
di vivere, dopo breve malattia, il Gran Re a cui l'Italia deve la sua
unità, la sua indipendenza.

La morte di Lui fu cagione di lutto per la intera nazione e del più vivo
dolore per ogni buon italiano.

I suoi funerali furono imponenti--Tutta Italia fu largamente
rappresentata; e sulla sua tomba al Pantheon, asilo supremo della sua
pace immortale, si scrissero le parole--vere--eloquenti--nella loro
brevità:

                         A VITTORIO EMANUELE II

                           PADRE DELLA PATRIA

E il Pantheon rimarrà sempre luogo di pellegrinaggio per i veri e
sinceri patriotti.

Vittorio Emanuele fu fedele mantenitore delle franchigie concesse al
popolo da Carlo Alberto; e mai s'oppose ai progressi richiesti dai nuovi
tempi di civiltà e dal bene del paese; supremo fine dei suoi desideri.
Nella storia del regno di Vittorio Emanuele si racchiude la storia
d'Italia di trent'anni; giacchè alla grand'opera della redenzione egli
si era accinto fin dai primordi del suo regnare e mai si arrestò,
mantenendo le libertà giurate, ricevendo nel piccolo Piemonte gli esuli
d'ogni parte d'Italia, resistendo alle minaccie ed alle prepotenze
straniere e, giunto il momento desiderato, sguainando la spada per
l'indipendenza ed unità della patria.

La memoria di Vittorio Emanuele sarà sacra in eterno nel cuore degli
Italiani.

                                    *
                                   * *

Fu fortuna per la patria nostra, da poco sorta a nazione, che Umberto I
successore al Gran Re nel trono d'Italia fosse degno figlio del Gran
Genitore, e che le sorti della nazione non corressero con lui nessun
pericolo, sapendosi come immenso fosse in lui l'amore all'Italia e il
sentimento di volerla prospera e grande.




                             =CAPITOLO XXIX.=

               =Ultimi giorni e morte del generale Garibaldi.=


Della morte di Vittorio Emanuele Garibaldi fu inconsolabile.

Esso da tempo viveva a Caprera intento a trarre qualche partito dalla
parte dell'isola suscettibile ad essere coltivata.

Nel 1875 apriva la campagna per la sistemazione del Tevere.

Nell'inviare al tenente colonnello Domenico Cariolato l'appello agli
Italiani per la sottoscrizione ai grandi lavori del Tevere, così gli
scriveva:

          «Mio caro Cariolato,

«Vi accludo l'appello che io faccio agli Italiani per la sottoscrizione
a favore dei lavori del Tevere. Sarebbe utile che la prima firma fosse
quella del Re, ma temo che anche in quest'opera umanitaria vorranno
ficcarvi la politica. Minghetti mi si è dimostrato favorevole, ma temo
che altri metteranno i bastoni fra le ruote, e si farà in modo che il Re
non firmi.

«Parlatene a Dezza e venite presto a Villa Casalini. Sempre vostro

                                                  _G. Garibaldi_»

Roma, 10 gennaio 1876.

Era intento a questo nobile scopo ed a quello non meno nobile e grande
della bonifica dell'Agro Romano, quando avvenne il triste fatto del
trattato del Bardo. Garibaldi ne fu colpito più di ogni altro patriota
perché lui non si aspettava dalla Francia quest'atto che umiliava
l'Italia.

Palermo si preparava in quei giorni a festeggiare la data della
ricorrenza dei Vespri Siciliani, e, invitato a recarsi nell'Isola da lui
tanto amata, acconsentiva a fare il faticoso viaggio sebbene sofferente
di salute e sebbene sconsigliato dai figli e dagli amici.

                                    *
                                   * *

Lasciata Caprera, sbarcava il 21 di gennaio a Napoli ricevuto con
delirio da quella popolazione che non l'aveva più riveduto dopo il 1860.
Sente il bisogno di un po' di riposo e va a passare giorni tranquilli
per circa due mesi nella villa del sig. Maclean a Posillipo.

Da Napoli si dirige in Calabria; riposa una notte a Catanzaro, segue
poi il viaggio, parte in vettura, parte in ferrovia; pellegrinaggio per
lui micidiale, accolto dovunque passa con vera frenesia; arrivato allo
stretto, ricevuto a Reggio da quel popolo delirante, passa alla sua
Messina che s'accalca per salutarlo, per toccarlo, per baciarlo come se
fosse cosa santa, e il 28 marzo entra a Palermo. Non è possibile dire
delle deliranti accoglienze di quella popolazione, essendo più facile
immaginarle, che descriverle.

A quel popolo, che freneticamente lo acclamava e voleva sentire la sua
parola, diceva:

«Ricordati, o popolo valoroso, che dal Vaticano si mandavano benedizioni
agli sgherri, che nel 1282 cacciasti con tanto eroismo.

«Forma quindi nel tuo seno, dove palpitano tanti cuori generosi,
un'associazione _Emancipatrice dell'intelligenza umana_, la cui missione
sia quella di combattere l'ignoranza e svegliare il libero pensiero».

                                    *
                                   * *

Il 31 marzo, anniversario del terribile eccidio, il Generale per le
tristi condizioni di salute non potè assistere alla grande cerimonia: e
l'indomani suo figlio Menotti alla folla radunata sotto le sue
finestre, leggeva un'addio affettuoso del padre, nel quale si protestava
figlio di Palermo, e il 17 aprile sul _Cristoforo Colombo_ ripartiva per
Caprera.

Tra l'aprile e il maggio lo stato di salute del Generale erasi fatto più
grave, e la notte del 1º giugno i telegrammi si correvano l'uno dietro
l'altro. Garibaldi è aggravato, Garibaldi è moribondo!

Nelle prime ore del mattino del 2 giugno lo stato del Generale appariva
disperato, il respiro diveniva sempre più lento ed affannoso, e si
vedeva che il terribile momento della sua scomparsa dal mondo era pur
troppo vicino. Da Menotti furono mandati avvisi telegrafici a Canzio ed
a Ricciotti. Fu pure telegrafato al dottore Albanese; ma ormai non
poteva più giungere a tempo.

L'abbandono delle forze faceva a tutti comprendere che la catastrofe era
imminente. Egli si spegneva tranquillo; solo si vedeva che avrebbe
desiderato la consolante notizia dell'arrivo del dottore Albanese, di
Ricciotti, di Canzio e Teresita.

Nel meriggio--due capinere vennero a posarsi sul balcone aperto della
camera del Generale, cinguettando--La moglie signora Francesca, temendo
disturbassero l'ammalato fece un gesto per allontanarle; ma il Generale
con un fil di voce soave, sussurrò: «lasciatele stare, sono forse le
anime delle mie due bambine che mi portano l'ultimo saluto. Quando non
sarò più mi raccomando di non abbandonarle» e non disse più altro. Solo
più tardi chiese del suo piccolo Manlio. Volle vedere il suo cielo, il
suo mare, e placidamente fra le braccia della dolce famiglia presente,
alle 6 e 22 pomeridiane esalava la sua anima grande!

Alla notizia--Garibaldi è morto--l'Italia sussultò--e si sentì
sbigottita dall'immensità della perdita. La Nazione si mise in lutto
come nel funebre giorno della morte di Vittorio Emanuele.

Il Re Umberto scrisse di proprio pugno a Menotti, figlio del Generale,
così:

«Mio padre m'insegnò nella prima gioventù ad onorare nel generale
Garibaldi le virtù del cittadino e del soldato.

«Testimone delle gloriose sue gesta, ebbi per lui l'affetto più
profondo, la più grande riconoscenza e ammirazione.

«Mi associo quindi al supremo cordoglio del popolo italiano, e prego
d'essere interprete delle mie condoglianze, condividendole coll'intera
nazione.

                                                       _Umberto_»

Sentimenti veramente patriottici e gentili, degni del figlio del Gran
Re, padre della patria.

La morte del generale veniva constatata dal certificato seguente:

                                          Caprera, 3 giugno 1882.

          Signor Sindaco

                                                 Maddalena

«Ieri (2) alle ore 6 pomeridiane è morto in Caprera, al suo domicilio,
il generale Giuseppe Garibaldi in seguito a paralisi faringea.
Dichiariamo che la tumulazione del cadavere può farsi dopo 24 ore della
morte.

«In fede ci sottoscriviamo

                                              Prof. Albanese
                                              Dott. Cappelletti».

                                    *
                                   * *

Due uomini nel secolo nostro lasciarono questa terra accompagnati da
universale consenso di laudi e di dolore: Vittorio Emanuele e
Garibaldi; perchè essi soli incarnarono due dei più straordinari
avvenimenti della storia: un Re fedele alla libertà, che oblia la
tradizione della sua stirpe, e mette in pericolo il retaggio dei suoi
figli per la redenzione di un popolo; un popolano che si eleva, per
virtù propria fino alla potenza di Re, ma per ritornare al suo modesto
focolare scevro di qualsiasi ambizione, sagrificando gli ideali della
sua anima alla suprema felicità della patria! Inchiniamoci alla memoria
di questi Grandi!

                                    *
                                   * *

Composta la salma del Generale il dottore Albanese inviava questo
telegramma perchè fossero note le supreme disposizioni del Generale:

«Garibaldi spirò ieri sera; lasciò un'autografa disposizione in data 17
settembre 1881, così concepita:--«Avendo per testamento determinato la
cremazione del mio cadavere, incarico mia moglie dell'eseguimento di
tale volontà, prima di dare avviso a chicchessia della mia morte. Ove
ella morisse prima di me io farò lo stesso per essa. Verrà costruita una
piccola urna in granito che racchiuderà le ceneri sue e mie. L'urna sarà
collocata nel muro, dietro il sarcofago delle mie bambine e sotto
l'acacia che lo domina».

Ecco poi testualmente la lettera del generale al dottore Prandina:

                                       Caprera, 27 settembre 1877

          Mio carissimo Prandina,

«Voi gentilmente vi incaricate della cremazione del mio cadavere e ve ne
sono grato.

«Sulla strada che da questa casa conduce verso tramontana alla marina,
alla distanza di trecento passi a sinistra, vi è una depressione di
terreno limitata da un muro.

«In quel canto si formerà una catasta di legno d'acacia, lentisco, mirto
ed altre legne aromatiche. Sulla catasta si poserà un lettino di ferro e
su questo la bara scoperta, con dentro gli avanzi miei, adorni della
camicia rossa.

«Un pugno di cenere sarà conservato in un'urna di granito, e questa
dovrà essere posta nel sepolcreto che conserva le ceneri delle mie
bambine Rosa e Anita.

                                                   Vostro sempre
                                                  _G. Garibaldi_»

Ed a queste sue istruzioni scritte ne aggiungeva altre verbali: al
Prandina diceva.--

«Voglio essere bruciato: bruciato, non cremato, capite bene. In quei
forni che si chiamano Crematori non ci voglio andare: voglio ripeto
essere bruciato all'aria aperta..... e voi Fazzari sarete il mio
liberto.

«Farete una catasta di legna, dell'acacia di questa isola, stenderete il
mio corpo vestito della camicia rossa sopra un lettino di ferro; mi
deporrete nella catasta con la faccia rivolta al sole e mi brucerete; le
ceneri le deporrete dietro la tomba di Anita--Così voglio finire--»

E non fu bruciato!--Le sue osse sono sepolte nella sua granitica
Caprera--isola sacra alla patria.--Ma il suo spirito aleggia in ogni
angolo d'Italia che tanto amò e per la quale tanto fece perchè fosse
libera e grande! Tale l'ideale di tutta la sua vita gloriosa! E che così
fu, lo prova questa sua dichiarazione.

«Io non ebbi mai altro che uno scopo--quello dell'unità italiana--quindi
il mio programma del Ticino fu lo stesso a Marsala, ad Aspromonte ed a
Mentana».




                             =CAPITOLO XXX.=

                   =Sbarco a Massaua--Guerra abissina.=

Ricercare ora quali furono i moventi che ci spinsero all'occupazione di
Massaua, sarebbe opera vana!

L'Italia, divenuta nazione, credette che il suo prestigio sarebbe
aumentato, se al pari delle altre potenze si fosse lanciata in qualche
impresa coloniale e il governo italiano vi si decise incoraggiato
all'occupazione, dall'Inghilterra che temeva di vedere altra nazione
inalberare a Massaua, da un momento all'altro, la propria bandiera.

Del resto l'idea di aprire nuovi sbocchi al nostro commercio sorrideva,
e l'opinione pubblica si mostrò favorevole all'iniziativa, sopratutto in
Lombardia ove fiorivano a questo scopo delle Società, e si pubblicava un
giornale caldo fautore dell'espansione coloniale, e s'incoraggiavano e
si organizzavano spedizioni africane.

E difatti quando al principio del 1885 un giornale officioso ne dava il
primo annunzio l'opinione pubblica, lo accolse con segni di
compiacimento, e salutava pochi mesi dopo con entusiasmo, la partenza
dei nostri bersaglieri per Massaua.

Disgraziatamente allo slancio con cui l'Italia aveva iniziato la
conquista di colonie africane, non corrispose la preparazione
necessaria.

Due erano le politiche da seguirsi dopo l'occupazione avvenuta il 4
febbraio 1885.

Una, quella di limitarsi a tenere Massaua come porto di sbocco alle
regioni interne, attendendo dal tempo l'occasione di assoggettarle
moralmente, l'altra, di fare addirittura una guerra a fondo,
impossessarsi dell'Abissinia, assoggettarla per poi irradiare la nostra
influenza nelle ricche regioni del Sud, assicurandoci le vie
commerciali.

Invece, dei due sistemi, non ne abbiamo seguito decisamente
nessuno.--Siamo andati al caso--per una via di mezzo che ci portò a
continui successivi conflitti, ed infine al disastro.

Rimanendo a Massaua col porto naturale dell'Abissinia del Nord in nostre
mani, potevamo chiedere ed ottenere compensi commerciali in cambio dei
favori che si sarebbero potuti rendere al Negus, agevolando il commercio
del suo paese; ma dal momento che ci inoltravamo nell'interno, bisognava
farlo con ogni precauzione e con tutta la preparazione perfetta tanto da
poter avere la sicurezza di non temere sconfitte.

Venne pur troppo, per nostra eccessiva fiducia la catastrofe di Dogali e
la strage dei nostri soldati e del colonnello De Cristofaris che li
comandava; fatto che, non ostante l'esito sfortunato, contribuì più di
una vittoria e far rispettare nel Tigrè e farne ammirare l'eroismo
dell'esercito italiano.

E, sotto la dolorosa impressione di quest'eccidio l'opinione pubblica fu
concorde nello spronare il governo alla guerra o nell'approvarlo quando
decise la spedizione di S. Marzano. Ma il triste fatto non valse ad
aprire gli occhi al governo il quale, invece di lasciare mano libera ai
comandanti le forze che si mandavano laggiù, volle esso stesso fissare i
limiti dell'azione; ostacolandone tutte le iniziative e mal provvedendo
alle loro richieste, sempre esitando dinanzi alla idea di assumere la
responsabilità di una politica e di un'azione decisiva. E così siamo
andati avanti a forza di piccole iniziative, le quali hanno dato sterili
risultati, e finirono coll'obbligarci a dei sacrifici che
necessariamente dovevano diventare non solo necessari ma urgenti, e quel
che è più doloroso, non dovevano essere più sufficienti per salvarci da
immane catastrofe.

Quanti disinganni! quante amarezze, questo procedere ha costato ai
nostri bravi ufficiali, a incominciare dal Saletta al Gene al Di San
Marzano, al Lanza al Cagni per finire al Balbissera; i quali animati dal
desiderio di portare di fronte al nemico la balda nostra gioventù con la
speranza di ricondurre le nostre truppe vittoriose in Italia, per gli
ordini che si mandavano da Roma si trovarono delusi, obbligati a mordere
il freno, perchè con essi veniva loro impedito lo sviluppo alle
operazioni militari, nei momenti più indicati dalle circostanze.

Il generale di San Marzano, più degli altri impaziente d'impegnare
l'azione, quando nel 1888 l'esercito del Re Johannes era in isfacelo così
da dovere levare il campo ed iniziare la ritirata in condizioni disastrose,
dovette provare il dolore più grande della sua vita--egli--valoroso
militare di tutte le campagne dell'indipendenza--compresa pur quella
di Crimea--allorchè ricevette i telegrammi da Roma che paralizzavano
ogni sua iniziativa.

E non abbiamo neppur saputo cogliere nè avvalerci della bella
opportunità che il caso ci offriva.

L'improvvisa morte del Negus Giovanni poteva metterci in condizioni tali
da essere noi gli arbitri degli eventi. Invece aperta la successione al
trono, abbiamo commesso il più grande, il più fatale degli errori.
Quello cioè di spendere tutta la nostra influenza per aiutare
l'assunzione al trono imperiale del Re dello Scioa, inimicandoci a morte
i nostri vicini del Tigrè che dovevamo tenerci amici e strettamente a
noi vincolati, col favorirli in tutti i modi, aiutando con tutte le
nostre forze l'elezione del Mangascià, il più legittimo pretendente alla
successione del Negus, e di questo servirci, e servirci delle
popolazioni, ostili per tradizione agli scioani, per garantire la
frontiera della nostra colonia e tenere a rispettosa distanza il Re
dello Scioa.

Richiamato in Italia il corpo di spedizione comandato dal generale conte
Asinari di San Marzano, venne lasciato come comandante a Massaua il
generale Baldissera, il quale diede all'opera sua una spiccata impronta
personale. Egli ebbe un esatto concetto della situazione e previde le
gravi difficoltà che sarebbero sorte per il fatto dell'abbandonata
politica Tigrina per quella Scioana. Fu lui che iniziò l'organizzazione
delle truppe indigene che fecero tanta buona prova sotto gli ordini di
Arimondi ad Agordat ed a Coatit. E fu sotto Baldissera che la colonia da
Massaua a Saati e Ua-à si estese senza difficoltà e senza spese
sull'altipiano.

Affabile con tutti, sopratutto coi suoi ufficiali, non transigeva mai
quando si trattava di un dovere da compiere. In servizio, quando aveva
dato un ordine, un comando, voleva essere rapidamente obbedito.

Il giorno della occupazione di Saati il comando superiore aspettava di
essere assalito dagli Abissini. Furono dati gli ordini per l'attacco. Il
generale Baldissera, fedele agli ordini del comando, fece occupare le
posizioni più avanzate; diede tutte le disposizioni per una energica
azione. Ad un maggiore dei Bersaglieri destinato ad occupare una
posizione importante disse colla sua voce sempre calma--soltanto queste
parole: «Se fosse attaccato... Lei maggiore muore qua... Ha capito?
siamo intesi! O la croce di legno... o la croce di Savoia...» e via di
galoppo.

Baldissera--fiero soldato, intelligentissimo ufficiale--fu lui che fece
sventolare la bandiera italiana all'Asmara e a Cheren, e fu peccato che
egli pure fosse sacrificato alla politica Scioana e per questo fosse
obbligato a chiedere il rimpatrio.

Il generale Baldissera veniva rimpiazzato dal generale Orero.--Al nome
di questo generale, valoroso ufficiale--è legato il ricordo della marcia
su Adua, fatta con tale ordine e rapidità da destare l'ammirazione
generale--l'accoglienza ad Adua fatta alle nostre truppe fu
entusiastica.

Ma per non offendere le suscettibilità Scioane si dovette abbandonare
Adua e ripassare il Mareb!

Invano i capi Tigrini, il clero, il popolo esortavano gl'italiani a
rimanere. «Noi saremo con voi» dicevano: invano ci si raccomandavano dal
momento che noi non volevamo essere i loro governanti, di riconoscere
per loro Re Mangascià sottraendoli alla minaccia di essere governati
dallo Scioa--l'ordine era di ritirarsi e di restare per Menelik e il
generale Orero e le truppe da lui comandate ubbidirono, e il generale,
disgustato esso pure--domandò di ritornare in Italia.

All'Orero successe il generale Gandolfi, un altro dei nostri migliori
generali. Giunse a Massaua nel giugno del 1890 quando la politica
Scioana era all'apogeo.

Contando su di una pace durevole dopo il trattato d'Ucciali, il Crispi
capo del governo, volle dare all'Eritrea un ordinamento civile, formato,
oltre che dal governatore, da altri tre funzionari con incarichi
speciali ai quali diede il nome di Commissari Coloniali; ma tale
organizzazione non fece buona prova, perchè la colonia non era ancora a
quel punto nel quale all'ordinamento militare si poteva, come avvenne
dippoi, sostituire un'organizzazione civile.

Fu sotto il generale Gandolfi che ebbe luogo la famosa intervista sul
Mareb con Mangascià e cogli altri capi tigrini, nella quale furono
solennemente giurati i patti che dovevano assicurare la quiete e la
tranquillità della colonia, e fu in conseguenza di questi patti che
vennero dati gli ordini da Roma per la ritirata delle nostre truppe,
dalle migliori provincie Eritree del Seraè e dell'Oculè Cusai.

A rimpiazzare il generale Gandolfi fu destinato il generale Barattieri,
che all'età di 17 anni aveva fatto parte della gloriosa schiera dei
Mille, uno dei più caldi fautori della politica di espansione
coloniale.--Amicissimo di Zanardelli e di Cairoli, sotto l'aureola
simpatica di essere trentino fu eletto deputato di Breno, collegio, che
gli rimase sempre fedele.

Durante i primi anni del suo governo, passati in un periodo ininterrotto
di pace e di tranquillità, diede opera all'ordinamento civile della
colonia.

Verso la fine del 1893 ritenendo che la pace sarebbe perdurata, venne in
licenza in Italia lasciando il comando delle truppe e le funzioni di
governatore nelle mani del colonnello Arimondi,--un valoroso. Questi il
22 dicembre 1893 con un suo telegramma al Ministro della guerra
annunciava la vittoria d'Agordat combattuta contro i Dervisci. Trofeo
della vittoria, 72 bandiere lasciate in mano dei nostri, una mitragliera
e circa 800 fucili. I dervisci lasciarono sul terreno più di mille
morti, mentre le nostre perdite furono di tre ufficiali ed un
sottufficiale morti, di un ufficiale ed un sottufficiale ferito, e di
circa 225 indigeni fra morti e feriti.

Il Re mandava il giorno stesso al colonnello Arimondi il seguente
telegramma:

          Colonnello Arimondi,

                                                         Agordat.

Mando a lei e alle truppe d'Africa le più vive felicitazioni per la
vittoria d'Agordat. L'Italia che si associa al mio plauso, rende con me
un sacro tributo ai valorosi che morirono per la gloria della nostra
bandiera.

                                                       _Umberto_.

A questo telegramma il colonnello Arimondi rispondeva così:

          «Ministro Guerra,

                                                            Roma.

«Il plauso del Re fu per tutti il premio più ambito».

Il colonnello Arimondi fu promosso al grado di maggior generale per
merito di guerra.

Il generale Barattieri ritornato a Massaua, preoccupato dall'eventualità
di qualche non gradita sorpresa da parte dell'Abissinia, fece noto al
governo il vantaggio che si sarebbe ritratto dalla occupazione di
Cassala, non soltanto al nord ma anche al sud della colonia, sia per il
maggior prestigio che questo colpo di mano ben riuscito avrebbe dato
alle nostre forze di fronte agli abissini, sia perchè togliendo ai
dervisci quell'importante punto di concentramento, si allontanava il
pericolo di dover fronteggiare contemporaneamente due nemici posti agli
estremi limiti della colonia.

In data 12 giugno il ministro degl'esteri barone Blanc telegrafava al
Barattieri.

«Il Governo del Re lascia lei giudice di prendere quelle disposizioni
che crede più opportune per agire su Cassala».

E il Barattieri prendeva le sue disposizioni per l'attacco.

Il 16 di giugno di sera, dà l'ordine di marcia che, trattandosi di
sorpresa, deve essere fatta nel silenzio il più assoluto, con
raccomandazione agli ufficiali di tenere sempre in mano le truppe--e la
marcia fu eseguita in ordine perfetto, e secondo le disposizioni
date.--Sul fare del giorno le nostre truppe erano in vista del campo di
Cassala.

Alle ore 7 l'avanguardia apriva il fuoco contro la cavalleria nemica, la
quale si gettava contro il nostro fianco sinistro, ma è costretta a
ripiegare; l'avanguardia seguita dal grosso continuò ad avanzare, finchè
giunta a 400 metri dai dervisci schierati, apriva il fuoco a salve, sia
contro essi, sia contro la cavalleria; i nemici rispondevano con fuoco
ben nutrito, ma infine, vedendo che non vi erano apprensioni sui fianchi
e per le spalle, il generale Barattieri diede l'ordine di un colpo
simultaneo di tutte le forze, che mise in sfacelo il nemico, obbligato a
lasciare il campo ed a ritirarsi a corsa sfrenata.

                                    *
                                   * *

Fin dal luglio il generale Barattieri informava il governo che egli
temeva prossima--e cioè nel dicembre del 1894 o nel gennaio 1895--una
levata di scudi di tutta l'Etiopia contro di noi.

Difatti il primo sintomo che al generale diede modo di giudicare giusto,
fu la ribellione di Batha-Agos, la rottura dei fili e quindi
l'interruzione del servizio telegrafico, e l'arresto a tradimento del
tenente Sanguinetti, nostro residente a Saganeiti.

Il maggiore Toselli informato del tradimento, con marcia rapidissima la
mattina del 16 arrivava con tre compagnie a Mahraba, poco distante da
Saganeiti, e subito apriva trattative con Batha-Agos per la restituzione
del tenente Sanguinetti; intanto ristabiliva la linea telegrafica.
Disponeva in complesso di circa 1500 uomini e di una batteria da
montagna, ed aveva stabilito di dare l'attacco a Saganeiti, forte
posizione, la mattina del 18 settembre, quando si accorse che i ribelli
l'avevano sgombrata. Deciso ad inseguire i ribelli, il maggiore Toselli
senza por tempo in mezzo, occupa Saganeiti e continua senza riposo la
marcia nella speranza di disperderli e di arrivare in tempo a salvare la
compagnia di Halai isolata e che correva il più grave pericolo.

Ad Halai frattanto la compagnia sotto gli ordini del capitano
Castellazzo, con grande valore sosteneva da ore un ineguale
combattimento contro le orde di Batha-Agos forti di 1600 uomini; mentre
i ribelli avvolgevano da tutte le parti il piccolo forte presidiato da
circa 200 uomini, una viva fucilata rovesciava il fronte del
combattimento. Era l'avanguardia della colonna Toselli che entrava in
azione colle compagnie dei capitani Folchi, Olivari e Gentili e dava
tempo alla compagnia Galli di guadagnare il ciglio con una sezione
d'artiglieria.

I nostri rianimati pel soccorso aumentarono il fuoco al grido di
Savoia! e poco appresso il maggiore Toselli con tutte le forze si
slanciava all'attacco. Alle 18 era già notte e il nemico, sfuggiva
dietro le rupi e giù per le chine precipitando. Le perdite dei nostri,
11 ascari morti e 22 feriti; le perdite del nemico furono notevoli
assai.

Fra i morti Degiac Batha-Agos ed il suo parente bascià Musgnen.

Il tenente Sanguinetti poté sottrarsi alla triste fine che i seguaci di
Batha-Agos gli minacciavano, per l'assistenza del suo interprete
Gare-Sghaer, bravo giovane indigeno che gli si mostrò fido fino alla
morte.

Dopo la ribellione di Batha-Agos non era più possibile dubitare sulle
intenzioni ostili di ras Mangascià. Il generale Barattieri non perdè
tempo; concentrò un corpo di operazione ad Adi Ugri, e chiamò sotto le
armi la milizia mobile che diede ottimi risultati; fatto ciò, al
generale sembrò il miglior consiglio quello di marciare su Adua. La
colonna rifece la strada percorsa dal generale Orero, e anche questa
volta come allora, le popolazioni accorsero sul passaggio delle nostre
truppe festeggiandole ed insistendo che vi rimanessero a proteggerle.

Le nostre truppe nell'imminenza d'un attacco che pareva certo, presero
posizione sull'altura di Fremona; ma nè ras Mangascià, nè ras Agos
osarono cimentarsi; e si ritirarono avviandosi, apertamente ostili, per
altra direzione.

Il Barattieri che aveva ottenuto l'effetto morale voluto, abbandonò Adua
e ritornò ad Adi-Ugri.

Verso l'8 ras Mangascià concentrò tutta la sua gente al di là dei nostri
confini. Il giorno 12 decise di passare la frontiera per entrare
sul'Oculè-Cusai, dove ogni villaggio è una fortezza naturale e da dove
chi vi si annida può sfidare impunemente qualunque nemico.

Barattieri decise di prevenire il nemico nella posizione di Coatit
mentre questo stava per addentrarsi nei monti. Ed a Coatit avvenne la
battaglia che ha dato nuova gloria ai nostri ufficiali, che ha provato
una volta ancora la saldezza delle nostre truppe e dei loro ordinamenti.
Alla sera dell'11 il Generale ordinò di passare l'indomani mattina il
Mareba, dirigendosi sopra Adis-Adi. Quivi la colonna che doveva marciare
su Coatit fu formata così:

Avanguardia: Toselli con sei compagnie e le bande dell'Oculè-Cusai;
Grosso: la compagnia del battaglione Galliano, una batteria su 4 pezzi,
quattro compagnie dello stesso battaglione, il battaglione Hidalgo di
cinque compagnie; Salmeria, e le bande del Seraè in retroguardia.

Da Adis-Adi le truppe si mossero alle 9; il Toselli aveva ordine di
occupare Coatit, e possibilmente prima di notte prendere contatto col
nemico. Difficile, faticosa fu la marcia. La colonna giunse a Coatit che
fu trovato sgombro, senza che il nemico avesse avuto sentore dell'ardita
marcia.

La notte passò senza novità, senza nessun allarme. Alle 3 del 13 il
generale ordina al maggiore Galliano di muovere, per schierarsi a
sinistra del maggiore Toselli; al maggiore Hidalgo ordina di seguire in
riserva.

Tutti sono al loro posto e il movimento offensivo si inizia allo
spuntare dell'alba, ore 6, coll'avanzare di tutti convergendo a destra,
perno l'artiglieria; successivamente i battaglioni Toselli Galliano e le
bande Sanguinetti e Mulazzani; nel centro, a rincalzo, in posizione
coperta il battaglione Hidalgo con quattro compagnie, avendo dovuto
lasciare la quinta nella posizione e con l'incarico sopra indicato;
direzione di marcia, un poggio conico sulla cui sommità sorge un
_Tecul_. Tutto procede con ordine. Poco dopo le sei i due battaglioni di
prima linea hanno le compagnie parte schierate, parte coperte in buona
posizione e allo spuntare del sole la batteria Ciccodicola da un altura
maestrevolmente scelta, lancia il suo primo Shrapnel contro il campo
nemico; mentre il quartier generale, con bandiera spiegata va a fissarsi
sul poggio conico sovraindicato.

È evidente una grande agitazione nel campo nemico. Malgrado la sorpresa,
con molta prontezza e slancio, a gruppi sempre più fitti vengono
innanzi, superando con destrezza ammirabile buroncelli ed impedimenti,
mascherando il numero, offrendo pochi bersagli, affittendosi sempre più
dietro i ripari.

Il fuoco di fucileria si apre su tutta la linea colle avanschiere del 3º
e del 4º battaglione, le quali, malgrado l'impeto che le spinge
all'attacco, si mantengono in pugno agli ufficiali come ne sono prova i
frequenti fuochi a salva. Le compagnie manovrano con calma serena,
facendo moderatamente uso del tiro e schermendosi convenientemente. Lo
slancio non scema la disciplina che manifesta la sua superiorità.

Mentre l'azione si accende sempre più viva si scorge da parte dei
tigrini un movimento girante alla larga, ciò che gli è permesso dal gran
numero di forze, superiori assai alle nostre, dalla perfetta conoscenza
dei luoghi e dalla maestria abissina nei movimenti avviluppanti. Dal
comando furono mandati ordini urgenti alle bande di volgersi a sinistra
in direzione del poggio di Adi Auei, ed alle compagnie non impegnate del
3º battaglione, di muovere verso le alture per interrompere
l'aggiramento che andava sempre più accentrandosi stringendosi.

Fu dato ordine ai maggiori Toselli e Hidalgo di arrestare l'avanzata
verso il campo del Ras delle compagnie impegnate; ripiegare dalla destra
verso sinistra le compagnie non impegnate volgendo il fronte a Nord Est
e Nord donde veniva l'accerchiamento; concentrarsi infine sopra la
posizione di Coatit. I cannoni furono pure avviati verso Coatit per
sostenere il cambiamento di fronte a sinistra; e il comando stesso mosse
dal poggio verso Coatit, esposto nel percorso al bersaglio di una forte
colonna nemica, la quale fu bravamente respinta dagli ascari; caddero
vicini al generale Barattieri, il tenente Sanguinetti colpito tre volte
di palle, il tenente Castellani, il sergente Bertoja, il porta bandiera
e molti ascari. Ma verso le undici dal ciglio che limita al Nord lo
spianato di Coatit, il generale poteva ordinatamente disporre le truppe
per un efficace difesa della località e l'accogliere le forze per un
contrattacco, coadiuvato potentemente dal generale Arimondi.

Tutto il corpo d'operazione era sottomano unito e pronto a qualsivoglia
azione, con un morale altissimo.

Il nemico dalle alture che aveva occupato continuava un vivo
schioppettìo a grandi distanze senza recare ai nostri, gravi danni.

La notte del 13 al 14 passò tranquilla; il nemico salutò l'alba del 14
con intensa fucilata che pareva volesse preludiare ad un attacco
generale. Nel meriggio si videro nuvoli di tiratori coronare l'altura e
scendere giù nel burrone, scagliando una punta a sinistra cioè
all'angolo Nord-Ovest della posizione di Coatit; la batteria lanciò
qualche colpo contro i nuclei nemici che volsero in fuga ed incendiò
l'erba secca per una notevole estensione.

Distribuiti viveri e munizioni, raccolti indizi di depressione da parte
del nemico il generale risolse per l'alba dell'indomani (15) di dare
l'attacco contro l'altura a Nord di Coatit. All'uopo l'artiglieria prima
dell'alba doveva essere pronta a battere la cresta dell'altura della
quale aveva misurato la distanza. Il 4º battaglione con manovra libera e
tattica abissina, doveva scendere stormeggiando nel vallone e risalire
l'altura avviluppandola sotto la protezione del fuoco d'artiglieria; le
bande nel fianco destro aggirando, dovevano puntare sopra Adi-Auei per
minacciare e colpire fianco e tergo dei tigrini. Il 2º e 3º battaglione
dovevano aspettare ordini per appoggiare l'attacco.

Ma nella notte Ras Mangascià pensò bene di ritirarsi coi suoi verso
Senafé.

Avutone il Barattieri notizia alle 3 1/2 del mattino del 15, diede gli
ordini opportuni per l'inseguimento del nemico--questo durò fino a
Senafé--ma non fu potuto raggiungere e le truppe abissine si dispersero.

Dopo la sconfitta di Coatit e la disastrosa ritirata da Senafé, Ras
Mangascià, mentre faceva proteste di amicizia e mostravasi al generale
italiano animato dal desiderio di pace, cercava d'altra parte di
raccogliere soldati, ed avendo posto il campo coi suoi a due giornate da
Adigrat, era di ostacolo alla pacificazione della regione. In tale stato
di cose l'occupazione di Adigrat, capitale dell'Agame, per parte nostra
s'imponeva.

Nella metà di marzo Barattieri intimava a Mangascià di disarmare; e
siccome invece di disarmare egli continuava a dare molestie, il generale
decise di varcare il confine ed occupava militarmente Adigrat.

Intanto le informazioni che venivano dallo Scioa confermavano sempre più
la notizia che Menelik era deciso di portare forte aiuto a Mangascià.
Nel suo rapporto al Ministro degli Esteri il governatore dell'Eritrea
informava dello stato delle cose, concludendo che bisognava essere
pronti ad una grossa guerra pel prossimo dicembre.

E fu in seguito a tali notizie che il Ministero, non essendo d'accordo
sulle misure da prendersi, reputò opportuno di chiamare il governatore
in Italia col seguente telegramma:

          Roma, 8 luglio

«Il governo desidera conferire verbalmente sulla situazione preveduta
pel prossimo autunno. La preghiamo prendere disposizioni opportune per
una sua breve assenza dalla Colonia».

                                          _Crispi-Blanc-Mocenni_.

Prima di lasciare la Colonia il generale disponeva che a vigilare le
regioni occupate, il maggior Toselli ponesse la sua dimora nell'Agamè e
che il maggior Amelio si stabilisse nel Tigrè dominando Adua dal colle
di Fremona. Tutto disposto il governatore, ubbedendo agli ordini del
governo, s'imbarcò per l'Italia.

Verso la fine di settembre ebbero luogo delle scaramuccie al di là dei
nostri confini fra partigiani nostri e gruppi di fedeli a Mangascià il
quale seguitava a raccogliere armati. Era evidente la necessità da parte
nostra di attaccare Mangascià prima che potesse ricevere gli sperati
aiuti dallo Scioa.

Il governo Eritreo ai primi d'ottobre chiamò sotto le armi la milizia
mobile e decise di prevenire la minacciata invasione.

Il generale Barattieri era ritornato al suo posto.

Si era saputo che Ras Makonnen, aveva espulso dall'Harrar gli italiani e
si era mosso col suo esercito per raggiungere il Negus; che Ras Mikael
era pronto col suo esercito e che Ras Oliò s'era avanzato fino al sud
del Lago Ascianghi. Non c'era tempo da perdere; una sconfitta inferta a
Mangascià poteva ancora trattenere Menelik e persuaderlo ad evitare un
conflitto; così fu creduto dal comando.

Il giorno 4 di ottobre il generale Barattieri mosse da Adigrat con
quattro battaglioni indigeni, col battaglione Cacciatori d'africa e coi
reparti del genio e dell'artiglieria.

L'ordine di marcia in avanti fu accolto con entusiasmo nel campo.

Il Toselli fu distaccato col suo battaglione in colonna volante, con
incarico di sorprendere sul fianco Mangascià in ritirata.

Il nostro corpo d'operazione invase l'Enderta. Circa 1700 tigrini
avevano occupato la forte posizione di Debra-Ailà; mosse a quella volta
con rapida e faticosa marcia il maggiore d'Amelio col suo battaglione,
attaccò vivamente la posizione malgrado la difficoltà del luogo e della
difesa e ne determinava la sconfitta e la fuga del nemico, facendo
numerosi prigionieri.

Il maggior Toselli la sera dell'8 informava il generale di avere
occupata la posizione alle spalle del nemico che si trovava al sud di
Debra-Ailà e che la mattina seguente avrebbe proceduto all'attacco.

Ricevuta questa notizia verso notte Barattieri ordinava alle tre dì
mattino si riprendesse la marcia. Alle 11 i nostri entravano in Antalo
senza avere incontrato il nemico. Si sentiva un vivo fuoco di fucileria
ed esaminata la posizione si vide che si combatteva sulle alture di
Debra-Ailà.

L'assalto di quella forte posizione era stato iniziato dalle bande
comandate dai bravi tenenti Sapelli e Lucca; quando queste furono spinte
sui fianchi il maggiore d'Amelio fece avanzare due compagnie di Ascari,
mentre l'Artiglieria sloggiava il nemico delle alture.

Dopo un quarto d'ora di fuoco accelerato, il battaglione indigeno
muoveva all'assalto della montagna, mentre Barattieri faceva avanzare il
battaglione dei cacciatori italiani, sostenuti dal 3º battaglione
indigeno. In breve i nostri forzarono il ridotto dell'Amba e il fuoco
cessava. Il nemico, sbaragliato si dava alla fuga, mettendosi in salvo
per sentieri impraticabili.

Finito il combattimento il battaglione d'Amelio, che si distinse in modo
particolare, rimase sulla forte posizione conquistata con una batteria;
le altre truppe ritornarono ad Antalo, ove Barattieri pose il suo
quartier generale.

Il generale Arimondi avuto notizie che Mangascià si era diretto verso il
Vogherat si mosse da Antalo per inseguirlo, così pur fece il maggior
Toselli; sorpassata la catena di Tagarrà, raggiunse il campo del Ras che
lo aveva abbandonato poco prima; lo inseguì ancora, ma si cercò invano
di raggiungerlo; allora riunitosi Arimondi col Toselli presero la via di
Amba-Alagi.

Dopo questi fatti il Makonnen mandò proposte di pace d'incarico del suo
sovrano; ma queste non erano che inganni per guadagnar tempo e per
addormentare il governo italiano e il comando dell'Eritrea. Si sapeva
invece che Menelik raccoglieva forze poderose, che unite a quelle di
Makonnen formavano già un corpo rispettabile di circa cinquantamila
uomini.

Mentre questo si preparava nel campo nemico, al comando di Massaua,
mancando un servizio di sicure informazioni, nulla si sapeva, e così il
governo e il governatore dell'Eritrea, continuarono ad andare innanzi
nella convinzione che il Negus non si sarebbe mosso, e che non si
trattava di altro che di minaccie. Insomma si credeva ad una eccellente
situazione, quando già ingenti masse si riunivano al lago Ascianghi e si
facevano allo Scioa gli ultimi preparativi per la gran guerra di
esterminio degli italiani.

A confermare il comando nella sua credenza, il 3 dicembre un dispaccio
ufficiale annunziava che ras Makonnen aveva chiesto un convegno al
generale Barattieri «per trattare la pace». Perfido inganno--che
ribadiva nel nostro governo una fallace illusione, il cui risveglio
doveva essere fatale e tremendo. E questo risveglio non doveva pur
troppo ritardare.

Il giorno 9 dicembre veniva comunicato alla Camera dei deputati un
dispaccio del generale Barattieri col quale informava che la colonna
Toselli era stata improvvisamente attaccata ed avviluppata ad Amba Alagi
da tutto l'Esercito Scioano. Si riteneva che l'ordine mandato dal
generale Arimondi di ritirarsi, non gli fosse pervenuto.

Che il generale Arimondi avanzatosi per sostenere il Toselli era
arrivato alle ore 16 a mezza strada fra Macallè e l'Amba nella
posizione di Aderat; ivi incontrate le colonne nemiche aveva impegnate
con esse combattimento ed aveva poi concentrate tutte le sue truppe col
massimo ordine a Macallè; che lasciato Macallè fortemente presidiata e
munita, si era messo in marcia per Adagamus assieme agli ufficiali
Bodrero, Pagella e Bazzani.

Infine concludeva che mancavano notizie del Toselli.

                                    *
                                   * *

L'annunzio del doloroso avvenimento produsse una impressione enorme.

Ecco le informazioni che si ebbero sul combattimento ove si coprirono di
gloria coloro che vi presero parte.

Il maggiore Toselli aveva fin dal giorno precedente disposta la sua
difesa, sempre con la certezza che il generale Arimondi gli avrebbe
portato soccorso.

Aveva ordinato che le bande di ras Sebath e di Degiac Alì, 350 fucili,
tenessero il colle a guardia della strada Falaga all'estrema sinistra;
che le Compagnie Issel e Canovetti tenessero la sinistra con una
centuria avanzata verso la chiesa di Atzalà; che la batteria Angherà,
scortata dalla compagnia Persico tenesse il centro; che le bande
dell'Oculè Cusai, 350 fucili, tenessero le colline sovrastanti; che lo
Sceicco Thalà con 340 fucili stesse sulla destra a difesa del Colle di
Togorà-Maggia; che le compagnie Ricci, Bruzzi e la centuria Pagella
stessero in riserva. L'attacco non si fece attendere.

La colonna di ras Olie con una mossa rapida frontale avvolgente impegnò
l'ala estrema sinistra: ras Sebat preso di fianco e di fronte dovette
ripiegare, lasciando le due compagnie Issel e Canovetti scoperte e
costrette a cambiare la fronte, pur sempre trattenendo il nemico
incalzante. Intanto dal Colle di Bootà sbucavano imponenti le colonne di
ras Mikael e di ras Makonnen, circa 15,000 fucili, dirette per la via
principale verso il centro della posizione. La nostra ala sinistra,
sebbene stremata, con brillanti contrattacchi teneva in rispetto forze
venti volte superiori. Erano morti i tenenti Molinari e Basale, e ferito
il tenente Mazzei.

A Toselli premeva tenere ancora quella posizione che proteggeva la
strada diretta di Antalo, donde sperava veder giungere la colonna
Arimondi e slanciò a sinistra la compagnia Ricci; questi si avanzò e
impegnossi a fondo. Il nemico dovette ripiegare incalzato sul fronte;
frattanto la batteria apriva squarci nella pesante colonna scioana, ma
questa riordinandosi e rafforzata da nuove bande continuava ad avanzare.

Giungeva allora (9,45) l'avviso di Volpicelli che un'altra forte colonna
comandata da ras Alula e da ras Mangascià, tentava girare la destra
tendendo al Colle di Togorà; anche da quella parte si facevano vive le
fucilate. Toselli, non vedendo giungere gli sperati aiuti, decise di
restringere la difesa e di tenersi addossato all'Amba; mandava quindi
ordini a Ricci, a Canovetti, a Issel di eseguire un ultimo contrattacco
e la ritirata sotto l'Amba; alla sezione Manfredini ordinava di
proteggerli. Intanto la colonna principale scioana avanzava sulla
batteria, nè valevano a trattenerla i tiri spessi e ben aggiustati e le
salve della centuria Persico.

Toselli allora ordinava che le salmerie s'incolonnassero sulla via di
Togarà ed il movimento cominciò regolarmente: a sostenere il movimento
al nord dell'Amba, Manfredini ebbe ordine di spostarsi colla sezione da
quella parte.

Appena gli scioani si accorsero del cessare del fuoco della batteria,
irruppero rincalzando l'assalto; fu un momento terribile; la strada
strettissima sovrastante a un precipizio, era ingombra di muletti
carichi di feriti; Manfredini con sangue freddo e valore inarrivabile
riusciva a mettersi in batteria, Pagella si distendeva con pari valore a
protezione della colonna affollantasi; sventuratamente lo Sceicco Thalà
aveva ripiegato in disordine.

Le bande del Volpicelli erano disfatte; l'altura era coronata dalla
gente di ras Alula che con fuoco accelerato a meno di cinquanta metri,
infliggeva perdite enormi. I nostri ascari rispondevano al fuoco in
ritirata; la compagnia Brizzi disfatta, non potè fare argine alle grosse
colonne di ras Makonnen e di ras Oliè che irrompevano prendendo i nostri
alle spalle. I sudanesi del tenente Scala, piuttosto che cedere i pezzi,
rovesciarono i muli, i cannoni e le munizioni nel precipizio.

Manfredini mitragliava a cinquanta passi; ma il numero esorbitante degli
scioani rese impossibile ogni ulteriore difesa. Allora cominciò la
discesa del dirupo precipitosamente per proseguire il movimento su
Macallè.

L'ultimo a muoversi fu Toselli; conservando la sua calma, disposto come
era a sagrificare la sua vita, dava ordini affinchè il danno fosse il
minore possibile; erano rimasti intorno a lui pochi ufficiali: Angherà,
Persico, Bodrero, Pagella e i suoi più fidi e valorosi soldati. Tutti
erano sfiniti; e la piccola schiera andò man mano assottigliandosi nella
discesa, colpiti a dieci passi di distanza. Giunto sulla strada di
Antalo, Toselli, da vero eroe ordinò a Bodrero di raccogliere i pochi
rimasti e condurli a Macallè. Egli, si voltò sereno verso il nemico,
sfidandolo in attesa della sua sorte.

Bodrero, ubbidiente agli ordini del suo superiore, riordinò la colonna,
trattenne i dispersi e li portò ad Arimondi che si trovava ad Aderà e
nulla sapeva del combattimento; con Bodrero si salvarono Pagella e
Bazzani.

Il giorno dopo il combattimento, Makonnen, ordinò solenni funerali alla
salma del maggior Toselli, del quale ammirava il valore. Tutta l'Italia
ha sentito per quest'Eroe un fremito di compianto e di orgoglio.

L'assalto all'Amba Alagi fu dato improvvisamente come sempre, ed a
tradimento, mentre pendevano trattative di pace ingannatrici.

Tant'è vero che avendo ras Mangascià investito alcuni dei nostri posti
avanzati, il maggiore Toselli se ne lagnò con Makonnen, e questi
rispondeva che Mangascià aveva operato di sua testa, contrariamente agli
ordini da lui dati.--Vero esempio di fede abissina!

Il generale Arimondi raccolti i superstiti di Amba Alagi si ritirò su
Adigrat lasciando per presidio a Macallè il maggiore Galliano col 3º
battaglione indigeni, una compagnia dell'8º, quattro pezzi da montagna,
due sezioni del genio, una stazione di carabinieri, in complesso 31
ufficiali, 176 uomini di truppa bianca, 1150 di truppa indigena.

Il 16 decembre questa nostra posizione avanzata era investita da 30,000
combattenti, gli assalti si susseguirono agli assalti, sempre
valorosamente e brillantemente respinti.

Il giorno 8 di gennaio il nemico si avanzava arditamente fino all'angolo
morto di due burroni, occupando l'acqua della quale si alimentava il
presidio di Macallè; nella notte furono dai nostri respinti due furiosi
attacchi.

Le truppe nemiche che muovevano contro per annientarci e ricacciarci al
mare eransi andate sempre più ingrossando fino ad arrivare alla cifra di
70,000 fucili, 10 mila lancie, più la cavalleria Galla ed altri piccoli
riparti disseminati nelle vicinanze; in tutto oltre centomila
combattenti. I nostri non avevano da apporre che circa 8000 soldati
bianchi e 11,000 indigeni.

E si noti--che il generale Barattieri aveva previsto che nel novembre e
dicembre la colonia sarebbe stata investita da tutta l'oste Tigrina e
Scioana; per cui era da prevedersi che i nostri si sarebbero trovati di
fronte ad un esercito di circa centomila uomini ben armati, della cui
resistenza e valore avevano dato prove.

E allora perchè non si è provveduto a tempo in conformità dei bisogni e
delle previsioni pur troppo esattamente avveratesi? Perchè il generale
Barattieri che aveva preveduto il formidabile attacco non si preparò per
tempo a bravamente respingerlo? Se non si voleva fare un agglomeramento
di truppe nella colonia prima del bisogno, perchè non si provvedeva in
Italia quanto occorreva per la preparazione di una grossa guerra, onde
alla chiamata dei rinforzi a momento opportuno, e che il governo non
avrebbe dovuto lesinare, tutto fosse pronto? E preparata bene ed a
tempo, non sarebbe stata una utilissima diversione quella di uno sbarco
di nostre truppe ad Assab ed una spedizione all'Aussa che avrebbe
trovato favore presso i Dancali--come così bene era stata progettata dal
generale Pittaluga? Era cosa alla quale bisognava pensarci per tempo, e,
presa una decisione, attuarla prima che le nostre poche truppe della
colonia fossero impegnate a fondo. Non si può negare; fu grande la
imprevidenza e ne fu scontato il fio!

Mentre i nostri a Macallè sostenevano con eroismo giorno e notte furiosi
assalti, il Makonnen continuava per incarico del Negus di chiedere la
pace; proposte che il Barattieri comunicava al governo. Messaggiero di
tali proposte era certo signor Felter persona di fiducia del Barattieri,
il quale aveva trasferito il suo quartiere generale ad Adagamus.

Il 17 gennaio il Felter si presentava al Barattieri portatore di
un'offerta da parte di Menelik, garante Makonnen--_di lasciare uscita
libera con armi, munizioni di guerra, bagagli e_ _senza condizioni di
sorta le nostre truppe da Macallè per raggiungere Adigrat._

Al Galliano fu dato l'ordine di lasciare il forte--_dopo di essersi
pienamente assicurato che tutte le garanzie sarebbero state
completamente osservate_.

Sembrò da prima che questo fosse un fatto da tenersi in conto ed atto a
predisporre il governo italiano ad un trattato di pace onorevole per
ambo le parti; invece si verificò che la concessione del Negus non era
che un'astuzia di guerra; le forze comandate dal Galliano non dovevano
essere che un ventaglio aperto per coprire la marcia delle orde Scioane
verso Adua e per impedire alle truppe della colonia un attacco di fianco
durante la marcia.

Rese libere le truppe del presidio di Macallè il giorno stesso nel quale
venne segnalato al comando generale lo spostamento della gran massa
dell'esercito nemico, Barattieri ordinava di levare il campo da Adagamus
per occupare una posizione atta a mantenere il contatto delle forze
della colonia con quelle del nemico; per cui dopo una marcia di 12
giorni, il 13 di febbraio il generale diede ordine di schierare i suoi
battaglioni sulle alture di Sauria, dominante la posizione di Mai
Gabetà ed Adua occupate dal nemico.

Nella notte del 13 disertavano dal nostro campo le bande di Ras Sebath e
di Degiac Agos Tafari di circa 600 fucili--questa diserzione fu il
segnale dell'insurrezione nell'Agamè, per cui il Barattieri fu obbligato
a pensare di garantire alle nostre truppe la linea di rifornimento; al
quale effetto dovette distaccare dalla brigata Arimondi il colonnello
Stevani con tre battaglioni, una batteria e due compagnie di indigeni, e
nel tempo stesso chiamare da Adi-Ugri a Mai Maret il colonnello Di
Boccard con tre battaglioni; per queste disposizioni le forze
combattenti rimanevano ridotte a circa 14,000 fucili con 50 cannoni. Si
aveva però il vantaggio che la posizione di Sauria era ottima per la
difesa, convenientemente fortificata, coi fianchi ben appoggiati e
difficilmente aggirabili; infine le nostre truppe, sebbene sensibilmente
diminuite di numero, si trovavano in condizione da potere respingere
qualsivoglia attacco. Nel frattempo il nemico vista la forte posizione
dei nostri dopo di avere per un momento pensato ad attaccarli si
dileguava dietro i monti di Genedapla e finiva per ritirarsi nella conca
di Adua.

Vi era quindi tutto da guadagnare nel rimanere nella forte posizione che
l'immensa oste Scioana aveva permesso ai nostri di occupare senza
molestie; si doveva renderla quanto più possibile inespugnabile ed
attendere di essere assaliti, provocando anche il nemico con delle
avvisaglie e con avvedute ricognizioni. Coll'attendere si suscitava il
malcontento e la discordia nel campo nemico; gli Scioani avrebbero
consumato le provvigioni che avevano tratte seco e sarebbero stati
costretti di levare il campo e ritornarsene da dove erano venuti. È
notorio che perfino un ufficiale russo, il capitano d'artiglieria
Zviaghin, membro di una Commissione del suo governo presso Menelik e che
aveva studiato con molta diligenza e con la maggior benevolenza lo stato
di guerra dell'esercito etiopico, aveva dovuto sentenziare, _che questo
esercito doveva forzatamente ritirarsi, prima che le riserve delle
vettovaglie che gli uomini portavano con se fossero esaurite_.

Si è voluto invece precipitare--con 14,000 uomini si è preteso di
portare vittoria su 80 a 100,000 valorosi; tutta gente che aveva
mostrato di sapersi battere; svelta nei movimenti, pratica di ogni palmo
di terreno, avvezza per istinto agli accerchiamenti; e come doveva
essere--si è andato incontro ad un immane disastro.

Colpa imperdonabile l'ebbe anche il governo. Presa la decisione di
mandare al Comando generale il Baldissera, il governo aveva il dovere
assoluto, imprescindibile, di subito informarne il Barattieri,
ordinandogli contemporaneamente di mantenersi nella difensiva.

Il Barattieri invece d'accordo cogli altri generali Dabormida, Arimondi,
Albertone, Ellena, decise di muoversi la notte del 29 febbraio da Sauria
per marciare verso Adua--obiettivo l'occupazione della forte posizione
costituita dal monte Semaiata e da monte Esciasciò.

L'ordine di marcia era il seguente:

Colonna destra, generale Dabormida--2ª brigata fanteria--battaglione di
milizia mobile--Comando 2ª brigata di batteria, colle batterie 5ª 6ª e
7ª.

Colonna del centro, Arimondi--1ª brigata fanteria--1ª compagnia del 5º
battaglione indigeni--batterie 8ª e 1ª.

Colonna di sinistra, Albertone--Quattro battaglioni indigeni--Comando
della 1ª brigata di batteria e batterie 1ª 2ª 3ª e 4ª.

Riserva, Ellena--3ª brigata fanteria--3º battaglione indigeni--Due
batterie a tiro rapido e compagnia genio.

La colonna di destra doveva seguire la strada colle Zalà, colle Guldam,
colle Rebbi Arienni; la centrale e la riserva la strada da Adi-Dichi,
Gundapta, colle Rebbi Arienni; la colonna di sinistra la strada Sauria,
Adi-Cheiras, colle Chidane Maret; il quartier generale doveva marciare
in testa alla riserva.

Ordine a tutti di mantenere il collegamento--e il corpo di operazione si
mise in moto. Si marciava di notte in terreni sconosciuti ai nostri--era
possibile non avvenisse qualche disguido?

La colonna Albertone arrivava al colle Chidane Maret alle 5 1/4; secondo
le istruzioni avute vi si doveva stabilire, cercare il contatto colla
destra ed aspettare ordini; invece il comandante desideroso della gloria
di venire primo alle mani col nemico, commise il grande errore di
rimettersi in marcia; cosicchè all'albeggiare giungeva alle falde di
Abba-Carima, mentre il 1º battaglione indigeni (maggiore Torrito) in
avanguardia si trovava a circa 3 chilometri spinto più avanti; per cui
avanguardia e colonna Albertone della sinistra, si erano allontanate di
gran lunga dalle altre brigate e prive di ogni contatto.

Difatti alle 8 1/4 il battaglione indigeni (Torrito) avanguardia
Albertone, fu il primo ad essere attaccato da forze preponderanti e
nonostante la più disperata difesa fu rotto e posto in fuga; nel
medesimo tempo le alture di Abba-Carima e l'Amba Scellodà si videro
coronate da numerosissimi stormi di nemici, che investirono la
brigata Albertone, isolata ad una distanza di sei chilometri e
nell'impossibilità di essere soccorsa.

Il generale Albertone non si smarrì; lottava con la sua brigata contro
forze dieci volte superiori e ne faceva strage, ma minacciata di
aggiramento alla sua sinistra gli ascari non tennero più, e volsero il
tergo al combattimento e si diedero alla fuga; invano gli ufficiali
tentarono di fare argine, di arrestarli per ricondurli al combattimento,
essi stessi venivano travolti da quella valanga.

Frattanto al colonnello Brusati era riuscito di stendere sulla sinistra
di monte Belah due battaglioni del suo reggimento, e sebbene la brigata
indigena continuasse a combattere efficacemente non impressionata dalla
fuga degli ascari, pure il generale Barattieri alle 7 1/4 credette
opportuno di mandare all'Albertone l'ordine di ritirarsi sotto la
posizione della brigata Arimondi. Alla brigata di riserva era dato
ordine di rinforzare la sinistra di Arimondi.

Ma la brigata Albertone era sempre più furiosamente attaccata da forze,
contro le quali era impossibile lottare, in guisa che alle 11 era
completamente avvolta e i reparti venivano colpiti dal fuoco nemico sul
fronte, sui fianchi e di rovescio. Dopo avere subito perdite enormi,
dopo avere perduto la maggior parte degli ufficiali, le truppe indigene
cominciarono a ritirarsi prima alla spicciolata poi a grossi reparti;
queste prive dei loro ufficiali, perfino dello stesso generale Albertone
di cui non si aveva più notizie, non si poterono più riordinare e la
rotta fu completa e convertita in fuga spaventosa.

Ne avveniva quindi che fuggiaschi e sterminate colonne nemiche che
inseguivanli alle reni erano sopra alla brigata Arimondi, che si
ordinava in posizione di resistenza e di contrattacco.

Invano il bravo colonnello Brusati tentava coi suoi di fare argine;
invano il valoroso colonnello Galliano aveva schierato il 3º battaglione
indigeni all'estrema sinistra per arrestare i fuggenti e tener testa
all'irrompente nemico, tutti gli sforzi di questi eroi e dei loro
ufficiali furono inutili; i battaglioni scossi dallo spettacolo che si
manifestava ai loro occhi, malgrado gli sforzi dei loro comandanti, dei
loro bravi ufficiali, malgrado l'esempio di serena bravura che dava il
battaglione 9º (bianco), malgrado le batterie che facevano fuoco
vivissimo, si davano alla fuga.

Frattanto gli ascari in fuga, tirandosi dietro forti masse di scioani,
scuotevano le truppe delle brigate Arimondi ed Ellena che non avevano
modo di spiegarsi e di prendere posizione. Mentre il generale Arimondi
impartiva ordini alle batterie, le orde scioane, girando sul fianco
sinistro, irrupero in massa addosso alla colonna e coronate le cime di
monte Belach, facendo fuoco d'inferno sui nostri soldati bianchi e neri
che si affollavano nell'insenatura, ne facevano strage.

Il prode Arimondi e il di lui aiutante di brigata ai quali erano stati
portati via i muletti non poterono togliersi dalla disastrosa posizione
e rimasero accerchiati.

Il generale Barattieri, visto che nè i bersaglieri, nè gli alpini
avevano potuto tener testa e che tutte le alture si coprivano di nemici,
chiamato a sè il colonnello Stevani si dirigeva verso il colle Rebbi
Arienni, incontrava per la via il colonnello Nava e Vandiol del 16º
battaglione, e disponeva per la ritirata verso il vallone.

Ma il tumulto cresceva colle ondate dei sopravenienti inseguiti e col
grandinare delle palle. Era uno spettacolo da squarciare il cuore!
Quanti valorosi ufficiali caddero non è possibile dire. A fianco di
Barattieri cadevano il colonnello Nava e il tenente Chigi. Quando
Barattieri giunse nella convalle presso Rebbi Arienni vi trovò il
generale Ellena. Ivi chiamò a raccolta; fu raggiunto dal tenente
colonnello Musini, dal tenente Marchiori degli alpini, dal capitano
Bedini, dal tenente Partini, dal tenente colonnello Violante, dal
tenente Ribotti, dal capitano Grassi e da altri e riuniti qualche
centinaio di truppe fra alpini, bersaglieri ed altre armi si organizzò
la resistenza per far possibilmente arrestare la foga del nemico.

Mentre questo succedeva alle brigate Albertone, Arimondi ed Ellena ecco
quel che avveniva alla brigata Dabormida.

Verso le 6 la testa della brigata si fermava sul ciglio del colle Rebbi
Arienni. Il generale Dabormida dopo di avere mandato avviso al comando
che occupava il colle senza avere potuto mettersi a contatto
coll'Albertone, proseguiva oltre solo accompagnato dal capitano
Bellavita suo aiutante di campo e dal tenente Piva suo ufficiale
d'ordinanza, allo scopo di formarsi una idea del terreno sul quale
avrebbe dovuto operare, mentre la brigata prendeva formazione di
ammassamento sul colle; intanto che il battaglione De Vito di
avanguardia marciava più innanzi per vedere di trovare il contatto colla
brigata Albertone.

Il generale Dabormida ritornato dalla sua esplorazione, visto il
generale Barattieri che stava alquanto più indietro gli andò incontro e
s'intrattenne a parlare con lui impensierito di non avere nuove
dell'Albertone; a poca distanza l'Arimondi s'intratteneva coi colonnelli
Airaghi e Ragni sullo stesso argomento giacchè tutti ne erano
grandemente preoccupati.

Verso le 7 la brigata Dabormida riprese, pian piano, nell'ordine di
prima, la marcia in avanti, mentre il comando supremo rimaneva sul
colle, dirigendosi per la valle che va a Mariam Sciavitu e ad Adua.

Il campo di battaglia della brigata Dabormida si divideva in tre parti;
alture di sinistra, fondo della vallata, alture di destra, e il generale
dava ordini alle truppe di prendere posizione sulle alture.

Non appena i nostri ebbero raggiunto la sommità delle alture scorsero
dense truppe nemiche dirette ad occupare una specie di sprone che da
Monte Derar va verso Adua; un altro forte nucleo nemico con reparto di
cavalleria Galla si dirigeva verso il Vallone. La compagnia Sermani
all'appressarsi del nemico si era spiegata ed aveva aperto il fuoco; il
maggior De Vito ordinava alle sue truppe di occupare celeremente il
controforte prima che vi arrivasse il nemico; come un onda nera, i bravi
indigeni si precipitano giù pel burrone, l'attraversano e ansanti
risalgono l'altura agognata; Tola e Ferrero hanno raggiunto la
posizione appena in tempo per aprire il fuoco sul nemico che sale
dall'opposto versante; erano le 9, il combattimento era impegnato su
tutta la fronte, dalla cresta principale, lungo tutto il controforte,
fino al fondo della vallata; la compagnia del Chitet è obbligata a
ripiegare, per cui il battaglione del De Vito già colpito a morte, e
minacciato sull'ala destra. Frattanto il nemico ingrossa, il fuoco
raddoppia e semina morte: molti ufficiali sono caduti, i reparti
tentennano e all'estrema sinistra hanno incominciato a ritirarsi; il
tenente Gaslini si getta con un pugno di bravi fra i nemici, cade, ma la
compagnia Longo riprende il suo posto; il nemico ingrossa, investe con
una pioggia di piombo e gl'indigeni si ritirano e si sbandano; la
precipitosa ritirata poco mancò non travolgesse i reparti del 3º
reggimento; ma appena fu sgombrata la fronte le truppe comandate dal
colonnello Ragni, prima col fuoco e poi colla bajonetta arrestava la
foga del nemico, respingendolo sul dorsale dello sprone.

Nel frattempo il colonnello Airaghi avanzava colle sue truppe calme ed
ordinate, con le batterie in battaglia scortate dal 14º battaglione;
si erano appena messi in batteria i pezzi, che il nemico si lanciava
con urli feroci all'assalto; le nostre truppe non si mossero, aprirono
il fuoco a ripetizione e l'artiglieria alla mitraglia; un fuoco
micidiale: la carica è rovesciata, il nemico si ritira in disordine
decimato, e il fuoco andò rallentandosi e parve languire; erano verso le
12 e il generale ed il colonnello Airaghi credettero buono il momento
per un attacco offensivo onde scacciare il nemico dalle posizioni e
diedero gli ordini necessari. La brigata fu disposta con una calma con
una regolarità di un'esercitazione in tempo di pace; le truppe sulle
alture di sinistra agli ordini del colonnello Ragni; quelle nel piano al
comando del colonnello Airaghi; tutte con le catene e sostegni; più
indietro la riserva; l'artiglieria al centro comandata dal Zola; tutti
con ordine ammirabile pronti all'attacco con un morale elevatissimo.

Si vedeva però nel generale qualche cosa che lo contrariava--una nube
offuscava la serenità del suo volto--non aveva potuto dar mano
all'Albertone, non aveva avuto nessuna notizia della brigata Arimondi
colla quale aveva perduto il contatto, nè alcuna dal Comando supremo e
questo lo angustiava.

Il generale più tardi ordinò uno sbalzo più innanzi per tastare il
nemico, ma questo non si mosse, soltanto raddoppiò il suo fuoco e mise
in batteria sullo sprone delle alture del _tucül_ alcuni pezzi
d'artiglieria dai quali non trassero alcun effetto.

Mentre così procedeva il combattimento della brigata Dabormida sulla
fronte verso Adua, alle sue spalle, nella vallata succedente al Rebbi
Arienni avveniva il tragico esodo della colonna Arimondi--arrestata nei
suoi movimenti dai fuggiaschi della brigata Albertone, inseguiti alle
reni da una massa imponente di nemici--veniva essa pure travolta e
decimata prima che avesse potuto spiegarsi e prendere posizione per una
energica difensiva.

Non è possibile descrivere gli atti di valore--gli eroismi dei nostri
ufficiali per sbarrare la via ai fuggiaschi--per arrestare le
irrompenti--enormi masse nemiche.--Il colonnello Brusati alla testa del
suo reggimento riuscì di tener testa e di fermare per alcun tempo la
nera fiumana, ma minacciato da avvolgimento fu costretto a
ripiegare--nel farlo ordinava a se il resto della brigata e dopo di
avere tentato un'estrema resistenza, ne formava una colonna che guidò
con fermezza ed intelligenza, radunando le truppe disperse e
facilitandone la ritirata. Per il suo eroismo, per la sua ammirevole
condotta, veniva decorato della Croce all'Ordine militare di Savoia.

Della rotta della brigata Arimondi di questo tragico fatto--nulla si
sapeva nella colonna Dabormida, e certamente non fu avvertita neppure
dal battaglione De Amicis del 4º reggimento Brusati, che dalle 10 si
era schierato sull'altura dominante il colle d'accesso alla vallata,
posizione che gli era stato ordinato di occupare per proteggere il
fianco della brigata Arimondi e per cercare il contatto colla brigata
Dabormida, altrimenti quel battaglione non si sarebbe limitato a
rimanere in quella posizione per proteggere le spalle della brigata
Dabormida, ma si sarebbe fatto un dovere di avvisarne prima il
Dabormida, poi di accorrere senz'altro in aiuto della brigata alla quale
apparteneva il suo reggimento.

E il De Amicis non stette a lungo inoperoso; visto la Brigata Dabormida
impegnata nella valle sottostante, persuaso che la sua presenza
nell'altura non aveva più scopo, perchè sulla destra della direttrice
di marcia un'altra brigata aveva impegnato il combattimento, scese dal
colle per correre in appoggio ai combattenti; però aveva appena lasciata
l'altura che alcuni cavalieri Galla si mostravano sul colle abbandonato;
il De Amicis vide subito la necessità di ritornare sull'abbandonata
posizione ed a passo di corsa si mosse per rioccuparla; sotto il fuoco
nemico il battaglione potè raggiungere un recinto murato, ed ivi
trincerarsi.

Nel frattempo il generale Dabormida inteso il fuoco di fucileria
sull'altura occupata dal De Amicis mandava ordine al maggiore Rayneri di
mandare la sua 1ª compagnia a scorta dell'artiglieria, e col resto del
battaglione portarsi a rinforzare le truppe del De Amicis, scacciare il
nemico e liberare la brigata da qualsiasi minaccia da tergo; l'aiuto
giunse in tempo e il nemico potè essere respinto nella sottostante
vallata proveniente dal Rabbi Arienni; e fu fortuna che anche il 13º
battaglione valendosi di altro recinto in muro a secco assieme al 5º
battaglione, poterono occupare solidamente le due alture a tergo e
resistervi fino a sera, senza di che la brigata Dabormida avrebbe visto
precipitarsi alle sue spalle la maggior parte del grosso del nemico che
ritornava dall'avere rotte e disperse le altre due brigate, ed avrebbe
avuto preclusa ogni via di ritirata.

Dopo il mezzogiorno fra le truppe del Dabormida e le scioane sul fronte
d'Adua si ravvivava la fucilata; la nostra artiglieria si era piazzata
sullo sprone delle alture dei _tucül_. Ad ogni colpo di Shrapnel si
scorgeva un rapido sbandarsi degli scioani attraverso le roccie e i
rovi; quelli diretti verso lo sbocco della vallata facevano solchi
profondi nelle folte colonne nemiche, coperte da alta erba. Il
colonnello Airaghi rompe gl'indugi; alla testa del suo reggimento lancia
le truppe nel piano ad un primo poi ad un secondo assalto; ed il
colonnello Ragni che dal mattino si è trovato sulla linea del fuoco,
appoggia gli sforzi del suo collega, quantunque gli aspri fianchi delle
alture da dove combatte, gli renda impossibile di mandare avvisi e
ricevere ordini.

Ma lassù nelle alture il nemico tiene fermo, e quantunque nel fondo
della valle si fosse ritirato, grandi masse riaprono in tutto il fronte
un fuoco micidialissimo, per cui i nostri bravi sono costretti a
ritirarsi dalle posizioni avanzate guadagnate poco prima, e il nemico
riprende le proprie. Le perdite sono gravi assai, fra altri sono caduti
i capitani Casadei, Sini, Messaglia, il tenente Vitali, i due tenenti
medici Miccichè e Lombi, e molti altri.

I nostri battaglioni hanno ordine di accelerare il fuoco; le batterie
secondano mirabilmente; fanno due sbalzi in avanti; ma il nemico non si
muove nè dalle alture nè dal fondo della vallata; un centinaio di metri
divide i nostri dalla fronte nemica che fa un fuoco d'inferno; le
artiglierie rombano con fragore indemoniato; la tromba squilla il
_pronti__per l'assalto_; il generale Dabormida come se si trovasse ad
una parata, con a fianco il colonnello Airaghi, seguito dagli ufficiali
del comando oltrepassa a cavallo la linea di fuoco--in tutti corre un
fremito--un urlo tremendo si leva, «Savoja, Savoja!» e dal primo
all'ultimo, a denti stretti, con ardore feroce, con l'arma in pugno si
slanciano all'assalto; l'urto fu terribile--irresistibile, perchè il
nemico ne è rovesciato, costretto a volgere le spalle e darsi
confusamente alla fuga--le trombe suonarono _alt_ e fuoco e una scarica
a salva investe la terga del nemico. Era la vittoria! e un grido
proruppe unanime. «Viva l'Italia! Viva il Re!»

Ad un tratto, potevano essere le 14, un grosso rumore di fucileria da
tergo gela il sangue degli eroici combattenti. Grossi stormi di
cavalieri galla si videro scendere dal colle e dietro la cavalleria un
nero nembo di fanteria. All'imminenza di un attacco da tergo il bravo
generale Dabormida non perdette l'ammirabile sua calma giacchè non
avrebbe potuto supporre che tutto il resto dell'esercito fosse
scompaginato, e già rotto e lontano: urgeva provvedere perchè il De
Amicis e Rayneri tenessero fermo nella loro posizione; e questi rimasero
saldi come torri fin all'ultimo; l'azione di questi due battaglioni fu
veramente eroica e provvidenziale.

Si sa già che cosa era avvenuto: battuta la colonna Albertone che si era
distanziata dagli altri corpi e messa nell'impossibilità di essere
soccorsa, il nemico dieci volte superiore ai nostri inseguendo gli
indigeni in fuga capitarono precipitosamente sulla brigata Arimondi che
stava prendendo posizione, la scompagina, la rompe e mette in fuga e
colla stessa rapidità piomba sulla brigata Ellena di riserva e sgomina
e disperde pur questa. Atti eroici furono compiuti dalla brigata
Arimondi, altrettanti e pure eroici dalla brigata Ellena ma, questi non
riuscirono a frenare la valanga impetuosa delle enormi masse nemiche che
inseguendo i fuggiaschi tutto travolgevano e rovesciavano.

Rotte, sgominate le tre brigate Albertone-Arimondi-Ellena, poste in fuga
e lanciate alle loro calcagne arditi distaccamenti e grossi reparti di
cavalleria galla, tutto il grosso dell'esercito abissino si rivolse dove
ancora si combatteva con tanto eroismo da obbligare più volte forze
assai superiori alla ritirata; e da quel momento la situazione della
brigata Dabormida diveniva disperata. Bisognava prepararsi ad un'ultima
e disperata difesa la gloriosa brigata si lancia contro il nemico su tre
fronti. Il generale Dabormida a cavallo a capo scoperto e coll'elmo
nella mano destra, si lancia avanti a tutti, il colonnello Airaghi lo
segue con la sciabola in alto, eroicamente eccitando i suoi bravi alla
pugna!

Un urlo tremendo!--e disperatamente le nostre truppe si precipitano sul
nemico che non indietreggia, impedito a retrocedere dalla massa enorme
che gli si accalca addosso e l'obbliga ad avanzare--ma la lotta a corpo
a corpo è terribile--tanto è il furore dei nostri--tanta è la strage che
seminano intorno a loro che la massa scioana ne è scossa, ondeggia ed è
costretta a cedere terreno.

Lo spazio necessario per la ritirata è aperto--ma quanti prodi seminati
per la via sanguinosa! Pel prode generale fu un momento ben triste
quando rivoltosi al colonnello Airaghi gli disse «Airaghi bisogna
iniziare la ritirata: tu la coprirai col tuo reggimento!» «Va bene
generale» rispose il colonnello del 6º reggimento e si separarono per
non vedersi mai più!

Dabormida si diresse all'imbocco dell'angusta valletta per dove dovevano
sfilare le truppe in ritirata, e dava gli ordini opportuni; poi
preoccupato della sua sinistra, insieme al capitano Bellavita suo
aiutante di campo volle ascendere l'aspra altura ove ancora combattevano
i battaglioni De Amicis e Rayneri.

Era di lassù che solo potevasi coprire la ritirata delle truppe
combattenti nella valle. Rifiutandosi il cavallo di salire per l'erta
dovette scendere; incaricò il capitano Bellavita di portare i suoi
ordini al De Amicis e al Rayneri di tener fermo ad ogni costo, e
ridiscese per dirigere l'incolonnamento della brigata.

Quando il Bellavita ritornò dopo avere impartiti gli ordini, il generale
Dabormida, questo fulgido eroe leggendario, era scomparso!

Finito il periodo epico dei gloriosi combattimenti, si dava principio a
quello tragico di una disastrosa ritirata! E, come era da immaginarsi,
ne seguì una carneficina orrenda.

I battaglioni De Amicis e Rayneri che avevano strenuamente sostenuto
l'urto di un nemico più che quintuplo e che ancora stavano sulle alture
a proteggere la ritirata, quando videro che il 6º ed ultimo reggimento
si ritraeva per lo sbocco della valletta ad imbuto, anch'essi
abbandonarono le trincee fin allora difese per ridursi al colle e
ritirarsi; nella stretta insenatura di questa si svolse l'esodo triste
di una grande brigata!--Soprafatta dal numero, sfinita dalla sete, dalla
fame, lacera, semiscalza, dopo una intera giornata di combattimento,
senza tregua, abbandonava il campo col cuore stretto dall'ambascia, ma
fiera per il dovere compiuto! Fu una scena d'orrore illuminata dagli
ultimi raggi del sole, che esso pure andava morendo. La brigata aveva
strenuamente, eroicamente combattuto dal sorgere al tramontare del sole.
Tutto era perduto anche per la brigata Dabormida--non era certo perduto
l'onore.

Ah! se le nostre quattro brigate avessero mantenuto il contatto! quale
scempio delle orde scioane avrebbero fatto! E fu fatalmente strano che a
questo non si sia rigorosamente provveduto! e non si sia pensato che è
un principio incontestabile di guerra che un esercito di fronte al
nemico deve sempre tenere le sue colonne riunite, in guisa che il nemico
stesso non possa mai introdursi fra le medesime. Anche quando si sia
dovuto dividere un esercito affine d'avviarlo per linee concentriche
contro il nemico, è necessario all'approssimarsi ad esso per dare
battaglia, che gl'intervalli fra le diverse colonne siano raccorciati
tanto che queste possano a vicenda agevolmente soccorrersi e sostenersi.
E a questo principio elementare di guerra nella fatale giornata di Adua
non si è pensato!

Che ne era avvenuto del generale Dabormida, del colonnello Airaghi, del
maggiore De Amicis e di tanti e tanti altri eroi? Nessuno sapeva dirlo!

Il valoroso colonnello Ragni comprese che era a lui ormai serbato un
altro grave dovere, quello di dirigere la ritirata. Verso le 19 la
colonna sboccò su di un ripiano sul quale si elevava una specie di
controforte; il colonnello decise di far quivi l'ultima resistenza per
riordinare al riparo di questo ed alla meglio la confusa massa dei
superstiti. Il capitano Pavesi coi suoi ufficiali Benito (ferito),
Camelli, Caloria, con la loro bella compagnia del 5º indigeni, formarono
il nucleo principale della più che ardita difesa; là si trovarono e si
riunirono i maggiori Prato, Raqueni e De Fonseca; i capitani Paperotti,
Guastalla, Liquori, Sciarra, Cicerchia, Voet, Bellavita; i tenenti
Matteucci (ferito), Massazza, Angelini, Zonchello, Benetti, Carossini,
Donedu (ferito), Bairi, Neri (ferito) ed altri ed altri.

Il nemico vista la tenacia temeraria dei nostri non volle avventurarsi
nell'oscurità della notte e cessò dall'inseguimento, per cui la ritirata
potè compiersi, ma seminando nei giorni appresso altre ossa lungo tutta
la via ben dolorosa, perchè i superstiti furono continuamente assaliti
dagli insorti nei paesi che attraversavano.

Nel combattimento d'Adua cadde da eroe, fra tanti e tanti altri, il
capitano Leopoldo Elia di Ancona, il prode garibaldino ferito a Mentana,
il valoroso soldato dell'esercito alla breccia di Porta Pia. Egli era
già stato in Africa colla spedizione di San Marzano quale capitano dei
bersaglieri; vi era rimasto per due anni e fu costretto a rimpatriare
per grave malattia. Ricuperata la salute lo si tolse dall'arma dei
bersaglieri, nella quale aveva fatta tutta la sua carriera, grado a
grado, fino a quella di capitano--arma che egli idolatrava!

Fu un colpo assai doloroso per lui--e per mostrare che avevano avuto
torto di toglierlo dal corpo suo prediletto, appena si ebbe notizia
dell'eroica giornata di Amba-Alagi, non chiamato, offriva volontario i
suoi servigi alla patria e ripartiva colla brigata Ellena.

Nella fatale, ma pur gloriosa giornata d'Adua, schierata la sua
compagnia sotto un fuoco infernale nemico, nella posizione che doveva
tenere e difendere, incuorando i suoi bravi soldati che l'adoravano,
dando loro l'esempio, eroicamente combattendo, per più ore sostenne urti
tremendi che sempre respingeva; ma infine circondato da migliaia di
nemici, senza ritrarsi d'un passo, vendendo cara la vita egli e i suoi
bravi che sempre assottigliandosi si stringevano intorno a lui, cadeva
ferito per non più rialzarsi. Così finivano quasi tutti della compagnia
comandata da Leopoldo Elia, preferendo morire piuttosto che darsi
prigionieri.

E un altro valorosissimo lasciava la vita in quella fatale giornata, un
carissimo amico dell'Elia che merita di essere ricordato, il capitano
Ciro Cesarini di Corinaldo.

Uscito dalla scuola di Modena entrava come sottotenente nel 4º
reggimento bersaglieri. Nel 1894 domandò ed ottenne di essere mandato in
Africa e venne destinato col grado di tenente alla 2ª compagnia
cacciatori di guarnigione a Keren.

Dopo pochi mesi venne chiamato alla 3ª compagnia del 2º battaglione
indigeni comandato dal maggiore Hidalgo--combattè da valoroso per
l'espugnazione di Cassala e vi guadagnò la menzione onorevole e per
merito fu promosso capitano nella 1ª compagnia del 1º battaglione
indigeni sotto il comando del maggiore Turitto.

Col suo battaglione prese parte alla battaglia di Debra-Ailà ed
all'inseguimento di Ras Mangascià.

Quando si formò il corpo di operazione contro gli Scioani, col suo 1º
battaglione indigeni entrò a far parte della brigata Albertone--che come
si è visto--fu la prima ad impegnarsi nel combattimento del 1º marzo--ed
a sostenere tutto il grave peso dell'immensa oste nemica per essersi
distanziata dalle altre nostre brigate.

Dopo la triste notizia del disastro toccato alle armi nostre nella
battaglia d'Adua, alla famiglia, ai concittadini, agli amici, trepidanti
per la sua sorte, venne notizia che il capitano Cesarini si trovava ad
Adigrat; però la novella fu presto smentita. Solo poté essere accertata
la sorte del valoroso capitano, quando fu liberato dalla prigionia
l'ultimo scaglione dei prigionieri di Menelik del quale faceva parte il
tenente Fuso, unico ufficiale superstite della compagnia comandata dal
Ciro Cesarini, del quale raccontava così l'eroica fine.

«Il capitano Cesarini con la sua compagnia fu il primo ad attaccare il
nemico e ne sostenne il fuoco per due ore di seguito.

«Quando il generale Albertone--dopo accanito combattimento contro masse
nemiche dieci volte superiori alle sue forze--minacciato di
avvolgimento--si trovò costretto ad ordinare la ritirata--il capitano
Cesarini col resto della sua compagnia e con quanti altri potè
raccogliere, venne incaricato di proteggere la ritirata--Ed egli--dando
esempio ai suoi che in pochi rimasti si serravano intorno a lui--non
abbandonava un palmo di terreno e battendosi come un leone compiva fin
all'ultimo eroicamente il suo dovere. Ferito ad un braccio continuò a
combattere--ma una palla gli fracassò un ginocchio--la ferita era
orribile--il sangue ne usciva a fiotti--gli spasimi dovevano essere
atroci.

«Io ed il furiere della compagnia volevamo prestargli soccorso--ma
egli--visto che per lui era finita--ci pregò di non occuparci di
lui--ordinava a me di prendere il comando della compagnia e di resistere
fino all'ultimo.

«Allora lo trasportammo in una specie di grotta che vi era lì
appresso--durante il tragitto perdette i sensi--lo adagiammo alla meglio
e più non lo rivedemmo».

Ecco quanto il generale Albertone dice di questo bravo e della sua
eroica compagnia.

«La compagnia rimasta col tenente Fuso, che ne aveva assunto il
comando, col furiere ed una trentina di soldati Ascari rimasti, respinse
quattro volte il nemico con altrettanti attacchi alla baionetta.

«Durante la mia prigionia intesi più volte dai capi Abissini la
narrazione dei prodigi di valore del capitano Cesarini, il quale aveva
meravigliato gli stessi nemici».

E combattendo da valorosi lasciavano in quella giornata la vita pure, il
prode tenente Monina Attilio, ed i forti giovani Adolfo Muzzi, Alfredo
Pettinelli, Adolfo Santarelli, Cesare Salustri, Cesare Stramazzoni.

O forti e valorosi soldati--la vostra fine non doveva essere diversa!
Solo agli eroi è dato la gloria di morire ravvolti nella propria
bandiera!

Ancona e i luoghi della sua provincia che vi dettero i natali
conserveranno sacra la vostra memoria!

                                    *
                                   * *

Al generale Baldissera toccò di compiere le operazioni militari nel
secondo periodo della campagna d'Africa 1895-96.

Con rapide mosse, con ardite dimostrazioni su Coatit, su Debra-Damo e
su Adua, affine di coprire il vero obiettivo del corpo di operazione,
riusciva in breve a liberare il presidio d'Adigrat; a riordinare gli
avanzi del primo corpo di operazione che aveva combattuto ad Adua; a
coprire la colonna minacciata nel punto più vitale; ad iniziare
trattative di pace col precipuo scopo di guadagnar tempo, per ottenere
la liberazione dei nostri prigionieri, il seppellimento dei nostri
morti;--e portare soccorso a Cassala.

Operazioni tutte condotte a compimento con militare energia e con sommo
accorgimento da meritare il plauso del paese.




                             =CAPITOLO XXXI.=

                     =Volontari italiani in Grecia.=


Nel 1897--un grido di entusiasmo echeggiava da un capo all'altro
d'Italia per la causa ellenica--il filellenismo fu sempre fra noi una
delle corde che più vibrarono nel cuore di quanti sentivano amore di
patria e di libertà--e tutte le volte che la Grecia tentò di sottrarre
dall'onta del governo turco le belle terre che le appartengono, l'Italia
non vi rimase insensibile e mandò i migliori suoi figli a combattere
per la sua redenzione.

Sarebbe troppo lungo il ricordare i patriotti che le diedero la vita in
tempi ormai lontani ma pur non dimenticati; basterebbe ricordare il
Santorre Santarosa--nel 1821--il Basetti--il Tarella--il Mamiot--il
Tirelli--il Briffori--il Tarsio--il Viviani--il Torricelli--il
Prenario--il Miovitowich--il Dania--il Rattelani--che diedero la vita
per la Grecia nel 1822--e l'Andrea Broglio marchigiano che lasciava la
vita ad Anatolica nel 1828--come molti greci lasciarono la loro vita per
la causa italiana; accenneremo ai più recenti, e diremo che insorta
l'isola di Creta dopo la campagna del 1866, ben duemila e più volontari
e non meno di ottanta ufficiali corsero a dare agli insorti il loro
aiuto. I primi, sbarcati a Sira furono posti sotto gli ordini di
Zambra-Kakis, Bisanzios, e Coracas, gli altri sotto il comando del
maggiore Mereu, e tutti diretti all'isola di Creta ove si combatteva per
la propria indipendenza.

Al Mereu prima della sua partenza il generale Garibaldi consegnava la
lettera seguente:

                                         Caprera, 9 ottobre 1866.

«Il maggiore Mereu, uno dei miei prodi compagni d'armi, va in Grecia per
combattere la santa causa di quel paese.

«Io lo raccomando caldamente ai miei amici.

                                                 _G. Garibaldi_».

In tutti i combattimenti per l'indipendenza della Grecia il sangue
italiano fu sparso gloriosamente.

                                    *
                                   * *

Nel 1867 la Grecia minacciava di sorgere in armi per la questione non
solo di Creta ma anche per la causa macedone: una nuova spedizione di
Toscani guidata da Sgarellino partiva da Livorno; toccata Caprera
prendeva il comando della spedizione il bravo giovane Ricciotti
Garibaldi.

Egli partiva diretto non a Candia ma al Pireo, con istruzioni del padre
di vedere di portare la rivoluzione nell'Epiro e nell'Albania e di far
sapere che se l'insurrezione avesse luogo, anche egli sarebbe accorso
sul campo dell'azione.

Ma mentre un comitato ellenico era dietro ad organizzare un movimento
sulla frontiera Epirota; l'intervento delle potenze intimava alla
Grecia di spegnere il movimento nel suo nascere, e i volontari italiani
dovettero rimpatriare.

Nel 1875, Mico Liubibratic, un eroe Erzegovese, che col Vucalovich si
era mantenuto in campagna contro i Turchi per l'indipendenza della sua
patria fino al settembre 1862 riportando segnalate vittorie il 13, 14,
18 ottobre--tali da destare l'universale ammirazione e da obbligare il
governo ottomano a segnare in Ragusa un trattato favorevole
all'Erzegovina (trattato i cui patti non furono poi rispettati)--aveva
ripreso le armi e indirizzava un fiero proclama alla gioventù di tutte
le nazioni, perchè rispondessero al suo appello. Garibaldi alzava anche
esso la sua voce in favore dell'Erzegovina col seguente proclama:

A Liubibratic ed ai suoi gloriosi compagni!

          «Miei cari amici,

«Voi vi siete assunti una difficile missione, ma bella, superba, santa;
quella dell'emancipazione degli Slavi dalla più atroce delle tirannidi.

«Io vi invidio e giammai tanto mi pesarono gli anni come oggi, che non
posso dividere con voi glorie e perigli.

«Già m'indirizzai a tutte le popolazioni che languono sotto il giogo
ottomano e non dispero di vedere raggiungere la vostra bandiera dai
prodi che contano nella loro storia i Leonidas, gli Spartachi e gli
Scanderberg.

«Il vostro divisamento di sostenere la guerra di partigiani durante
l'inverno, lo credo il migliore; l'avvenire è vostro. Qualunque uomo che
non sia un perverso farà sua la causa vostra e come noi palpiterà di
gioia al vostro glorioso trionfo».

Roma, 29 ottobre 1875.

                                                      Vostro

                                                  _G. Garibaldi_.

Al patriota esule triestino, presidente del Comitato per gl'insorti
erzegovini, scriveva così:

          «Mio caro Popovich,

«Ove rimanesse un insorto solo nell'Erzegovina, bisogna aiutarlo.

«Io spero che Liubibratic e compagni si sosteranno sino alla primavera.
Intanto bisogna lavorare per loro a tutta forza.

«Dite ai valorosi del Montenegro che il mondo ammira il loro eroismo, e
salutateli caramente per me».

Roma, 31 ottobre 1875.

                                                    Sempre vostro

                                                   _G. Garibaldi_

E quando ebbe per telegramma i particolari della battaglia di Piva nella
quale i Turchi toccarono una solenne sconfitta, così gli scriveva:

          «Caro Popovich,

«I liberi d'ogni paese europeo esultano per la splendida vittoria degli
eroici figli dell'Erzegovina orientale».

Roma, 5 novembre 1875.

                                                  _G. Garibaldi_.

Non è quindi da meravigliarsi se all'annunzio dell'insurrezione di Creta
nel 1897 e dell'attitudine del governo Ellenico di sostenerla anche a
mano armata contro il Turco, in Italia vecchi patrioti e giovani di
cuore ardente, sentirono il sacrosanto dovere di continuare la gloriosa
tradizione della camicia rossa, quale simbolo di libertà per gli
oppressi.

Per opera dell'insigne patriota Ettore Ferrari, coadiuvato dal
colonnello Gattorno, si formò un corpo di garibaldini. Ma in parte per
le difficoltà frapposte dal Governo Italiano, che per riguardo ai
trattati internazionali doveva ostacolare l'imbarco dei volontari, ma
ancor più _per le incertezze dello stesso governo di Grecia_, il numero
degli accorsi fu assai limitato. E per provare che tali incertezze
riuscirono dannose alla causa ellenica, basti il dire, che avendo il
generale Menotti Garibaldi (col quale sarebbero andati i colonnelli
Pais, Cariolato, Elia, Bedischini e tanti e tanti che lo avrebbero
seguito da formarne una divisione) telegrafato al fratello Ricciotti se
doveva partire, riceveva risposta, che gli diceva inutile la partenza,
giacchè riteneva, dal modo come si mettevano le cose, che forse egli
stesso sarebbe stato costretto a fare ritorno in Italia.

Per tutte queste contrarietà si potè solo formare intanto un 1º
battaglione di duecento cinquanta uomini, che comandati dal Mereu,
furono i primi a partire per la Grecia. Del grosso del corpo di
ottocento uomini, formatosi poi, il generale Ricciotti Garibaldi
comandante di tutta la Legione, ne formava altri due battaglioni il 2º e
il 3º.

E ci volle tempo non breve, dopo giunti al Pireo e ad Atene, perchè
questi bravi potessero avere le armi e il più stretto necessario per un
corpo destinato a combattere. Finalmente il 7 di maggio il Ministro
della guerra partecipava al comandante del corpo garibaldino generale
Ricciotti Garibaldi, l'ordine di marcia.

Il giorno 9 la Legione approdava ad Hagia-Marina; ivi giunta il generale
avvisava telegraficamente il principe Costantino a Domokos del suo
arrivo; questi lo invitava a raggiungerlo senza ritardo. A Domokos la
Legione garibaldina fu posta sotto gli ordini del generale di divisione
Mauromichaelis.

La mattina del 17 maggio l'esercito turco, forte di settantamila uomini,
diviso in cinque divisioni, con movimento aggirante attaccava l'esercito
greco, di appena 28 mila combattenti.

L'attacco più accanito si svolse nel centro, contro le trincee intorno a
Domokos, tenute validamente dalle truppe greche comandate dal generale
Mauromichaelis, che da prode vi lasciava la vita.

A questo combattimento prese parte il 1º battaglione garibaldino
comandato dal Mereu, che vi perdette ben 50 circa dei suoi valorosi fra
morti e gravemente feriti. Per la morte del generale Mauromichaelis che
le comandava, e per il numero preponderante del nemico, le truppe greche
dovettero abbandonare le trincee di Domokos. Da quel momento la
battaglia poteva dirsi finita, perché il principe ereditario, a notte
fatta metteva tutto il suo esercito in ritirata per Furca.

Mentre questo avveniva al centro, all'estrema sinistra la divisione
Hairi Pachà spingeva distaccamenti con l'obiettivo di impossessarsi
della strada Koto-Agoriani-Dereli-Moccoluno onde tagliare ai Greci la
ritirata; mentre col grosso delle sue forze si presentava ad attaccare
la piccola divisione Tertipis che occupava Balimbeni-Kasimir-Amaslar.

Contro la divisione Hairi Pachà combattevano eroicamente il 2º e 3º
battaglione dei garibaldini, fiancheggiati dalla brava legione
Filellenica.

Ecco come il generale Ricciotti Garibaldi descrive il combattimento.

«Indovinato il piano di attacco del generale Hairi Pachà, decisi di
prendere contatto con le truppe nemiche in una specie di semicerchio
rientrante che faceva la pianura a piè delle colline, il cui corno
destro era tenuto solamente dalla Filellenica ed il sinistro da alcuni
Euzoni della divisione Jertipis.

«In mezzo a questo semicerchio vi era una collinetta isolata; e questa
era la posizione che io ordinai d'occupare per tener testa alle masse
nemiche; già i tiragliatori turchi più avanzati, ne avevano raggiunte le
falde a destra e sinistra accogliendo la comparsa della nostra colonna
con un ben nutrito fuoco. Fermate per un momento le prime compagnie
dissi ai miei bravi così:

«Compagni! ricordatevi che oggi è affidato a voi l'onore e la dignità
d'Italia».

«Queste poche parole furono accolte con fremito d'entusiasmo e non ebbi
dubbio che questa terza generazione di Camicie Rosse sarebbe stata degna
delle precedenti.

«Ordinai a Martinotti, comandante del 2º battaglione, di stendere la 1ª
compagnia in ordine aperto e prendere possesso a passo di corsa della
collinetta--obbiettivo del nostro campo d'azione.

«Per fortuna la nostra brava 1ª compagnia giunse sul culmine della
collina, che era attraversata da una scogliera di muro a secco, pochi
minuti prima dei turchi. Arrivati alla scogliera i nostri aprirono un
fuoco accelerato sul nemico--ma questi a sua volta li fulminava con
fuoco incrociato.

«Fu in questo momento che accadde un fatto il quale sarà sempre un
dolore per l'Italia.

«Fra i primi che giunsero sulla cresta della collina vi erano alcuni
ufficiali del mio stato maggiore, tutti provvisti di fucile. Con essi si
trovava il nostro Antonio Fratti. Raggiunta che ebbi in pochi minuti la
sommità, mi sentii dire: Generale, Fratti è ferito! Mi rivolsi al
piccolo gruppo che si allontanava col ferito, e chiesi: «Come sta
Fratti?» Mi fu risposto «è morto».

«Ne sentii dolore vivissimo!

«Povero Fratti! fu destino che dovesse trovare l'estremo giaciglio là
sotto un salice sulla sponda del Pentamili!

«All'apparire dei nostri il movimento in avanti del nemico si era
arrestato; ma tutto il fuoco lo aveva concentrato sulla collina e le
Camicie Rosse presentavano uno splendido bersaglio tanto che in un
momento ne caddero parecchie.

«Il capitano Capelli comandante della 1ª compagnia, mio figlio Beppino
ed altri sette o otto si erano già slanciati giù del pendio contro il
nemico strapotente; immediatamente diedi ordine a Martinotti di
abbandonare la collina e di avanzare, a passo di carica, contro il
nemico.

La 2ª, 3ª, 4ª compagnia furono spinte avanti in sostegno del
movimento sulla sinistra, e quattro compagnie greche (3º battaglione
comandante Martini), sulla destra.

«La sezione francese--sotto de Barre--seguì il battaglione italiano; e
la sezione inglese--sotto Erio Short--si unì al battaglione greco.

«Ramos, greco, mio compagno indivisibile si mise alla testa dei suoi
connazionali, e Mereu di quella della nostra destra.

«Alle 5 pomeridiane attaccati rabbiosamente, i Turchi interrompono la
loro marcia in avanti, si fermano, balenano, si disordinano e infine
volgono in precipitosa ritirata. Un grido si leva altissimo dalla
Legione Filellenica: «Viva i garibaldini! Viva l'Italia!» Ben altro ci
rimaneva da fare.

«Bisognava sloggiare i Turchi che si erano trincerati in un altura detta
della Madonna. Montai a cavallo; pregai il valoroso capitano Varatassis,
comandante la Legione Filellenica, rimasta in poco più di cento, e il
capitano greco Stifiliades che era venuto a mettere a mia disposizione
una compagnia di truppe regolari, di appoggiare la mia destra, e
sostenuti alla sinistra dal 3º battaglione greco comandato da bravi
ufficiali e diretto dal valoroso compagno Ramos, ordinai un attacco
generale alla baionetta. Tutti con slancio ammirevole si avventarono
ansanti sull'erta posizione nemica, ma i Turchi non aspettarono l'ardito
e furioso assalto, abbandonarono la posizione e si diedero alla fuga.

Il sole era tramontato--le fucilate erano cessate--ed anche
l'artiglieria taceva--ormai non vi era da fare altro che ritornare ai
villaggi per pernottarvi.

«Le trombe suonarono a raccolta e da tutte le parti venivano gruppi di
camicie rosse gridando evviva--ebbri tutti di un immenso entusiasmo.

«La prova era superata e splendidamente superata.

«La camicia rossa aveva scritto un'altra pagina non indegna di figurare
accanto alle altre gloriose; e l'Italia nostra poteva andare superba di
questa nuova generazione dei suoi figli. Avevano combattuto uno contro
sette e non erano stati vinti!

«Verso l'una del mattino mi venne l'ordine di ritirarmi per la via di
Dranitz a Lamia--e mi si diede notizia che tutto l'esercito greco si
ritirava».

                                    *
                                   * *

Ma il generale Ricciotti Garibaldi non volle abbandonare il campo prima
di avere raccolti i feriti e fatto un convoglio di trasporti. E prima di
tutto volle rendere l'estremo tributo al valoroso compagno Antonio
Fratti dandogli onorata sepoltura. Fu preparata dai compagni la fossa e
con mestizia di tutti venne sepolto sotto ad un salice vicino al
ruscello Pentamili!

Fra i morti caduti nel combattimento di Domokos--va ricordato un giovane
valorosissimo--Oreste Tomassi--degno figlio del maggiore Adolfo Galanti
Tomassi che nel combattimento di Milazzo e del Volturno si meritava
decorazioni al valore e promozioni.

L'Oreste Tomassi laureato a Camerino e nell'università di Bologna aveva
25 anni.--Si trovava a Vienna per affari--quando saputo che la Grecia
aveva impugnato le armi contro la Turchia abbandonava ogni cosa e
correva a Trieste per imbarcarsi il 22 aprile pel Pireo. Ecco come il
valente giovane dava al padre notizia della sua decisione

                                 Atene 19 aprile (1 maggio) 1897.

          Caro Papà.

«Non so se avrai già ricevuto da Mario la notizia della mia partenza per
la Grecia. Partii da Vienna il giorno 20 aprile e m'imbarcai a Trieste
domenica passata; presentemente mi trovo qui in Atene dove sono arrivato
oggi stesso insieme ad una numerosa legione d'italiani accorsi da tutte
le parti del regno. Ci fermeremo qui probabilmente fino dopo domani per
aspettare l'arrivo di Menotti Garibaldi; onde partire unitamente a
un'altra legione di volontari per l'Epiro. Potremo essere in tutti circa
tremila. Ricciotti Garibaldi ci ha fatta formale promessa di mandarci in
prima linea, volendo il governo greco procurarci questo onore.

«Figlio di un garibaldino--figlio di un soldato della libertà e
dell'indipendenza d'Italia--ho creduto di fare semplicemente il mio
dovere di accorrere ad arruolarmi per una nazione che combatte per gli
stessi ideali per cui ha combattuto mio padre. Non dirmi che ho fatto
male, perchè tu pure studente e figlio prediletto--abbandonasti studi e
famiglia per una causa consimile.

«Se io morrò credo fermamente che tu saprai sopportare dignitosamente il
dolore che ti potrò arrecare. A mamma dille che non è poi certo che io
debba morire--e che se anche ciò fosse, si consoli pensando che sarò
morto bene. Papà--_sono Garibaldino_!--Mentre ti scrivo vesto la
leggendaria camicia rossa--se io morrò con questa camicia ne dovrete
essere orgogliosi!--Se ritornerò che orgoglio per voi e per me! Saluta
tutti i fratelli e sorelle--che in questa lettera voglio nominarli
tutti--pensando che forse sarà l'ultima».

E fu l'ultima davvero! Ma quale soddisfazione--quale orgoglio per il
padre suo--per la sua famiglia! E quale gaudio per noi vecchi nel vedere
come i nostri figli sanno far loro i nostri ideali.

O giovani d'Italia che portate in cuore sentimenti così elevati, siate
benedetti!

Il generale Ricciotti Garibaldi così scriveva per dare notizia al padre
dell'eroica morte del suo Oreste:

          «Egregio Sig. Adolfo Tomassi,

«Compio il doloroso dovere di spedirle il congedo del suo caro estinto.

«E mentre la prego di accettare le mie più sincere condoglianze, Le sia
di conforto il pensiero che il suo Oreste--morendo da valoroso sul
campo, ove si combatteva per l'umanità--ha insieme ai suoi compagni
provato che nella razza italiana non sono estinte quelle qualità che
resero così gloriosa la generazione passata.

«Il nome di suo figlio prenderà posto nella storia--tra i più
gloriosi--come uno--che con il suo valore e il suo sacrifizio--iniziò
un'era nuova di gloria--per la nostra gioventù--e questo è l'unico
conforto che accompagnerà noi vecchi nel mondo al di là».

                                             Sempre dev.mo Suo

                                           _Ricciotti Garibaldi_.

          «Corpo volontari italiani in Grecia.

«Si certifica che Tomassi Oreste ha preso parte alla campagna di Grecia
dell'anno 1897 nella qualità di caporale..... e fu presente ai fatti
d'armi di Domokos. Morto da valoroso sul campo di battaglia».

Atene, 27 maggio 1897.

                                          Il comandante del corpo

                                           _Ricciotti Garibaldi_.

          Il colonnello: _Luciano Mereu_.

          «Legation royale de Grece.

«Il R. Incaricato d'affari della Grecia esprime il suo più vivo
rincrescimento d'essere impedito, per causa di malattia, di assistere
alla commemorazione che si terrà questa sera in memoria del compianto
filelleno Oreste Tomassi, valorosamente caduto nella battaglia di
Domokos».

    Vienna, 31 maggio--12 giugno 1897.

          Ai Preg.mi Signori
             Signori Costiglioni
               Cofler e De Hoeberth
                     Vienna.

                                    *
                                   * *

Portato l'ultimo tributo alla sepoltura del valoroso amico, e mandato
l'estremo saluto ai valorosi che erano caduti combattendo per una santa
causa, la colonna, che fra morti, feriti e scorte era ridotta a circa
450 uomini, prese la strada di Panaghia. Così finì la breve campagna di
Grecia del 1897.

Dopo altre peripezie, che non torna conto di ridire--la brava Legione
che aveva onorato anche una volta il nome italiano, e tenuto alto il
prestigio della camicia rossa, ritornava in patria.

Questi sono i caduti morti nella battaglia di Domokos, gloriosa per i
garibaldini: Antonio Fratti, Antonio Pini, Giovanni Capra, Ugo
Silvestrini, Alfredo Antinori, Filippo Bellini, Ettore Panseri, Pio
Simoni, Michele Frappampina, Guido Cappelli, Alarico Silvestri, Enrico
Mancini, Oreste Tomassi, Francesco Fraternali, Romolo Garroni,
Massimiliano Tombelli.

Onore ad Essi!

                                    *
                                   * *

La piaga dolorosa lasciata sul cuore della nazione dalla disfatta d'Adua
andavasi cicatrizzando, allorquando da un gravissimo lutto doveva essere
colpita l'Italia tutta;




                             =CAPITOLO XXXII.=

                 =Orrendo misfatto e morte di Umberto Iº=


Il 29 luglio del 1900--giorno nefasto--il mondo esterefatto udiva
l'orribile notizia--A Monza, moriva assassinato da belva umana Umberto
Iº Re d'Italia--il Re che amava il popolo suo come padre il più amoroso!
il più benefico!

Chi può ricordare senza fremere la data della sera infame nella quale
Umberto di Savoia--forma ideale di bontà--in mezzo ad una festa di
popolo alla quale fidente aveva voluto prendere parte--a tradimento--fra
le ombre notturne--veniva ucciso dall'arma parricida d'un italiano? Fu
il più grande misfatto che tigre sitibonda di sangue potesse perpetrare!

Umberto Iº nel morire deve avere pensato--che meglio sarebbe stato
cadere fra il fragore delle armi e lo squillar delle trombe nel
1866--quando fra i suoi compagni combatteva da eroe nella disgraziata
ma pur gloriosa giornata di Custozza, col pensiero rivolto alle terre
italiane irredente--aspettanti di essere unite alla madre patria--sempre
fidenti!

Incancellabile durerà in noi il ricordo dell'esecrando delitto--e il
popolo italiano che vivo l'amò tanto--sente che il ricordo di Lui forma
ormai la parte più cara della sua coscienza.

«Date lacrime ed onori alla sua sacra memoria».

Questo fu il Vostro voto Sire! quando saliste sul trono del Padre della
Patria e di Umberto I il Re Buono--e il popolo come una eco alle parole
del Vostro cuore addolorato--spinto da sentimento unanime--glorificando
la memoria del Re estinto, faceva nel tempo stesso solenne affermazione
plebiscitaria di affetto per Voi Emanuele III nostro Re e per la Vostra
Casa.

E le dimostrazioni di vivo rimpianto di tutto un popolo, sia per
Voi--Regina Margherita--tanto amata dal lacrimato Re--di conforto al
Vostro cuore d'italiana e di madre.

L'Italia vi ha consacrata alla sua venerazione!

                                    *
                                   * *

Ecco il primo ordine del giorno esprimente alti sentimenti patriottici e
civili che il Re Vittorio Emanuele III emanava in occasione della sua
assunzione al trono.

                  *       *       *       *       *

          Ufficiali, sott'ufficiali e soldati dell'Esercito e
          dell'Armata!

«L'intiero mondo civile ha udito con indignazione la tragica fine del
compianto mio genitore.

«Il dolore della Nazione si è certamente ripercosso nei vostri cuori di
buoni e fedeli soldati. In questo momento il mio pensiero si rivolge
fidente a voi tutti, certo che riporterete su di me l'affetto col quale
circondavate il Re Umberto, affetto che, seguendo l'esempio paterno, con
cuore di soldato, io vi ricambio.

«E con voi il mio pensiero si rivolge ai vostri compagni, che in Creta,
nell'Eritrea ed in Cina mostrando le tradizionali qualità di soldati
italiani, tengono alta la gloriosa bandiera nazionale simbolo della
grandezza e dell'unità della nostra patria».

          Da Monza 1º agosto 1900.

                                         _Vittorio Emanuele III_.

                                    *
                                   * *

Ecco come si commemorava alla Camera la morte di S. M. Umberto I Re
d'Italia.

                  *       *       *       *       *

Il giorno 6 agosto il presidente onorevole Villa--dava partecipazione
alla Camera dell'esecrando delitto colle seguenti parole che tutti i
deputati profondamente commossi ascoltavano in piedi:

«_Onorevoli colleghi_! Umberto I, l'amato nostro Re, non è più! La mano
sacrilega di un assassino si è levata su lui e là in Monza, in mezzo al
popolo che lo salutava plaudente con le più schiette manifestazioni
della gratitudine e dell'affetto, ne spezzava freddamente il cuore.

«Non la mia povera parola varrebbe oggi a dirvi della immane sventura
che ci ha colpiti; non io saprei degnamente evocare dinanzi agli occhi
del cuore, impietrito dal dolore, l'immagine del Re barbaramente
assassinato; non io potrei dirvi di questo gran martire della carità,
che l'odio settario ha, nel suo insaziabile istinto di rovine e di
sangue vigliaccamente sacrificato. (_Benissimo_!)

«No!... Ma io sento che parla per me la voce di tutto un popolo che lo
amava (_Benissimo_!) e lo benediva; di un popolo intero che dagli alti
palazzi, come dai più umili casolari, dai più remoti angoli del paese,
dalle officine e dai campi, si leva esterrefatto fra le lagrime e le
preghiere e nell'impeto delle sante ire maledice ai sicarî. (_Vivissime
approvazioni_).

«No!... Ma io sento che echeggia qui nel cuore di tutti noi la voce
immensa di tutto il mondo civile che, piangendo desolato o concorde la
caduta di un Eroe vilmente fulminato da un assassino, solleva un grido
di esecrazione e di allarme contro quel cosmopolitismo feroce e
sanguinario che, calpestando ogni alta idealità della vita umana e
ponendosi in aperta rivolta contro ogni santa manifestazione della
carità e dell'amore, non si arresta neppure dinnanzi al parricidio.
(_Vivissime approvazioni_).

«No, io sento raccolta qui negli animi nostri la parola dolcissima di
quella grande Addolorata che, dopo di aver portato nella Reggia il
fascino della grazia e della bontà, dà oggi nelle veglie del dolore
l'esempio di una forza e di una virtù, ammirande; (_Vivissime
approvazioni--prolungati applausi_) non dimentica mai, fra le angoscie
dell'anima, nè dei doveri di madre, nè di quelli che la stringono alla
nazione che essa ama, e dalla quale è riamata, e non invocando da Dio
che la grazia suprema della rassegnazione. (Benissimo!)

«_Era buono... non fece mai male a nessuno. È il più gran delitto del
secolo_! E in queste parole che proruppero dal cuore della donna e della
Regina, è la sintesi dolorosa e solenne di quella terribile tragedia,
che ebbe il suo epilogo nella notte fatale del 29 luglio. (_Bravo_!)

«Era buono. Sì, buono di quella bontà che è il compendio di tutte le
virtù; di quella bontà che riunisce e rispecchia le più eminenti doti
dell'intelletto e del cuore in tutti i rapporti della vita morale e
civile. (_Benissimo_!)

«Era buono; e lo provò prima ancora di assumere le alte responsabilità
della Corona, conformando tutta la sua vita alle austere discipline del
dovere, assecondando con sentimento di devozione [Illustration: RE
VITTORIO EMANUELE III] la volontà del padre, seguendone fedele gli
esempi e avventurando la vita con lui e col fratello sui campi di
Lombardia per la causa italiana. (_Benissimo! Bravo!_)

«Io non ambisco--così Egli diceva ai rappresentanti della Nazione,
nell'atto di cingere la Corona: Io non ambisco che meritare questa lode:
EGLI FU DEGNO DEL PADRE». E nella omerica semplicità di queste parole
Egli scolpiva tutto l'animo suo. (_Approvazioni_).

«Era buono; e lo provò durante i ventidue anni di regno, non ismentendo
mai quella che fu la costante preoccupazione di tutta la sua vita; di
mantenere, cioè, fede rigorosa alle istituzioni. Re costituzionale, egli
non si lasciò mai sedurre dal pensiero di potersi in qualche modo porre
in contrasto con quell'indirizzo di Governo che gli poteva essere
segnato dalla volontà della nazione. Religioso osservatore della legge,
egli sentiva tutti i doveri che si impongono al Sovrano nell'alto
ufficio che gli è affidato, di essere moderatore imparziale fra l'urto
dei partiti che intendono a fecondare con nuovi elementi l'attività
politica ed economica dello Stato. Passarono sopra di noi turbini e
procelle spaventose gravi sventure colpirono il cuore della nazione,
egli non disperò mai della patria; nè dubitò mai della virtù italiana;
ma richiamando serenamente il paese alla coscienza della sua forza e al
culto della libertà, proclamò sempre la sua fede costante nelle
Istituzioni «_essere esse la salvaguardia contro ogni pericolo;
in esse la prosperità e la grandezza della patria». (Vivissime
approvazioni--Vivi e prolungati applausi.)

«Non fece mai del male a nessuno_. E come lo avrebbe potuto? Egli passò
beneficando. Non fu pubblica sventura nella quale egli non abbia saputo
manifestare tutto l'inesauribile tesoro di bontà che aveva nel cuore. Lo
vedete impavido in mezzo ai pericoli, affrontare la terribile malattia
quando è più fitta l'ecatombe delle vite e più fiero l'imperversare del
flagello; impaziente sempre di giungere fra i primi a portare una parola
di conforto e un soccorso ai derelitti colpiti dalla sciagura. Non vi è
miseria alla quale egli non sappia apprestare un riparo. Negli asili
come negli ospedali egli accorre colla coscienza di dover adempiere ad
un dovere di umanità e con la stessa fede con cui vi accorre una suora
di carità.

«_Io porrò negli umili la gloria del mio regno_. Con queste parole egli
riassumeva tutto il suo cuore, tutto lo scopo al quale avrebbe
desiderato fossero rivolte le cure del Governo; l'intento sommo che egli
sperava di poter raggiungere. E lo provava accordando largo concorso di
sovvenzioni ad Istituti di previdenza, Casse di lavoro, Associazione
cooperative, ogni opera diretta ad allievare le necessità dei più umili.
Lo provava mostrandosi sempre devoto alla causa degli operai,
mescolandosi con questi con confidente famigliarità; mostrando la più
viva sollecitudine per i loro interessi e per quelli delle loro
famiglie; avendo per tutti una stretta di mano, una parola amica, un
sorriso che infondeva in ogni cuore un sentimento di fiducia e di
ossequio.

«Era buono e non di meno vi fu chi ha potuto concepire il truce pensiero
di farne scempio!

«E vi è stato chi ha potuto freddamente, roteare sopra quel petto, sul
quale brillavano le insigne del valore, i tre colpi mortali!

«E vi fu chi pensò di scegliere con ributtante audacia a teatro
dell'opera scellerata ed infame quello stesso luogo e quell'ora stessa,
in cui il plauso popolare salutava il Re buono, leale e generoso;
conculcando l'autorità sovrana ed insultando ad un tempo l'affetto
popolare, (vivi e prolungati applausi).

«_È il più gran delitto del Secolo_. Sì: è la brutale malvagità che,
mentre sfoga il suo istinto di sangue distruggendo la più nobile delle
esistenze conculca nel tempo stesso la più alta personificazione
dell'autorità della legge, della maestà della nazione, del diritto
sociale, della giustizia, e insulta ad un tempo il sentimento popolare
nella più elevata sua manifestazione. (_Vivi e prolungati applausi_).

«È la brutale malvagità alimentata ed ordinata a sistema contro ogni
ordine sociale: distruggere per distruggere. Lusingansi forse i
dissennati, di poter con le loro opere di sangue attentare a quella
grande espressione di forza che è la Monarchia italiana; ed offendere
quel prezioso coacervo di volontà, di aspirazioni, di energie che è
rappresentato dalla Dinastia di Savoia? (_Vive approvazioni_).

«No; il Re non muore (_Prolungati applausi e grida ripetute di_: Viva il
Re!) e il sangue dei martiri fortifica la fede dei superstiti.
(_Prolungati applausi_).

«Il Re non muore; Umberto rivive nel figlio suo. Vittorio Emanuele III
raccoglie la Corona insanguinata per continuare imperterrito e con la
stessa fede quella missione di pace e giustizia, che l'Augusto suo
Genitore si era prefisso. (_Vive approvazioni_). Contro questa legge
indefettibile, della continuità giuridica e morale della Monarchia, che
la coscienza del popolo ha con mirabile concordia riconosciuta, non vi è
opera di sette, non vi è opera di violenti che possa prevalere. (_Vivi e
prolungati applausi--grida ripetute di_: Viva il Re!)

«Grandi doveri però c'incombono, ai quali la nostra coscienza non può
mancare. Noi sentiamo che la vita morale della Nazione è turbata da
dissesti morbosi; noi sentiamo che vi è nell'organismo sociale qualche
cosa che fallisce alla regolarità e sincerità delle sue funzioni. Al più
grande dei delitti del secolo, perpetrato su di una pubblica piazza
assiepata di popolo e contro la più nobile delle vite, si collegano
responsabilità morali più o meno dirette, più o meno prossime che
possono dipendere dagli imperfetti organismi della nostra vita giuridica
ed amministrativa. (_Vive approvazioni_).

«Bisogna richiamare il paese all'osservanza rigorosa della legge. (_Vive
approvazioni--applausi_). Bisogna modificare, correggere i nostri
istituti educativi, far penetrare nelle masse il sentimento del dovere;
richiamarle agli alti ideali della patria e della famiglia; dare a tutti
e in tutto quella giustizia che è il supremo bisogno dei popoli.
(_Applausi unanimi e prolungati_).

«Con questi intendimenti raccogliamoci attorno al giovine Re sul quale
l'occhio del padre e della madre posavansi con tanto affetto e che
sollevando la bandiera abbrunata della patria, intende con animo sicuro
verso la meta segnatagli dal padre e dalle tradizioni della sua Casa.
Raccogliamoci attorno ad esso al grido di: Viva il Re (_Vivi e
prolungati applausi,--grida di: Viva il Re!_) Questo grido che mi
prorompe dall'animo è l'espressione più pura dell'unità della patria, la
manifestazione più alta della sua forza morale e della maestà e della
grandezza del nome italiano, purificati da ogni contrasto regionale. Da
qui l'avvenire della patria, da qui l'espiazione, che darà la pace alle
nostre coscienze e al paese la sua unità morale e la coscienza della sua
missione. (_Applausi generali e prolungati.--Grida ripetute di: Viva il
Re!_)

Così parlava l'onorevole Saracco, presidente del Consiglio, ministro
dell'interno.

Signori deputati! Mi onoro di annunciare alla Camera, che S. M. il Re,
con decreto del 2 agosto, ha confermato me nell'ufficio di presidente
del Consiglio, ministro dell'interno, e i miei colleghi nelle loro
rispettive funzioni. Spetta perciò a me di compiere il mestissimo
ufficio di associarmi, in nome del Governo, ai sentimenti d'indignazione
e di dolore, espressi con rara eloquenza dal vostro degno presidente.

«Mi associo a questi sentimenti coll'animo più che con le parole; le
quali non bastano a significare la commozione profonda o il cordoglio
che mi strazia.

«Io, che vidi le origini del nuovo Regno, e presi parte a tutte le
vicende fortunate, per cui il piccolo Piemonte si trasformò nella Grande
Patria Italiana, non avrei mai creduto di viver tanto per assistere alla
strage del mio Re. (_Bravo! Bene!_)

«Ciò che più mi cruccia è il pensiero che la sua vita preziosissima fu
troncata dalla mano d'italiano. (_Bravo!--Approvazioni_)

«Se la maledizione del popolo non avesse raggiunto il parricida, se non
gli pendesse inesorabile sul capo la maledizione di Dio e di tutto il
mondo civile, vorrei anch'io, con le lagrime negli occhi e con lo sdegno
nel cuore, esecrare e maledire questa belva in figura d'uomo.
(_Benissimo!--Vive approvazioni_).

«Ma debbo far forza a me stesso e, come capo del Governo, imporre freno
all'indignazione che mi trabocca dall'animo, imitando l'esempio di forte
serenità che ci viene dall'Augusto Successore.

«Raccolti nel dolore, prostriamoci innanzi al feretro del Re leale,
buono e generoso, soldato per la patria per l'umanità, del Re che
riassumeva le virtù civili e militari della sua eroica stirpe; del Re
che fu sempre fortunato interprete dei sentimenti e delle aspirazioni
del suo popolo, cui lascia tanta e così larga eredità di affetti.

«L'universale compianto che lo accompagna nel sepolcro è il giusto
premio di una vita tutta spesa nello adempimento del dovere e dedicata
al benessere ed alla felicità del suo popolo.

«La fine crudele toccata al più giusto al più umano dei Sovrani deve
ispirarci, gravi riflessioni e suscitare virili propositi.

«Di fronte alla frequenza di così mostruosi e brutali delitti che, senza
odio e senza motivo, prendono di mira le più innocenti e le più elevate
esistenze; di fronte alle minaccie incalzanti e feroci di una
classe di degenerati senza patria, senza umanità e senza Dio;
(_Benissimo!--Vivissime approvazioni_) che sognano di rinnovare la
società seppelendola sotto le sue rovine; in mezzo a tanto agitarsi di
malsane passioni e di appetiti sfrenati, che avvelenano l'ambiente e
turbano la pubblica coscienza, non è lecito al Governo rimanere
impassibile; (_Benissimo!--Bravo!_) non potete restare impassibili voi,
onorevoli deputati, cui sono connesse le sorti di una così nobile e
civile nazione, grande nei suoi slanci patriottici, generosa e
cavalleresca nei suoi sentimenti. (_Bene!_)

«Non è possibile che nel seno di questo bel paese continui a fecondarsi
il reo seme che ha dato frutti così funesti e ne prepara di peggiori per
l'avvenire. (_Benissimo!_)

«Tutti coloro che, come noi, son convinti essere la Monarchia la sola
forza con la quale il nostro paese può tenersi unito e prosperare,
(_Benissimo!_) hanno l'obbligo di stringersi insieme per studiare e per
preparare i mezzi acconci a prevenire le funeste esplosioni di un
fanatismo cieco, che minacciano il ritorno di una barbaria nuova e senza
nome (_Approvazioni_).

«È questo il compito che i nuovi pericoli impongono al Governo ed al
Parlamento, consci della loro missione e solleciti dell'onore, della
sicurezza e dell'avvenire del paese. (_Benissimo!_)

«Dopo mezzo secolo di vita politica, attraverso tante vicende, non ho
mai perduta la fede nei benefizi della libertà, che fu la leva del
nostro risorgimento e la pietra angolare del nostro Regno; (Benissimo!)
ma, per assicurarla e garantirla, occorre impedire con mano ferma ed
energica che nell'ombra e sotto il pretesto della libertà si sovvertano
gli ordini dello Stato. (_Benissimo--Vivi applausi!_) e si mettano in
serio pericolo le conquiste della civiltà e del progresso.
(_Benissimo!_)

«L'immensa sventura che ci strappa così amare lacrime, sia per noi un
salutare lavacro che purifichi gli spiriti e unisca gli animi alla
comune difesa.

«Sarà questo l'omaggio più degno che possiamo rendere alla venerata
memoria del compianto Sovrano ed il saluto augurale dell'Augusto
Successore che, giovane ed animoso, seguita sul trono le orme luminose
del Padre e dei suoi Grandi Avi.

«I vecchi hanno data una Patria e un glorioso retaggio da custodire;
spetta a voi giovani di conservarlo ed accrescerlo con la fede robusta,
collo spirito di sacrifizio e col sentimento di solidarietà, che
levarono l'Italia alla presente fortuna. (_Benissimo!--Vive
approvazioni--Vivi e prolungati applausi_). Il presidente della Camera
dà comunicazione dei seguenti telegrammi.

                                    *
                                   * *

Monsieur le Président,

Profondément ému par le crime exécrable qui met en deuil l'Italie et le
monde civilisé, je prie Votre Excellence d'agréer l'expression de mes
plus vives sympathies. Je suis assurè d'être l'interprète des sentiments
de mes collègues en vous adressant le temoignage de notre tristesse. Les
deux nations se sentent unies une fois de plus par les mêmes
douleurs.--Paul Deschanel.»--(_Vivissimi e prolungati applausi_).

«L'Union Interparlementaire pour l'arbitrage international et la paix
réunie en conference à Paris, s'associant au deuil de la nation
Italienne et protestant avec indignation contre l'odieux attentat dont
Roi Humbert a été victime, a l'honneur d'offerir a Monsieur le Président
de la Cambre des Députés l'hommage respectueux de ses sincéres
condoleances.--Le Président de la Conference, Faillieres, Président du
Senat.»--(_Applausi_).

«Profondément émus du deuil qui frappe l'Italie, nous vous envoyons nos
compliments de condoléance et bien douloureuse sympathie au nom de
l'Union des Commissaires étrangers.--Robert Raffalovich Asbeck
Spearman.»--(_Bene!_)

«Le crime abominable qui plonge en deuil l'umanité entière m'a causé une
grande douleur. Sûr d'être le fidèle interprète de ces mêmes sentiments
de tous mes collègues, j'esprime à Votre Excellence nos sympathies et
l'assurance de la part immense que nous prenons dans la douleur de tout
la nation italienne.--Ietcho Bakaloff, Président de la Chambre des
Députés de Bulgarie.»--(_Bene!_)

«Dopo aver ascoltate le seguenti parole pronunciate nella seduta d'oggi,
la Camera che ho l'onore di presiedere ha deliberato che esse siano
trasmesse a V. S. come fedele espressione dei suoi sentimenti, nonchè di
quelli della nazione Argentina:

«Signori deputati, il telegrafo annuncia che Sua Maestà Umberto I, il
virtuoso e magnanimo Re d'Italia cadde vilmente assassinato. Credo
rendermi fedele interprete dei sentimenti della Camera dei deputati
della Nazione Argentina esecrando il barbaro attentato che deve essere
energicamente riprovato da tutti i popoli civili del mondo in omaggio
alla memoria dell'illustre Re, che fu sicuro e costante amico della
nostra patria (_Applausi_).

«In considerazione del dolore che grava sul nostro spirito per la
perdita che ha sofferto la nobile nazione italiana e quella parte dei
suoi sudditi che abitano il nostro paese e che in fraterna unione con
noi lavora alla sua prosperità e al suo ingrandimento propongo si levi
la seduta.»

«Saluto Lei, signor presidente, con la più distinta
considerazione.--Marco Avellaneda, presidente; Alessandro Sorondo,
segretario». (_Vivissimi applausi_).

«La Camera dei deputati del Brasile, profondamente commossa per il luttuoso
avvenimento di cui fu vittima il Re Umberto, associandosi al dolore
che ha ferito il cuore del popolo italiano, votò una mozione di compianto
sospendendo le sue sedute, e presenta le sue condoglianze.--Carlos
Vaz Mello, presidente della Camera».--(_Approvazioni_).

«La Camera dei deputati del Perù si associa al dolore del Parlamento
italiano per l'assassinio del Re Umberto.--Carlos de Pierola,
deputato-presidente». (_Bene!_).

«La Camera dei deputati del Chili ha deliberato esprimere a codesta
Camera, per mezzo di Vostra Eccellenza, il suo dolore per la disgrazia
che affligge la nazione italiana.--Carlos Palecios, presidente; Rafael
Brako, segretario».--(_Bene!_).

«In nome partito Indipendenza, costituente due terzi della Opposizione
Parlamentare Ungherese, esprimo profondo dolore perdita impareggiabile
Re e nobilissimo uomo, augurando felicità nazione italiana.--Francesco
Kossuth, presidente».--(_Vivissimi applausi_).

Da ogni parte del mondo pervennero telegrammi d'esecrazione per
l'orrendo misfatto.

                                    *
                                   * *

L'11 agosto 1900 dopo aver dato il giuramento prescritto dall'art. 22
dello Statuto del Regno S. M. il Re Vittorio Emanuele III pronunziava
alle Camere riunite in Senato il seguente discorso:

          _Signori Senatori, Signori Deputati!_

«Il Mio primo pensiero è pel Mio popolo, ed è pensiero di amore e di
gratitudine.

«Il popolo che ha pianto sul feretro del suo Re; che affettuoso e
fidente si è stretto intorno alla Mia Persona, ha dimostrato quali salde
radici abbia nel Paese la Monarchia liberale (_Applausi fragorosi--grida
di Viva il Re!_)

«Da questo plebiscito di dolore traggo i migliori auspici del Mio Regno.

«La nota nobile e pietosa, che sgorgò spontanea dall'anima della Nazione
all'annunzio del tragico evento Mi dice, che vibra ancora nel cuore
degli Italiani la voce del patriottismo, che inspirò in ogni tempo
miracoli di valore (_Applausi_). Sono orgoglioso di poterla raccogliere.

«Quando un popolo ha scritto nel libro della Storia una pagina come
quella del nostro Risorgimento, ha diritto di tenere alta la fronte e di
mirare alle più grandi idealità (_Applausi_). Ed è a fronte alta, e
mirando alle più grandi idealità, che Mi consacro al Mio Paese con tutta
l'effusione ed il vigore di cui Mi sento capace (_Applausi_), con tutta
la forza che Mi danno gli esempi e le tradizioni della Mia Casa
(_Applausi vivissimi_).

«Sacra fu la parola del Magnanimo Carlo Alberto, che largì la libertà:
sacra quella del Mio Grande Avo, che compì l'unità d'Italia. Sacra
altresì la parola del Mio Augusto Genitore, che in tutti gli atti della
sua vita, si mostrò degno erede delle virtù del Padre della Patria
(_Vivissimi e prolungati applausi--grida di Viva il Re! Viva Casa
Savoja!_)

«All'opera del Mio Genitore diede ausilio, ed aggiunse grazia e
splendore quella della Mia Augusta e Venerata Genitrice, (_Lunga
ovazione e grida di Viva la Regina Margherita_) che Mi istillò nel cuore
e Mi impresse nella mente il sentimento del dovere di Principe e di
Italiano (_Applausi vivissimi_). Così all'opera Mia si aggiungerà,
quella della Mia Augusta Consorte, che nata anch'Essa da forte prosapia,
si dedicherà intieramente alla Sua Patria di elezione. (_Applausi
ripetuti e grida di Viva la Regina_).

«Dell'amicizia di tutte le Potenze abbiamo eloquente prova nella
partecipazione al Nostro lutto coll'intervento di Augusti Principi e di
Illustri Rappresentanti; (_Applausi_) ed Io mi dichiaro a tutte
profondamente grato.

«L'Italia fu sempre efficace strumento di concordia, e tale sarà altresì
durante il Mio Regno, nel fine comune della conservazione della pace.
(_Approvazioni_).

«Ma non basta la pace esteriore. A noi bisogna la pace interna, (_Vivi e
prolungati applausi--grida di Viva il Re_), e la concordia di tutti gli
uomini di buon volere, per isvolgere le nostre forze intellettuali e le
nostre energie economiche. (_Approvazioni_).

«Educhiamo le nostre generazioni al culto della Patria (_Approvazioni_),
all'onesta operosità, al sentimento dell'onore (_Benissimo!_); a quel
sentimento a cui s'inspirano con tanto slancio il Nostro Esercito e la
nostra Armata (_Applausi prolungati--grida di Viva l'Esercito, Viva
l'Armata_), che vengono dal popolo e sono pegno di fratellanza, che
congiunge nell'unità e nell'amore della Patria tutta intiera la Famiglia
Italiana. (_Lunghe e prolungate ovazioni_).

«Raccogliamoci e difendiamoci con la sapienza delle leggi e colla
rigorosa loro applicazione (_Applausi vivissimi_). Monarchia e
Parlamento procedano solidali in quest'opera salutare. (_Benissimo!_)

          _Signori Senatori. Signori Deputati!_

«Impavido e securo ascendo al Trono (_Ovazione lunghissima; grida
ripetute di Viva il Re_) con la coscienza de' Miei diritti e doveri di
Re (_Triplice salva di applausi_).

«È necessario vigilare e spiegare tutte le forze vive, per conservare
intatte le grandi conquiste dell'unità e della libertà (_Applausi_). Non
mancherà mai in Me la più serena fiducia nei nostri liberali ordinamenti
(_Applausi_), e non Mi mancherà la forte iniziativa e la energia
dell'azione (_Grande ovazione e grida ripetute di Viva il Re_), per
difendere vigorosamente le gloriose Istituzioni del Paese, retaggio
prezioso de Nostri maggiori (_Approvazioni_).

«Cresciuto nell'amore della Religione e della Patria, invoco Dio in
testimonio della mia promessa, (_Triplice salva di applausi e grida di
Viva il Re!_) che da oggi in poi il Mio cuore, la Mia mente, la Mia vita
offro alla grandezza ed alla prosperità della Patria. (_Lunga ovazione
che dura_ _per parecchi minuti e grida ripetute di Viva il Re Viva la
Regina, Viva Casa Savoia_).

Parole esprimenti alti sentimenti patriottici degne del discendente
dell'Avo immortale--Il Padre della Patria--e del Re Buono suo magnanimo
genitore Umberto I.

                                    *
                                   * *

Giunto alla fine di questi ricordi che sono una eco di storia
ripercuotentesi intorno a me--e che riassumono pagine di vita vissuta
nelle grandi ore per la libertà della patria--si affollano alla mente
mia le sembianze care e gloriose di tutti i compagni dei giorni eroici e
lontani--le immagini dei pochi superstiti--dei molteplici morti--dei
saliti in alto sulle cime della rinomanza--degli umili rimasti oscuri,
non ostante il sagrifizio del sangue e l'altezza divina del sogno!

Amici, compagni, sacre legioni di combattenti, come appaiono lontani i
tempi nei quali vibrava così piena, così fulgente, così feconda la
giovinezza dei nostri cuori e la visione bella dell'Italia sorgente!
Quanto appaiono lontani! e come sono diversi da quelli d'ora.

Eppure anche oggi non mancano alti e nobili ideali che s'impongono alla
mente ed al cuore delle nuove generazioni!

Per noi, vecchi--nessuna cosa quaggiù, fu ed è più cara della patria!
neppur la famiglia che è pur tanta parte di noi stessi.

L'Italia--una--indipendente--forte--fu il nostro ideale--e nessun
sagrifizio ci parve abbastanza grande perchè questo ideale fosse
raggiunto.

E Voi giovani non sarete da meno dei vecchi padri vostri--come noi--voi
pure sentite nell'anima agitarsi prepotente l'amore della patria--voi
pure sentite che la terra sacra a cui natura pose i confini che Dante
scolpì nel verso immortale, aspetta anche qualche cosa da Voi--Voi
sentite che dal monte e dal mare sospirano cuori fraterni, invocanti
libertà di lingua, di costumi e di coscienza e comprendete che non è
piccolo ideale il completare la grand'opera che fu cementata col sangue
dei padri vostri!

Col progredire dei tempi è giusto che nuovi problemi si agitino; che
nuove correnti siano determinate dalla forza e dalla fede dei
giovani--ma ciò deve raggiungersi senza rinnegare quello che è
fondamento alla vita delle Nazioni; la custodia gelosa delle conquiste
fatte; l'autorità sempre ferma contro coloro che in un campo o
nell'altro cercano minare la sicurezza della patria e diminuirne il
sentimento o la dignità.

O giovani, credetelo! I grandi problemi sociali non si risolvono con
l'appello all'odio, alle ire, alle malvagità; chi questo consiglia è
nemico di ogni civile progresso--è nemico del popolo, di cui si vanta di
propugnare la causa.

O giovani, i vostri padri vi hanno dato una patria che dalle brutture
dell'oppressione e della tirannia, in breve volgere d'anni è giunta a
tale altezza da meritare le maggiori considerazioni fra i popoli civili.

Ispirandovi all'esempio del passato, attingendo sempre maggior fiducia
nella giovinezza del paese, personificata nella giovinezza del Re, a cui
l'età ha concesso la provvida vigoria degli impulsi rinnovatori, e il
carattere e l'intelletto hanno dato la saggezza e la maturità che
affida, non avete che a serrarvi intorno a lui, sicuri che Egli condurrà
la patria verso i suoi gloriosi destini.

Stringetevi, o giovani intorno al Re Vittorio Emanuele III che, raccolta
la Corona nel sangue paterno, seppe anche far scaturire dal cuore e
dalla volontà Sua tanta luce di nobili propositi, tanta fiamma di
affetti generosi, tanta coscienza della tradizione storica e
dell'ufficio che i nuovi tempi domandano!

A noi generazione morente colla pace dell'al di là--non sorride che la
speranza nei figli--che debbono--far più prospera--più concorde--la
patria che adorammo e sogneremo in perpetua vittoria fin negli estremi
riposi....

                                    *
                                   * *

E ora, a Voi vecchi compagni d'arme, dei quali ho fugacemente e troppo
modestamente riassunti i ricordi e gli ideali, il saluto mio pieno
d'amore e di ricordi.


                    FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME.




                                 INDICE

    CAPITOLO XIX.--1860--Spedizione dei Mille--Marsala--
                   Salemi--Calatafimi--Palermo--Milazzo--
                   Reggio Calabria--Napoli--Volturno.
                   Liberazione dell'Italia Meridionale
                   consegnata a Vittorio Emanuele II.......... Pag. 3

       "      XX.--Liberazione dell'Umbria e delle
                   Marche--Castelfidardo--Ancona............... " 101

       "     XXI.--Ritiro di Garibaldi a Caprera............... " 146

       "    XXII.--Presa di Capua e di Gaeta................... " 147

       "   XXIII.--Aspromonte--Sollevazione in Polonia......... " 156

       "    XXIV.--Guerra del 1866--Liberazione del Veneto..... " 182

       "     XXV.--Campagna dell'Agro Romano--Montelibretti--
                   Roma--Monterotondo--Mentana.................. " 253

       "    XXVI.--Il 1870--Digione--Entrata in Roma........... " 303

       "   XXVII.--Morte di Mazzini............................ " 339

       "  XXVIII.--Morte di Vittorio Emanuele II............... " 343

       "    XXIX.--Ultimi giorni e morte del generale Garibaldi " 352

       "     XXX.--Sbarco a Massaua--Guerra Abissina........... " 361

       "    XXXI.--Volontari Italiani in Grecia................ " 424

       "   XXXII.--Orrendo misfatto--Morte di Umberto I........ " 443




                                APPENDICE

    agli avvenimenti del combattimento del 15 maggio 1860 sostenuto dai
            Mille sbarcati a Marsala e dalle Squadre Siciliane.


Ritenuta la non dubbia importanza di alcuni documenti che sono lettere
del Dott. Pietro Ripari, che all'ultima ora ci pervengono, non esitiamo
a pubblicarle; riferendosi essi alla memoranda giornata di Calatafimi.

                                                            ELIA.

                                    *
                                   * *

Lettera del Dott. Pietro Ripari, Capo medico dell'ambulanza dei Mille,
con la quale si trasmette un'ordine del generale Garibaldi al Dottore
Ignazio Lampiasi, ora deputato al Parlamento.

          «_Sti.mo sig. Dott. e Prof. in chirurgia_
          «_Don Ignazio Lampiasi_,

«Un ordine del generale Garibaldi mi impone di seguirlo col corpo medico
dell'ambulanza.

«Dei feriti che trovansi qui in Vita, i più leggermente offesi, saranno
entro oggi trasportati in Calatafimi, in quello Ospedale.

«La cura dei gravi, che resteranno nel convento di S. Francesco, dovendo
essere affidata a uomini esperti nell'arte, io la invito, dietro comando
del Generale a volere compiacersi di assumerla Ella; la quale
eventualità, le aprirà la via a far risaltare maggiormente il di Lei
valore come chirurgo.

«Ella entra quindi in carica officiale fin da questo giorno e veste
l'autorità mia in Vita, che non ha limiti per tutto ciò che riguarda i
bisogni, i vantaggi, i comodi dei feriti, ed anche il loro vivere lauto,
se avviati a convalescenza, o recati a guarigione.

«Ho l'onore di rassegnarmele con distinta stima

            «Collega Dott. PIETRO RIPÀRI
«_Capo medico dell'ambulanza generale pei Cacciatori delle Alpi in
Sicilia._

«Di Lei stimatissimo sig. Dottore e Professore in chirurgia.

                                          «Vita, 17 maggio 1860».

16 settembre 1860--Visto per la firma del Dott. Ripàri--Il Direttore
dell'Ospedale Garibaldi--GR. UGDULENA--Palermo.

          «_Sig. Dottore stimatissimo_,

«Nella di Lei lettera del 24, ricevuta oggi, da due Signori di squisiti
modi e di piacevole conversare, sento da questa, che i pochi feriti
rimasti alla di Lei cura, versano in condizioni di buona, e tra breve di
perfetta salute, e ne godo insieme con Lei.

«Mi conforta pure il sentire che buon'aria, pulitezza ed altri conforti
presta loro Salemi, ai quali vantaggi aggiungendo il di Lei noto valore
dell'arte, mi rende certo della salvezza di tutti.

«Non ho potuto oggi fare parola al Generale della necessità in cui si
trovano i feriti di altro denaro, ma ne terrò parola domani e credo
potrò ottenere un altro ordine di pagamento di denaro per essi.

«Qui pure abbiamo a deplorare perdite dolorose di prodi che hanno
suggellato col sangue il patto antico della giurata libera nazionalità
d'Italia: sia lieve la terra ai generosi, e dormano l'eterno sonno
avviluppati nel loro mantello di gloria.

«Mi abbia con distinta stima

                                             «Dott. PIETRO RIPÀRI
                                                 «Capo medico».

Seguono altre lettere dello stesso Ripári e di altri che gettano molta
luce sui memorabili avvenimenti di quella ambulanza.

E noi esortiamo l'on. Lampiasi di pubblicare tutti i documenti e le
notizie di quel periodo memorabile nel quale egli ebbe tanta parte.

                                                            ELIA.

                                    *
                                   * *

    Note di trascrizione:
    pag. 5 Bisognava accertarsi [accertasi]
    pag. 9 Rossi, Schiaffino [Shiaffino]
    pag. 21 Sirtori Giuseppe [Giusepe]
    pag. 34 i Carabinieri Genovesi [Genevesi]
    pag. 44 Calatafimi [Calatafini], 16 maggio.
    pag. 45 a Calatafimi [Calatafini],
    pag. 52 in nome di Vittorio Emanuele [Emanuale]
    pag. 59 Medici aveva con sè [se]
    pag. 60 da altre parti [altri parte] dell'isola
    pag. 62 dà [da] incarico al Medici
    pag. 62 dal battaglione Dunn [Duun]
    pag. 65 e dà [da] gli ordini necessari
    pag. 65 quanti tentano [tentono] appressarsi
    pag. 76 all'Assemblea repubblicana [republicana] francese
    pag. 78 il soproggiungere [soproggiungere] dei Garibaldini
    pag. 80 chiamava a sè [se] il suo capo
    pag. 82 dai [dei] forti di Capua
    pag. 91 comandante del [dei] battaglione
    pag. 97 il Malenchini promosse [promossi] capitani
    pag. 112 divorata [didivorata] la via
    pag. 113 un po' [un po] di riposo
    pag. 121 rinforzarono [rinforsarono] il 7º
    pag. 121 in un'ora [un ora] l'intero battaglione
    pag. 125 il generale Lamoricière [Lamoriciér]
    pag. 126 tolleranza cristiana a [e] chi
    pag. 133 Il mio magnanimo [magnamino] alleato
    pag. 143 trionfi della libertà [libertì]
    pag. 149 la [le] 3ª e la 4ª
    pag. 149 in fuga il nemico [menico]
    pag. 149 bersaglieri esaltati [e saltati] dalle riportate vittorie
    pag. 158 un valorosissimo [valorossimo] ufficiale
    pag. 164 bandì l'insurrezione [isurrezione]
    pag. 169 she will [vill] answer
    pag. 180 che non si sottoscrissero [sotscrissero]
    pag. 182 chiamato a sè [se]
    pag. 182 La Marmora [Lamarmora] incaricava
    pag. 184 Benchè [Benche] ciò fosse grave
    pag. 190 il miglior piano di campagna [camgna]
    pag. 195 In conseguenza di questo presupposto [presuposto]
    pag. 196 avere con sè [se] seimila uomini
    pag. 198 da un lato ad Hano [così nel testo]
    pag. 204 riuniti intorno a sè [se]
    pag. 205 le importantissime posizioni [posizione]
    pag. 205 generale La Marmora [Lamarmora]
    pag. 205 portare soccorso a [e] quella
    pag. 207 ricevuti dal La Marmora [Lamarmora]
    pag. 211 Il generale senza [senga] esitare
    pag. 213 il comando [comandò] del generale Garibaldi
    pag. 217 a precipitosa [precisitosa] fuga
    pag. 217 vi presero parte [patte]
    pag. 220 agli ordini del Castellini [Castellino]
    pag. 222 impedire al nemico [menico]
    pag. 224 con furia irresistibile [irresistebile]
    pag. 233 dal [dal dal] Garda salivano a Trento
    pag. 237 comandante divisionale [divisonale]
    pag. 248 dalla tolda [tolta] della nave
    pag. 251 Il generale La Marmora [Lamarmora]
    pag. 251 col generale La Marmora [Lamarmora]
    pag. 262 è [e] il solo caso in cui
    pag. 267 non si dà [da] per vinto
    pag. 267 riunito intorno a sè [se]
    pag. 274 il loro glorioso Calatafimi [Calatafini]
    pag. 278 fatto sagrifizio di sè [se]
    pag. 283 al di là [la] dei ponti
    pag. 286  un'altra [un altra] volta
    pag. 287 nè [ne] essere meno di 30
    pag. 288 l'avanguardia veniva attaccata [attacata]
    pag. 295 li portasse con sè [se]
    pag. 305 il fratricidio [fraticidio] della repubblica Romana
    pag. 306 ma con freddezza [fredezza]
    pag. 306 immediatamente presso di sè [se]
    pag. 309 organizzazione [organizzione] alquanto improvvisata
    pag. 309 circa ventimila [ventimile] uomini
    pag. 310 centosessantasette [centossantasette] prigionieri
    pag. 311 sparare in un [un un] attacco
    pag. 314 che avevano [aveva] fiancheggiato
    pag. 315 forti posizioni di Talant [Talans]
    pag. 317 del generale Bourbaky [Bourbacky]
    pag. 318 arrivare a Montbard, Châtillon [Chatillon]
    pag. 325 sostennero [sostennnero] pure l'urto
    pag. 326 muniti di feritoie [ferritoie]
    pag. 332 accolto [acccolto] dalla maggioranza
    pag. 335 depositario dell'integrità [dall'integrità]
    pag. 336 Noi occuperemo pertanto [pertando]
    pag. 338 Il Duca d'Aosta [D'Aosta], con voce commossa
    pag. 348 si sentì [senti] un po' [po] meglio
    pag. 349 la malattia è [e] ben grave
    pag. 356 sussurrò [sussurò]: "lasciatele stare
    pag. 364 nè [ne] avvalerci della bella opportunità
    pag. 369 e di circa 225 indigeni [indigini]
    pag. 373 combattimento contro le [lo]
    pag. 374 Il generale Barattieri [Baratieri] non perdè [perde] tempo
    pag. 375 Il Barattieri [Baratieri] che aveva ottenuto
    pag. 375 Barattieri [Baratieri] decise di prevenire
    pag. 378 ai maggiori Toselli e Hidalgo [Hidaldo]
    pag. 380 gli ordini opportuni [opportunni]
    pag. 382 ponesse la sua dimora nell'Agamè [nall'Agame]
    pag. 387 aveva poi concentrate [cencentrate]
    pag. 388 La colonna di ras Oliè [Olie]
    pag. 390 ma il [ii] numero esorbitante
    pag. 392 il presidio di Macallè [Macalè]
    pag. 394 Mentre i nostri a Macallè [Macalè]
    pag. 403 non poterono togliersi [togliarsi]
    pag. 403 Era uno [nno] spettacolo
    pag. 403 Quanti valorosi [volorosi] ufficiali
    pag. 403 non è [e] possibile dire
    pag. 403 il colonnello [connello] Nava
    pag. 403 nella convalle presso Rebbi Arienni [Rebbi-Arienni]
    pag. 403 Quando Barattieri [Baratieri]
    pag. 403 fu raggiunto dal [del] tenente
    pag. 404 sul ciglio del colle Rebbi Arienni [Rebbi-Arienne]
    pag. 404 formazione di [di di] ammassamento
    pag. 404 visto il generale Barattieri [Baratieri]
    pag. 404 impensierito [impensiesito] di non avere
    pag. 405 ne erano [erane] grandemente preoccupati
    pag. 405 va [và] verso Adua
    pag. 405 si precipitano giù [giu] pel burrone
    pag. 406 con un pugno [puguo] di bravi
    pag. 407 nè [ne] alcuna dal Comando
    pag. 411 la brigata Dabormida [Damormida] avrebbe visto
    pag. 412 pronti [prontt] per l'assalto
    pag. 418 là [la] si trovarono
    pag. 420 alla battaglia di Debra-Ailà [Debra-Ailat]
    pag. 422 vi era lì [li] appresso
    pag. 425 sotto il comando [ilcomando] del maggiore
    pag. 432 la divisione Hairi Pachà [Pacha]
    pag. 432 del generale Hairi Pachà [Pacha]
    pag. 434 a sua volta li fulminava [fuminava]
    pag. 434 tutti provvisti [provisti] di fucile
    pag. 434 uno splendido [un splendito] bersaglio
    pag. 435 diedi ordine a Martinotti [Martinoti]
    pag. 436 comandante la [le] Legione Filellenica
    pag. 442 una volta [valta] il nome italiano
    pag. 447 ai sicarî. (Vivissime approvazioni [approvaziani]
    pag. 447 al parricidio. (Vivissime approvazioni [approvazione]
    pag. 459 Il presidente della Camera dà [da] comunicazione
    pag. 459 des sentiments de mes collègues [collegues]





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*** START: FULL LICENSE ***

THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE
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or cause to occur: (a) distribution of this or any Project Gutenberg-tm
work, (b) alteration, modification, or additions or deletions to any
Project Gutenberg-tm work, and (c) any Defect you cause.


Section  2.  Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of computers
including obsolete, old, middle-aged and new computers.  It exists
because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from
people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need, are critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
remain freely available for generations to come.  In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations.
To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation web page at http://www.pglaf.org.


Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive
Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service.  The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541.  Its 501(c)(3) letter is posted at
http://pglaf.org/fundraising.  Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at
809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email
business@pglaf.org.  Email contact links and up to date contact
information can be found at the Foundation's web site and official
page at http://pglaf.org

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     gbnewby@pglaf.org


Section 4.  Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment.  Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States.  Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements.  We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance.  To
SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any
particular state visit http://pglaf.org

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
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against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
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Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
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works.

Professor Michael S. Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm
concept of a library of electronic works that could be freely shared
with anyone.  For thirty years, he produced and distributed Project
Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support.


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